criminalità di Stato
I mille George Floyd
di Claudia Pinelli
Quell'uccisione a Minneapolis ci riguarda tutte/i. Perché casi analoghi sono già successi, e continuano a succedere. Anche in Italia.
C'è un'immagine che inchioda l'orrore, mentre il video della morte di George Floyd, l'afroamericano ucciso il 25 maggio a Minneapolis negli Stati Uniti, continua a scorrere, fotogramma per fotogramma. È lo sguardo dell'uomo che indossa la divisa, quello che rappresenta lo Stato e sta sopra a un altro uomo che ha soggiogato e ridotto all'impotenza; è uno sguardo arrogante, di chi è certo del suo potere e della sua impunità.
La posizione è di dominio, chi è sotto il peso del suo corpo implora, lui rimane sordo, non curante, l'altro è “oggetto” senza storia e sentimenti, la misura coercitiva si applica a prescindere, fa parte di quel protocollo che autorizza alla violenza, non importa il reato, se reato vi è stato, la sua gravità, non importano le conseguenze del proprio gesto.
Il video urla, veicola gesti e suoni angoscianti, di quel morbo che porta esseri umani a sentirsi superiori, potenti, in virtù di divise, a esercitare la propria forza su chi è debole, impotente, inerme, impossibilitato a reagire. Sul nero in questo caso, elemento cromatico che in una nazione come l'America ancora contraddistingue chi può e chi non può, il colore della pelle come metro distintivo, il razzismo che pervade la società in modo anacronistico ma sferzante nelle disuguaglianze, nella violenza agita, nelle prospettive che si infrangono sull'ingiustizia profonda.
Le rivolte estese in proteste vibranti anche violente a questo ennesimo omicidio di uno Stato che può decretare la morte e non solo attraverso una sentenza di tribunale, smuovono coscienze e reazioni, non permettono indifferenza sull'uccisione di chi è già, suo malgrado, diventato simbolo della violenza di quel potere che si considera al di sopra e che non accetta di essere messo in discussione, tantomeno giudicato, e che riporta la responsabilità sui singoli, “mele marce” da dare in pasto nel caso lo sdegno diventasse troppo pressante, come non ci fossero modalità e protocolli imposti o accettati dal sistema.
I tentativi di insabbiamento ci sono stati subito, come troppo spesso avviene di qua e di là dell'Oceano quando si è costretti a trovare giustificazioni per sedare la reazione di un'opinione pubblica non accondiscendente. Versioni di comodo di autopsie di parte che sanciscono morti accidentali e patologie pregresse, in un qualcosa che abbiamo già visto e vissuto sulla nostra pelle, e che ci riporta ai nostri morti e alle versioni addomesticate e accomodanti di malori attivi e epilessie, nel tentativo di sviare e attenuare, nel rifiuto di una verità per la salvaguardia della ragion di Stato.
È successo in America ed è stato filmato, ma è successo e succede in Italia, da Pino Pinelli a Franco Serantini, da Roberto Franceschi al G8 di Genova, dove alla macelleria compiuta dalle “forze dell'ordine” lasciate libere di compiere ogni sorta di nefandezza, compreso l'omicidio di Carlo Giuliani, sono seguite l'omertà, la copertura, i depistaggi, le promozioni. E la colpevolizzazione delle vittime in un copione già scritto, perché in fondo “se la sono andata a cercare”.
Come Federico Aldrovandi, schiacciato a terra e soffocato da quattro poliziotti che lo hanno picchiato rompendogli addosso due manganelli una notte a Ferrara, o Riccardo Magherini ucciso a Firenze dai carabinieri che aveva chiamato per essere aiutato, a Michele Ferrulli che non vedrà l'assoluzione dei poliziotti perché morto durante il loro intervento. E solo pochi casi che vedono la perseveranza soprattutto di donne, coraggiose e tenaci, riescono a conquistare le cronache e a scalfire quel muro di omertà.
Ci sono voluti dieci anni a Ilaria, sorella di Stefano Cucchi, dieci anni di insulti, di falsità, di fango gettato addosso alla vittima e alla sua famiglia per coprire le responsabilità di divise coperte di sangue.
È successo in America ed è stato filmato, ma succede in Turchia, succede ogni giorno in Palestina, terra senza diritti, nell'indifferenza della comunità internazionale. E quel virus che colpisce e fa smettere di respirare ha un corpo e indossa una divisa e ovunque succeda ci riguarda.
Claudia Pinelli
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