Anarchici e socialisti a fine Ottocento/
Le passioni, i sentimenti, le emozioni e l'immaginario
Elena Papadia, “storica dei sentimenti” più
che storica dell'anarchismo o del socialismo, con una forma
narrativa accattivante e basandosi anche su fonti primarie –
epistolari, diari, memorie autobiografiche, ecc. – si
dimostra capace di condurre il lettore in uno straordinario
itinerario, “mentale” e intimo, nei meandri più
reconditi dell'ethos dei rivoluzionari (La forza dei
sentimenti. Anarchici e socialisti in Italia (1870-1900),
Il Mulino, Bologna 2019, pp. 280, € 25,00). Rivoluzionari
che, in quell'epoca di transizioni verso la modernità,
difficile ma colma di speranze, stanno giocando, è il
caso di dire, la loro “scommessa esistenziale”.
È così che nel racconto storico entrano in campo
fattori in apparenza extrapolitici, un tempo ingiustamente trascurati:
e sono, appunto, le passioni, i sentimenti, le emozioni e l'immaginario.
È
dunque, non solo possibile ma necessario, nutrire il processo
storico attraverso questi parametri, cogliendone l'incidenza
sociale e politica, fra continuità e cambiamento, articolandone
mappe e sequenze, individuandone le specifiche dimensioni di
genere, culturali, ecc. A ben vedere tale contemporanea linea
di tendenza dell'indagine ha una propria genealogia nelle correnti
a suo tempo gemmate dal vigoroso tronco delle cosiddetta Nouvelle
histoire e, prima ancora, dalla nascita e dall'influenza
delle «Annales» (“All'inizio della storia
delle emozioni c'è un solo uomo, Lucien Febvre”).
Da evidenziare anche, per quanto attiene le fonti di letteratura
consultate per il presente studio, il giusto merito che viene
riconosciuto alla storiografia sull'anarchismo che, negli ultimi
decenni e nel solco dell'insegnamento di maestri come Pier Carlo
Masini, ha fatto da precursore per tale indirizzo: con le sue
forti aperture a questi approcci, biografici soprattutto e anche
generazionali, e “per il peso maggiore [assegnato] alla
volontà individuale e alle scelte morali come fattori
del processo storico” (p. 12). Ciò, si deve dire,
a prescindere dalla compulsa, a nostro parere non esaustiva,
di queste stesse opere da parte dell'autrice.
Il volume si struttura in sei densi capitoli. Il primo (In
famiglia) affronta il tema del nesso fra scelte individuali
radicali e contesti familiari, cruciale sempre quando ci si
addentra nello studio di quelle generazioni di rivoluzionari
che hanno profuso le loro militanze negli snodi epocali moderni
e contemporanei. Stabilendo così una chiara dicotomia
tra eredi delle ribelli cospirazioni dei padri – perché
in Italia anarchismo e socialismo sono un'evidente filiazione
della sinistra risorgimentale – e “spostati”,
ossia di coloro che compiono il loro primo passo conflittuale
rinnegando invece la potestà parentale.
Nel secondo capitolo (La famiglia al femminile), a riprova
di come sia considerata basilare l'analisi di questo corpo sociale
intermedio per lo scavo dell'ethos individuale sovversivo, si
indagano ancora le relazioni familiari ma con una visuale di
genere. Ad esempio: padri mangiapreti versus madri baciapile
è l'archetipo antropologico che ha accompagnato, sul
lungo periodo, la storia politica e sociale italiana. Ma c'è
anche, di contro, la “simbiosi affettiva” di figlie
e sorelle. “Cresciute generalmente in una zona di depoliticizzazione,
testimoni silenziose degli ardori e delle imprese dei maschi
della famiglia, le sorelle veneravano i fratelli e spesso soccombevano
alle loro esigenze di cavalieri dell'ideale...” (pp. 70-71).
Il terzo capitolo (Ragione, finzione, cuore) attiene
ai processi di acculturazione proletaria e alla «capacità
della letteratura di cambiare lo sguardo sul mondo» (p.
85), focalizzandosi sugli orizzonti emotivi che si creano non
solo su libri e giornali, ma anche nell'ambito della socialità
operaia, nei luoghi e nei momenti topici della comunicazione
e delle sollecitazioni emotive, come comizi, conferenze, teatro
popolare o magari nei canti ribelli intonati all'osteria e nelle
bettole. È l'epoca degli “scrittori militanti”.
Il quarto capitolo (Sull'amicizia) riguarda il fenomeno
della convergenza ideale, e romantica, nelle sue varie forme
e situazioni: si va dagli studenti universitari engagés
alla rete amicale e di compagni. Il metodo di indagine utilizzato
è quello, fruttuoso, dello studio delle evidenze relazionali
attraverso una network analysis basata su fonti primarie.
Viene poi raffigurato, insieme all'immaginario nella coppia
contrapposta compagno e/o fratello versus nemico, quello
più complesso di “traditore”, o ex che dir
si voglia, attraverso casi esemplari abbastanza noti.
Il capitolo quinto (Sull'amore) prende le mosse dall'altruismo,
in quanto attitudine e senso etico, cifra dell'anarchismo di
Errico Malatesta come dell'umanesimo socialista dei vari Turati,
Merlino e Prampolini; perché l'infelicità, nell'interpretazione
del comunardo Benoît Malon, “è esattamente
il grumo di dolore da cui nasce il socialismo” (pp. 177-189).
Pietro Gori e Domela Nieuwenhuis, ma anche il Leopardi della
Ginestra, oppure Pascoli, Ada Negri (poi diventata fascista
e nel 1943 repubblichina): le connessioni letterarie richiamano
interpretazioni convincenti su quale sia stato il profilo antropologico-culturale
del milieu rivoluzionario italiano, con buona pace dell'esegesi
veteromarxista.
Il sesto e ultimo capitolo (Sull'odio), dedicato all'immagine
del nemico e al problema della violenza politica, racchiude
in poche pagine un tema storiograficamente emergente che avrebbe
invece meritato più spazio e più riferimenti.
Utile alla lettura è il Prologo; si tratta in
realtà di una breve cronologia che però si ferma
al 1872 (invece che al 1900, terminus ad quem enunciato
nel titolo).
In un irresistibile viaggio, tra le scienze storiche e le scienze
della vita, le pagine della Papadia ci propongono, con stile
convincente, uno sguardo altro sul sovversivismo tardo-ottocentesco,
inteso quale comunità emotiva.
Giorgio Sacchetti
Un'epopea anarchica/
Letture per tempi difficili
Mi ha sempre affascinato l'agire delle persone e dei movimenti
nei momenti difficili. Cosa si fa quando ci si sente soli, in
un contesto che si percepisce in gran parte ostile? È
una sensazione che la maggior parte delle lettrici e dei lettori
di questa rivista, immagino, abbiano provato almeno qualche
volta. Vivendo nella bassa padana più profonda, devo
ammettere che conosco molto bene questa sensazione. Ma non è
solo una questione di prossimità esistenziale, per così
dire. Piuttosto che contemplare i “fasti” del passato,
ho sempre trovato più stimolante capire le ragioni delle
crisi, delle situazioni difficili del passato stesso, analizzare
le risposte e le vie d'uscita progettate.
Questi
pensieri si sono confrontati con la lettura di La cavalcata
anonima di Louis Mercier Vega (elèuthera, 2019, pp.
176 € 15,00). Figura di militante e intellettuale morto
suicida nel 1977, in questo volume Vega ci propone un racconto
autobiografico che, secondo me, offre due livelli di lettura.
Di primo acchito, si tratta di un romanzo. La narrazione si
apre nel settembre 1939: Hitler ha invaso la Polonia dopo essersi
accordato con Stalin (il famigerato patto Molotov-Ribbentrop)
all'indomani della tragica sconfitta della rivoluzione spagnola.
All'epoca, Marsiglia è un porto pericoloso per i rifugiati
politici in fuga da mezza Europa: italiani dal fascismo, tedeschi
dal nazismo, tutti dalla Spagna di Franco.
«Ogni militante si giocava la sua libertà nell'immediato,
e più di uno si giocava anche la pelle», scrive
Vega, in un paese che era diventato «una gabbia all'interno
di una più grande gabbia europea che si stava richiudendo»,
trasformando Marsiglia in una «trappola per topi»
(p. 20). Su questo sfondo si muovono Parrain e Danton, i due
alter ego di Vega, giovani disertori francesi e reduci della
guerra civile spagnola di tutte le nazionalità ed età,
ciascuno alla ricerca di buoni documenti, ciascuno dubbioso
se rimanere e fare il possibile rischiando tutto o espatriare,
in cerca di un nuovo approdo, magari più sicuro.
Questa è la scelta compiuta da Parrain e Danton che,
via Bruxelles, riescono a imbarcarsi insieme ad altri compagni
su una nave verso l'America Latina. Iniziano così i due
capitoli centrali del libro, che mi hanno ricordato per certi
versi La nave morta di Ben Traven, un bellissimo romanzo
che contiene in sé una critica radicale alla logica dei
confini nazionali. Nel corso della navigazione, ogni personaggio
condivide con gli altri un proprio frammento di vita, sempre
a cavallo tra l'ironia e la malinconia (il mio preferito è
il racconto di Bob la Boulange su come scovare antinazisti...
nel più grande bordello di Parigi!).
Dopo essere approdati a Rosario, il gruppo si divide. Danton
e Parrain finiscono a Buenos Aires dove partecipano alle attività
di un gruppo anarchico internazionale. Nel 1940 le loro strade
si separano: Parrain continua il suo cammino approdando a Santiago
del Cile, Danton si arruola in Forces Libres per andare a combattere
il nazismo (la scelta effettivamente compiuta da Vega).
Fin qui il piano del racconto. Al suo fianco, dal mio punto
di vista, si schiude però un secondo piano, che interessa
le vicende e il pensiero dell'anarchismo novecentesco. Ho trovato
insomma La cavalcata anonima non solo un bel racconto,
ma anche un affascinante e sofferto spaccato dell'anarchismo
davanti a uno dei più drammatici passaggi della sua storia:
dissanguato dalla sconfitta subita in Spagna e davanti alle
avvisaglie della Seconda guerra mondiale, viveva in un mondo
stretto tra due blocchi contrapposti, pressoché privo
di alleati e circondato da nemici.
In questa congiuntura l'anarchismo internazionale si divise
tra chi assegnava la priorità alla sconfitta di Hitler
e chi invece anteponeva la fedeltà a se stessi. È
un dibattito, quello sulla Seconda guerra mondiale, importante
quanto quello scatenato dal conflitto precedente e che solleva
problemi immani: la questione della coerenza mezzi/fini, il
ruolo dell'azione diretta in un momento in cui gli spazi di
agibilità andavano inesorabilmente chiudendosi («Ci
sono periodi in cui non si riesce a cambiare le cose. È
meglio metterselo in testa, invece di nascondere l'impotenza
dietro gesti inutili, o peggio ancora imbarcarsi su una nave
che non è la nostra», p. 110), il rapporto con
le altre correnti nel quadro dell'antifascismo, il discorso
sull'organizzazione.
Oltre a questi aspetti, il libro di Vega è una fotografia
del mileu (p. 104) anarchico, uno spaccato di questa
«famiglia (...) in perenne movimento» (p. 118).
In una discussione tra i due alter ego di Vega e un certo Raco
(una delle più interessanti insieme a quelle con Duque,
nome dietro il quale si nasconde l'anarchico Jacobo Prince),
Parrain afferma con un misto di malinconia e di orgoglio che
«l'Internazionale esiste. E siamo noi (...) sono perfettamente
consapevole della portata miserevole delle nostre azioni. So
che non contiamo granché (...). Ma noi non siamo né
stati maggiori, né tantomeno tecnocrati destinati a guidare
il mondo verso il socialismo con un regolo calcolatore o una
procedura infallibile. Siamo militanti che vogliono mettere
nella pratica, nei limiti del possibile, il socialismo e l'internazionalismo»
(pp. 118-119). Sono parole che chiariscono il luogo, l'attitudine
che continuava a vivere in un movimento stretto in una morsa
mortale.
La cavalcata anonima fa quindi riemergere volti e vicende
di rifugiati, di militanti «picchiati, insultati, schiacciati
e abbandonati» (p. 119), eppure sempre disposti a stringere
reti, a dare vita a proteste e manifestazioni, a prendere le
difese degli ultimi, poco importa il continente in cui si trovano.
È un libro che emoziona, che racconta (senza volerlo)
un'epopea, sempre con uno sguardo ironico, scettico, che stempera
i drammi, che strappa un sorriso, che incoraggia a rimanere
lucidi e a non perdere la volontà anche nelle circostanze
più drammatiche.
David Bernardini
Tra distopia e realtà/
Minuscole ribellioni e grandi autoritarismi
Quando, ai primi di marzo, è iniziata la quarantena
anche dalle mie parti, mi sono ripromessa di leggere tanto.
Avendo abitualmente poco tempo, avevo accumulato una serie notevolissima
di arretrati di generi diversi: saggi, romanzi, biografie, racconti,
poesie. Avevo voglia e bisogno di leggere di tutto un po', non
solo perché mi piace, ma anche e soprattutto per far
girare la mente e toglierla da quel tragico e asfissiante elenco
quotidiano di numeri e dati.
Mi
ero autoimposta un'unica condizione: non avrei letto nulla di
distopico, che tale mi pareva già a sufficienza la realtà.
Il racconto dell'ancella (Margaret Atwood, Ponte alle
Grazie, Milano 2017, pp. 400, € 15,00) giaceva sul mio
comodino da qualche mese; regalatomi da un'amica che invano
aveva tentato di convincermi a guardare la serie TV, divenuta
un cult nel genere dalla sua uscita nel 2017, aspettava il mio
tempo in compagnia di altri libri. Ma trattandosi, appunto,
di romanzo distopico, no, non lo avrebbe avuto nemmeno stavolta.
Quella sera ero andata a letto tormentata da un cattivo pensiero
che riguardava la cosiddetta normalità. Quella dello
stranissimo mese di aprile, ma anche quella di prima del virus.
La domanda martellante, torna tutto come prima o resta tutto
come adesso, poi quella bellissima frase che girava sul web
e diceva che non vogliamo tornare alla normalità perché
la normalità è il problema, ma come tutte le frasi
ripetute troppe volte diventava infine uno slogan e perdeva
di significato e mi lasciava più confusa del “normale”.
Così decisi di fare quel famoso giochino, aprire un libro
in una pagina a caso e leggere la prima frase che capita sotto
gli occhi.
La normalità, diceva zia Lydia, significa ciò
a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare
normale al momento, dopo un po' di tempo lo sarà. Diventerà
normale.
Già.
Tutto può diventare normale, anche le cose che ci sembrano
strane. La pandemia può essere (stata?) un'orrenda realtà,
oppure al contrario un'invenzione funzionale al sistema, può
essere successa o essere stata creata ad hoc, finire o durare,
ma tutto questo non ha in fondo così tanta importanza.
Importa invece quanto io, quanto noi, ci abituiamo alle situazioni,
alle regole, alle emergenze o a quella che consideriamo appunto
normalità, tanto da non riconoscerne più i limiti
le devianze e le tragedie.
D'altronde è stato sempre così nella Storia. Ci
si è abituati, in massa, ai regimi più impensabili
e alle situazioni più agghiaccianti. Ai proclami degli
uni e degli altri. Alle leggi e ai dettami religiosi.
Ai nostri nonni sembrava normale Mussolini. In Argentina sembrava
normale che le persone sparissero a mucchi durante il regime.
In Sudafrica era normale l'apartheid. Negli Stati Uniti del
2020 è normale per un uomo soffocarne un altro tenendo
le mani in tasca, conservando l'espressione più normale
del mondo.
Se ripeti una bugia per un milione di volte, questa diventa
verità. Forse non è Goebbels l'autore del famoso
detto che alcuni attribuiscono addirittura ad Aristofane, duemila
anni prima. Anche se al ministro della propaganda nazista va
riconosciuta l'estrema efficacia nell'applicarlo. Ma vale mica
solo per il virus, il detto è applicabile a moltissime
situazioni che hanno a che fare con i comportamenti e la vita
sociale, di una piccola collettività come di una grande
nazione.
Certo non vale per tutto; non vale, ad esempio, per la scienza.
Non si può postulare qualcosa come veritiero se non ci
sono delle prove fisiche o teoriche a testimoniarlo. Peccato
che alla scienza, per postulare, occorre tempo, e nelle emergenze
il tempo non c'è.
Ecco dunque che alla scienza si sovrappone il caos, gli interessi
di questi e di quelli, l'informazione superficiale dove la caccia
alle bufale è divenuta attività primaria, l'ego
da “primadonna” di certi virologi, epidemiologi
e compagnia cantante.
Scritto nel 1985, Il racconto dell'ancella è ambientato
in un futuro prossimo, quindi praticamente adesso, in una teocrazia
totalitaria che ha rovesciato il governo e preso il potere nel
nord degli Stati Uniti.
Ispirandosi ai grandi romanzi distopici del '900, da 1984
a Il mondo nuovo e Fahrenheit 451, ma anche raccogliendo
e studiando documentazione e testimonianze su fatti avvenuti
e comportamenti umani messi in pratica in altre epoche o paesi,
Margaret Atwood indaga sulla condizione femminile estrema, la
totale sottomissione della donna, con le funzioni riproduttive
al servizio del sistema, le altre funzioni basiche a disposizione
del padrone e della sua corte.
Su un pianeta – proprio il nostro, mica uno lontano da
noi – inquinato e radioattivo, dove il malcontento serpeggia
tra la popolazione, si insedia la “Repubblica di Gilead”,
regime di ispirazione biblica vetero-testamentaria.
Dichiarate illegali le altre religioni, i matrimoni al di fuori
della Chiesa, la lettura per le donne; esiliati o uccisi i ribelli;
eliminate le “nondonne”, quelle non fertili o troppo
anziane, private le altre di ogni bene, diritto e libertà.
Il vertice della piramide sociale è rappresentato dai
Comandanti, gerarchi e depositari del potere.
La protagonista, nome d'arte Difred a segnare l'appartenenza
a qualcuno (Di-Fred), che prima conviveva con un uomo divorziato
e da lui aveva avuto una bimba, è costretta nel nuovo
regime al ruolo di “ancella”, schiava sessuale di
un Comandante.
Vi sono altre categorie sociali nel romanzo: le serve, dette
Marte, gli Occhi, membri dei servizi segreti, i Custodi, a cui
sono negati i rapporti con le donne, gli Angeli, ossia i militari,
le Mogli dei Comandanti e degli Angeli, le Zie, arcigne guardiane
del rigore morale, le Economogli, sposate a uomini di basso
ceto sociale.
In questa nuova vita, se così la si può definire,
Difred punta alla mera sopravvivenza, dettata anche dalla speranza
di avere prima o poi notizie della figlia.
In quanto ancella, l'unico mezzo per ottenere una certa considerazione
sociale è sperare di avere un figlio da un Comandante;
subendo per di più gli atteggiamenti gelosi e invidiosi
delle Mogli e delle Marte. Perché uno dei punti di forza
di questa organizzazione patriarcale è sicuramente l'ostilità
che ogni categoria di donne mette in atto verso le altre, dato
che ad ognuna di loro è negato tutto, fuorché
il ruolo assegnato dal regime.
Nel caso di Difred, la situazione è complicata dal fatto
che il suo Comandante è sterile, non è mai riuscito
a procreare con nessuna delle ancelle precedenti.
La Moglie lo sa, ma non può ammetterlo pubblicamente,
poiché secondo l'interpretazione biblica solo alla donna
e non all'uomo può essere imputata la sterilità.
Questa condizione dà il via alla trama del romanzo, fatta
di tradimenti, inganni, sorellanze clandestine e infine la fuga;
però non è la trama a rimanere impressa al termine
della lettura, quanto la descrizione di questo mondo distopico
resa con una scrittura asciutta e cruda, poco empatica, eppure
intrisa di un'emotività che stavolta non deriva dallo
stile, ma dalla consapevolezza.
Consapevolezza del fatto che Gilead non è così
lontano. Non è così distopico. E che forse il
virus riesce a farcelo vedere con più chiarezza.
In questo mondo regolato e asettico, gli istinti perversi, la
carne, le pruriginose voglie represse, così come al contrario
i gesti generosi, la sorellanza, in rarissimi momenti persino
la tenerezza, emergono improvvisi, in tutto ciò che ufficialmente
è vietato: nei bordelli, nei letti degli amanti, nei
movimenti clandestini.
Il romanzo termina con un epilogo ambientato circa due secoli
dopo, in una specie di simposio tenutosi nel 2195, durante il
quale emergono testimonianze della vita di Difred. Si tratta
di registrazioni che chiudono il romanzo lasciandolo aperto,
perchè l'esistenza delle registrazioni suggerisce che
la protagonista sia fuggita con l'aiuto di Nick, il suo custode-amante;
ma non si sa se sia stata in seguito ricatturata, se abbia superato
il confine ma abbia mantenuto l'anonimato per evitare ritorsioni
contro Nick e la figlia, o se non sia stata capace di riadattarsi
alla vita nel mondo fuori da Gilead.
“È un avvenimento, una piccola sfida alle regole,
così piccola da non poter essere scoperta, ma questi
attimi sono le ricompense che mi offro, come le caramelle che,
da bambina, accumulavo in fondo al cassetto. Questi attimi sono
possibilità, spiragli”.
A me resta questa certezza, questo piccolo messaggio applicabile
al quotidiano.
Le minuscole ribellioni che diventano ragione di vita, aneliti
verso rivoluzioni più radicali, promesse di cambiamenti
più grandi.
E poi quell'altra certezza, d'ora in poi davvero non leggerò
più un romanzo distopico durante una quarantena. Che
poi finisce che non distinguo più la distopia dalla realtà.
Claudia Ceretto
Rivoluzione russa/
Diario di guerra e di rivoluzione
“Non c'è figura eminente che non abbia attraversato
periodi di fede nella rivoluzione. Per qualche minuto anche
nei bolscevichi. Sembrava che da un momento all'altro sarebbero
crollate la Germania e l'Inghilterra, e che l'aratro avrebbe
cancellato le ormai inutili frontiere. E il cielo si sarebbe
ritirato come pergamena che si arrotola. Ma il peso delle abitudini
attirava verso il suolo la pietra della vita lanciata orizzontalmente
dalla rivoluzione. Il volo si trasformava in caduta.”
La
domanda che nasce inevitabile a metà del libro di Viktor
Šklovskij (Viaggio sentimentale. Memorie 1917-1922,
Adelphi Edizioni, pp. 346, € 22,00) è: “Ma
come è possibile che, dopo aver scritto queste pagine,
Šklovskij sia non solo rientrato in Russia, ma abbia placidamente
attraversato la metodica disinfestazione staliniana?”
La risposta da qualche parte ci sarà, ma ammetto la mia
momentanea incapacità a provvederla (anche perché
non parlo e non leggo il russo) – e questo resta un interrogativo
per il futuro. Sappiamo però che l'autore è morto
nel 1986, a 91 anni, vedendo quindi la dipartita di Lenin, di
Stalin e anche di Brežnev. Aveva quindi trovato qualche
modo per far “dimenticare” queste memorie, risalenti
a tanti anni prima.
Nonostante una moderata resistenza personale nell'acquistare
e ancor più a recensire testi pubblicati da case editrici
pienamente inserite negli ordinari circuiti commerciali (anche
se a ognuno sarà palese come Calasso sia immensamente
più interessante, per dire, dei proprietari dell'Einaudi),
non ho resistito alla tentazione indotta dalla nuova traduzione
del diario di guerra e di rivoluzione di Viktor Šklovskij.
Avendo trascorso molto tempo ad occuparmi di un testo –
le memorie di Tomasz Parczewski, governatore di Kronštadt
nell'estate del 1917 – che descriveva gli stessi anni
e, in parte, gli stessi luoghi, non potevo evitare il confronto
con una narrazione di identici eventi da un angolo prospettico
diverso. Il titolo, dichiarato omaggio a Sterne, potrebbe essere
fuorviante, in quanto il coinvolto racconto del letterato combattente
diviene, con il trascorrere delle pagine, una specie di trattato
involontario sul potere e sull'umana ferocia.
Non quella gelida, organizzata e tecnologizzata del nazionalsocialismo
a venire, ma di popoli che sembrano avere come unica via di
uscita il sopraffarsi e massacrarsi l'un l'altro fino alle estreme
conseguenze. Da precisare che il volume consiste di contributi
scritti in momenti e luoghi diversi, poiché la prima
parte, La rivoluzione e il fronte, viene terminata nell'agosto
del 1919, mentre La scrivania è del 1922, quando
lo scrittore, ricercato con zelo dalla Čeka, si trova fuori
dalla Russia. Socialrivoluzionario, esperto, oltre che di questioni
letterarie, di esplosivi e di mezzi blindati, Šklovskij
partecipa alla Rivoluzione di febbraio quando il potere zarista,
minato da anni di una guerra disastrosa, si sfalda perdendo
qualsiasi autorità sui militari e sul popolo che spontaneamente
insorgono contro l'autocrazia, prima a Pietrogrado e poi ovunque.
Come può essere una rivoluzione del genere? Molto disordinata,
innanzitutto, ma nei quadretti tragicomici scarnamente delineati
già si intravedono gli slittamenti sociali in atto, e
quelli che verranno. Mentre le strade ribolliscono lo scrittore
si reca da un amico letterato, dove trova un appartamento nel
quale: “[...] non ci si muoveva e mancava l'aria, cibo
ovunque, una muraglia di fumo, tutti che giocavano a carte e
avrebbero continuato a giocare per due giorni di fila. In seguito
quest'uomo è diventato – molto presto e con piena
convinzione – bolscevico e membro del partito. Così
come sono divenuti comunisti quasi tutti quelli che giocavano
a quel tavolo. A me però resta ancora nitidamente impressa
nella memoria la loro altezzosa ironia nei confronti dei «disordini
di strada»”.
Šklovskij non era bolscevico e non faceva parte di quelli
che osteggiavano il proseguimento della guerra. Condivideva,
viceversa, l'idea che l'“Offensiva Kerenskij” potesse
rappresentare la spinta che aprisse le porte della rivoluzione
anche alla Germania, e quindi all'Europa intera: “Aveva
senso far avanzare truppe del genere? Perché non capivamo
che non si poteva combattere con una simile marmaglia al fronte?
In parte perché non c'era per noi altra via d'uscita
dalla guerra se non una chiara vittoria sulla Germania, vittoria
che sola, a nostro avviso, avrebbe potuto scatenare la rivoluzione
anche lì.”
Convinzione del tutto infondata, visti gli esiti catastrofici
dell'avanzata di un esercito ormai completamente destrutturato
e demotivato, durante la quale, nei suoi disperati tentativi
di condurre le truppe, l'autore rischia di farsi ammazzare da
una pallottola che gli buca la pancia. È solo la prima
volta che guarda la morte in faccia, ce ne saranno diverse altre.
La netta percezione dello sfacelo militare e politico che avanza,
arrivando al momento cruciale per il futuro della Russia –
il tentato putsch di Kornilov dell'estate del 1917 –
spinge Šklovskij ad andare il più lontano possibile,
ovvero sul fronte persiano dove i russi (e gli inglesi) combattevano
l'Impero ottomano.
“I territori occupati dalle nostre truppe erano l'Azerbaigian
persiano e parte del Kurdistan. La popolazione era eterogenea:
persiani, armeni, tatari, curdi, assiri nestoriani, ebrei. Tutti
questi popoli convivevano – abbastanza male – dall'alba
dei tempi. Poi erano arrivati i russi e la vita era cambiata.
In peggio.”
La graduale destabilizzazione di ogni sistema organizzativo
e la distruzione del fragile tessuto produttivo porta a un aumento
dell'intolleranza reciproca e della violenza che vede alternarsi
guerriglia di tutti contro tutti; e dove all'elenco su riportato
si aggiungono georgiani, ungusi, cosacchi, ceceni, coloni e
soldati russi, turchi, ucraini.
“Si può immaginare quanto i curdi odiassero i nostri
reparti di requisizione, tanto più che molte divisioni
si occupavano dell'approvvigionamento alimentare in autonomia,
cioè senza alcun controllo. Uno di questi reparti è
stato accerchiato dai curdi. Al comandante, un certo Ivanov,
che si era difeso a lungo con la sciabola, hanno mozzato la
testa e l'hanno data ai bambini perché ci giocassero.
I bambini ci hanno giocato per tre settimane.”
Senza enfasi, quasi con meditata e sofferta leggerezza (“Ho
una buona memoria. Se non l'avessi, la notte dormirei meglio.”),
Šklovskij ci fa il prezioso regalo di rivelare agli ottimisti
un lato della natura umana che a volte trascuriamo, con i soldati
russi che rivendicano, una volta precipitati tra popoli ferini,
di essere diventati belve essi stessi. Tra saccheggi di massa,
violenze sulle donne (“[...] quando i nostri facevano
irruzione in un villaggio, le donne, per salvarsi dallo stupro,
si spalmavano di feci il viso, il petto e il corpo dalla vita
alle ginocchia. Ma i soldati le pulivano con degli stracci e
le violentavano”), efferatezze incrociate, degrado totale
dei reparti (“Quella notte ho inviato a Task un telegramma
terrorizzato. «Passati in rassegna i reparti del Kurdistan.
In nome della rivoluzione e della dignità umana chiedo
il ritiro delle truppe»”) e commerci inqualificabili
(“[...] per un fucile davano dai due ai tremila rubli
[...] una donna [...] a comprarla per sempre costava quindici
rubli usata, quaranta rubli mai usata”), si percorrevano
strade i cui margini erano disseminati di ossa, si lottava per
la sopravvivenza, per impossessarsi delle poche risorse, per
la religione, spazzando via interi villaggi, sterminando legioni
di bambini abbandonati alla fame e al freddo. “Per tutto
l'Oriente, dall'Irtyš all'Eufrate, si combatteva e ci si
ammazzava.”
Poteva essere questo un capolavoro letterario? Sì e no.
A tratti Šklovskij dimostra le sue capacità di scrittura,
come nell'incipit della seconda parte, quando riflette sul suo
ruolo negli eventi e rinnega la scelta di combattere per dare
un indirizzo agli eventi: “Quando cadi come una pietra
non bisogna pensare, e se pensi non bisogna cadere. Ho confuso
due mestieri. Ciò che mi muoveva era al di fuori di me.
Ciò che muoveva gli altri era al di fuori di loro. Io
sono soltanto una pietra che cade. Una pietra che cade, e cadendo
può accendere una lanterna per vedere dove va a finire.”
Ma troppa era l'urgenza di stilare in fretta queste pagine,
che a volte sembrano un diario, altre la trascrizione di un'intervista.
Anche la traduzione spesso non aiuta, con scelte discutibili,
ad esempio una spiccata avversione per il passato remoto, oppure
usando “Tiflis” per indicare una famosa città
che in italiano si chiama Tbilisi, aggravando un senso di improvvisazione
che era però, con tutta probabilità, inevitabile.
Se avesse dovuto sistematizzare il suo racconto, meditarlo,
il libro non sarebbe mai arrivato alla pubblicazione, con grave
danno per tutti noi. Perché Šklovskij, senza alcuna
pretesa di impartire lezioni, documenta una realtà inimmaginabilmente
difficile e truce, che forse non piacerà a chi pontifica
di popoli orientali con ben chiara l'idea di chi siano (stati)
i buoni e chi i cattivi; e forse neppure a chi è convinto
che i percorsi di trasformazione siano precisi e ben delineati.
Ma in fondo è sempre così, la realtà si
ribella ovunque ai nostri incasellamenti, tortuosa e inafferrabile.
Giuseppe Aiello
Ronchi dei Partigiani (o dei Legionari?)/
Storia di un nome
Il volume Ronchi dei partigiani, toponomastica, odonomastica
e onomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia”
(edizioni Kappa Vu, Udine 2019, pp. 224, € 14,00) è
un'acuta e utilissima provocazione. Il sottotitolo dice che
il libro raccoglie gli atti di un convegno svolto nel 2014 a
Selz di Ronchi dal titolo “Di cos'è il nome un
nome”.
Ecco, la provocazione risiede proprio in questo, nel fatto cioè
di sottoporre a critica quello che per i più è
naturale e ovvio: i nomi delle strade che percorriamo, dei luoghi
dove viviamo, dei monti e dei fiumi, testimoni perenni della
nostra esistenza. Se una cosa davamo per scontata era che si
chiamassero come avevamo imparato a conoscerli da bambini.
Ricordo
che per me scoprire che Poggio Terza Armata non era il vero
e unico nome del paesino davanti al quale passavo tutti i giorni
e che in realtà il suo nome era, nel migliore dei casi,
l'italianizzato Sdraussina o in realtà lo sloveno Zdravščine
è stato per me una rivelazione deflagrante, come quando
si viene a sapere del tradimento di una persona cara e si intuisce
la lunga serie di bugie che lo hanno preceduto.
L'italianizzazione forzata dei nomi fatta dai fascisti ha segnato
per sempre la cultura del territorio, il modo di vedere le cose,
il senso comune. Non parliamo infatti di un'evoluzione naturale,
di un accumularsi di culture stratificate, ma di un reciso colpo
di spada, di un atto violento di snazionalizzazione che è
entrato come un veleno nel senso comune delle successive generazioni.
Il nazionalismo si inocula così, facendo intendere ai
bambini che tutto il paesaggio intorno è italiano e anche
oltre confine gli sloveni preferiscono la nostra dolce lingua
alla loro e chiamano le cittadine Aidussina, Villa del Nevoso,
Salcano, abbandonando le più aspre Ajdovščina,
Solkan, Ilirska Bistrica. Ai bambini, almeno a quelli della
vecchia generazione, implicitamente veniva insegnato che la
superiorità italiana era evidente e naturale. La pistola
fumante era il fatto che i grandi letterati e filosofi avevano
un nome in parte straniero ma in parte italiano, come Carlo
Marx, Federico Hegel, Isacco Newton.
Per quanto riguarda l'odonomastica, Marco Barone ha più
volte messo in rilievo il fatto che un goriziano vive in una
città in cui i nomi delle strade sono dedicate a battaglie
e a generali della prima guerra mondiale, dal comportamento
spesso poco onorevole. Non c'è una via a Gorizia che
ricordi la Resistenza o il 25 aprile. Essere circondati da una
esaltazione così acritica del primo conflitto, dell'inutile
strage di centinaia di migliaia di proletari italiani mandati
in trincea, non è affatto indifferente alla costruzione
del senso comune.
Il volume nasce dal lavoro di un gruppo di ricerca chiamato
Ronchi dei Partigiani teso a demistificare e a respingere l'immagine
di una cittadina per nulla partecipe dell'impresa del vate –
da Ronchi non partì alcun legionario – e che al
contrario pagò alla Resistenza, come ricorda Meneghesso,
un prezzo altissimo con 168 morti o dispersi tra il 1943 e il
1945 e 53 deportati, di cui 26 non fecero ritorno, su una popolazione
di poco più di 8000 abitanti.
Nell'intervista fatta da Barone e Meneghesso a Boris Pahor,
il famoso scrittore sloveno afferma che a Ronchi D'Annunzio
“salì solamente sulla sua automobile”, dopo
aver passato la notte ospite del podestà Alessandro Blasig.
Fin dall'introduzione Luca Meneghesso ci avverte che l'impresa
di Fiume altro non fu che un atto violento e colonialista organizzato
da Gabriele D'Annunzio nel 1919, per opporsi alla cosiddetta
“vittoria mutilata”. Il vate, ferocemente antislavo,
che chiamava “luridi croati” e “schiaveria
bastarda” i popoli della penisola balcanica – come
scrive Marco Barone nel suo saggio in cui mette in evidenza
gli scopi nazionalisti e revanscisti dell'impresa fiumana –
oggi viene esaltato per la sua carica eversiva e anticonformista,
quando i tratti del pensiero di D'Annunzio furono l'imperialismo
e il superomismo contigui al fascismo.
Il gruppo di ricerca ha portato a casa l'importante risultato
di revocare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, anche
in considerazione della presenza di una componente slovena sul
territorio limitrofo.
Sul passato plurilinguistico, sloveno e romanzo del territorio,
si sofferma il saggio di Maurizio Puntin, che distingue paesi
dove prevaleva la componente slovena come Turriaco e Redipuglia,
da quelli dove a prevalere era l'elemento italiano, come Ronchi
e Monfalcone, ma in proporzioni tutte ancora da verificare.
Alessandra Kersevan illustra come il termine “Venezia
Giulia”, coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli
nel 1863, dopo la terza guerra d'Indipendenza e l'acquisizione
di terre con una forte componente slovena come le Valli del
Natisone, sia stato utile culturalmente e politicamente a sottolineare
l'italianità e la romanità di un territorio da
sempre abitato da diverse popolazioni. “Venezia Giulia”
è dunque un nome che cerca di riportare ad unità
la molteplicità delle culture e delle provenienze dei
diversi popoli.
Il saggio di Piero Purich, documentato e approfondito, risulta
davvero esilarante nella lettura. Con un'ampia carrellata sui
mutamenti dei nomi di tante località italiane, ci dimostra
la variabilità della toponomastica che si è adattata
ai diversi rapporti di forza, al mutamento dei poteri, all'autorità
dei potenti con continue captatio benevolentiae dei più
forti. È il caso, ad esempio, del paese che diede i natali
all'anarchico Giovanni Passannante, attentatore di Umberto I
nel 1878. Il comune, per dimostrare la sua vergogna di essere
legato al pericoloso delinquente, mutò il suo nome da
Salvia di Lucania a Savoia di Lucania.
Lo scrittore Wu Ming 1 evidenzia la rimozione del massacro che
fu la prima guerra mondiale con un'opera di monumentalizzazione
e di nascondimento delle motivazioni politiche del conflitto.
In modo pertinente lo scrittore afferma che togliere da Ronchi
il suffisso “dei Legionari” non è una sorta
di damnatio memoriae, ma è un gesto che al contrario
ristabilisce la verità storica.
Concludono il volume una serie di Appendici utili a comprendere
il contesto storico che consentì la costruzione del monumento
a D'Annunzio nel limitrofo comune di Monfalcone nel 1960.
Per concludere, il compianto presidente di ANPI Silvano Bacicchi
ricostruisce la vera identità di Ronchi come luogo centrale
dell'opposizione al fascismo e descrive quello che è
stato uno dei primi e dei più importanti eventi della
Resistenza italiana: la Battaglia di Gorizia, che vide gli operai
del Cantiere marciare a piedi da Selz di Ronchi a Gorizia, nel
tentativo di fermare l'occupazione nazista del territorio dopo
l'8 settembre.
Lo scontro armato vide italiani e sloveni combattere assieme
e fu la data d'inizio di una delle più importanti e interessanti
Resistenze europee, dove fu decisiva la volontà di affrontare
i conflitti nazionali, che pure esistevano e pesavano nei rapporti
tra italiani e sloveni dopo il ventennio fascista.
Una storia difficile, sanguinosa e contraddittoria ma affascinante,
che trovò in Ronchi dei Partigiani uno dei luoghi privilegiati
del suo compiersi.
Anna di Gianantonio
Mutare per sopravvivere/
Un collettivo in anticipo sui tempi
Storia leggendaria, quella del collettivo Mutoid Waste Company,
incarnazione della cultura “cyberpunk” sin dagli
anni '80, ancor prima che il termine stesso fosse coniato dall'autore
di fantascienza William Gibson. Nell'84, infatti, questi anarcopunk
stavano già folgorando Londra e la campagna britannica
con feste illegali allestite in scenari degradati, piene di
surreali mezzi di locomozione e mostruose creature costruite
assemblando rottami e rifiuti, in un mix di musica tribale,
body art, performance di teatro radicale in stile Living Theatre,
costumi, effetti pirotecnici, sculture e scenografie d'ispirazione
techno-punk.
Il
mondo dei Mutoid è stata la pietra di volta in cui si
sono incontrati la cultura nomade dei traveller, il punk politicizzato
di gruppi come i Crass e la mentalità più aperta
e festaiola della generazione rave. Nella Londra del Thatcherismo,
le loro feste diventano una spina nel fianco dei governi che
si succedono fino agli anni '90, quando la repressione, diventata
insostenibile, li costringe a oltrepassare la Manica con enormi
e scenografici camion per zigzagare in Europa, prima Amsterdam
e Berlino, poi Parigi e l'Italia: viaggiavano e occupavano,
portando la propria arte in programmi televisivi, gallerie d'arte,
rave illegali, manifestazioni di protesta, centri sociali e
teatri sperimentali. Il loro immaginario post-apocalittico si
è materializzato in posti impensabili come il muro di
Berlino, attraverso il quale tentarono di far passare un gigantesco
uccello della pace, da Ovest a Est, anticipando la caduta di
tre mesi, o piazza San Pietro a Roma, nell'inverno del '91,
all'inizio della Guerra del Golfo, dove abbandonarono un carro
armato mutoide con il cannone puntato in direzione della finestra
del Papa.
Poi, qui in Italia, curarono le scenografie e i costumi della
sigla della trasmissione Avanzi, dopo una controversa
apparizione in un programma condotto da Raffella Carrà.
Parte della Mutoid Waste Company vive oggi a Santarcangelo di
Romagna, dove si è stabilita nel 1990 fondando Mutonia,
una comune artistica che ha evitato lo sgombero grazie al supporto
della comunità locale. La convenzione con il comune firmata
nel 2015 riconosce formalmente la loro comunità e il
futuro del sito, ma soprattutto dimostra l'importanza di unirsi
nelle lotte per “progettare e difendere la realizzazione
di un sogno comune”.
Oggi, dopo quasi quarant'anni, i Mutoid portano avanti progetti
molto diversificati e le loro creazioni si possono trovare anche
in alcune gioiellerie, oltre che nei maggiori festival musicali,
dagli Stati Uniti al Giappone, che restano la principale fonte
di reddito collegata al mondo delle feste. Nel 2012 a Londra
hanno allestito la cerimonia di chiusura delle Paraolimpiadi,
ottenendo riconoscimento dalle istituzioni inglesi che vent'anni
prima li avevano perseguitati. La loro mirabolante arte ecologica
ha ispirato generazioni di creativi e la loro estetica ha fatto
scuola, come dimostrano l'esplosione della warehouse art e del
fenomeno steampunk, nonché l'affezione di illustri collezionisti
delle loro opere, come l'icona dell'arte contemporanea Damien
Hirst.
Finalmente è uscito un libro, Mutate or die: in viaggio
con la Mutoid Waste Company (Agenzia X, Milano 2020, pp.
222, € 15,00) scritto dall'esordiente Rote Zora, appassionata
di body suspension e controculture con formazione in Storia
dell'Arte, che racconta nei dettagli questa avvincente storia
costellata di colpi di scena, concentrandosi nel far emergere
gli aspetti più rivoluzionari e attuali: il ruolo fondamentale
delle donne all'interno del collettivo; l'importanza dell'arte
del riuso creativo; l'impostazione della performance come azione
politica o come esorcismo dalle paranoie collettive; la lungimiranza
di una visione votata all'idea di impermanenza e reinvenzione
di se stessi, che vede l'incessante mutazione come unica via
di sopravvivenza.
Si parla di un'arte del “rifiuto” sia “in
termini di strategia esistenziale sia in chiave creativa”.
Gli eventi sono narrati in ordine cronologico grazie a un attento
lavoro di editing sulle numerose testimonianze raccolte dai
protagonisti, con l'aggiunta di una sezione fotografica a colori
che restituisce al meglio l'atmosfera retrofuturista.
Le interviste scavano nel profondo, in un magico incrocio di
specchi tra le tante voci narranti che rievocano ricordi personali
senza mai deviare troppo dal significato collettivo delle esperienze.
La scrupolosa e appassionata curatela di Marco Philopat e Paola
Mezza, autrice peraltro di molte delle vecchie foto raccolte
in appendice, chiude il cerchio di una lunga amicizia con i
Mutoid, risalente all'epoca in cui il collettivo italiano “Decoder”
suggerì di invitarli nel nostro paese, ovvero quel fatidico
1990 in cui, al Festival dei Teatri di Santarcangelo, nello
stile di alcuni episodi narrati nel libro, avvenne questo cruciale
incontro tra punk italiani e punk inglesi, destinato a mutare
per sempre le rispettive storie e anche quelle di molti di noi.
Tobia D'Onofrio
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