Calypso
Una
frase che mi ha lasciato un segno dentro l'ha scritta Jean-Claude
Izzo, che in Casino totale descriveva così la
musica che esce dall'autoradio: “L'oud si diffuse nella
macchina come un odore”. Poche parole messe insieme una
dietro l'altra, e che prima illuminano con discrezione e poi
svelano una verità. Frasi come questa mi fanno compagnia
prima di prendere sonno, mi tengono per mano, mi augurano il
meglio. Qualche mese fa questa frase me la sono ritrovata d'improvviso
davanti: ero a Venezia a un concerto di Anouar Brahem, tunisino
e nato solo pochi giorni dopo di me, non sono riuscito ad evitarla
e ci siamo scontrati. Lei s'è rialzata e se n'è
andata avanti per la sua strada come niente fosse e senza neanche
voltarsi, io però come ogni tanto mi succede devo aver
perso per un momento contatto col mondo. Quella serata la stavo
vivendo come l'avverarsi di un sogno: mi ritrovavo sul serio
seduto a distanza breve solo qualche metro da un musicista che
amo e che prima d'allora avevo potuto solo immaginare in sogno
ascoltandolo dentro ai dischi.
I sogni dei bambini
E riecco oggi di nuovo quella frase, me la sono ritrovata a
svolazzarmi intorno tutt'a un tratto appena appoggiato il pick
up su questo disco. Questa frase che mi è entrata in
casa senza bussare come un uccello perso, accompagnata dal rumore
del mare – anche questo improvviso, inaspettato. Rumore
di mare che qui in mezzo alle colline verdi manca da millenni,
il mare che mi manca me lo ritrovo d'incanto onde placide a
solleticarmi i piedi e le narici, profumo di sale, di acqua
di mare, onda azzurra e verde che mi prende e mi porta via.
Se oggi non mi trovate in casa a scontare la quarantena è
un po' per colpa di Jean-Claude Izzo che sono andato a rileggermi,
dimenticando fuori tutto e tutti fino a fine libro e anche un
po' dopo, ma soprattutto è merito del mio amico Gigi
Masin, che dopo anni di gallerie nel sottosuolo pare aver incrociato
una certa fortuna discografica e arriva a pubblicare il suo
ultimo lavoro Calypso per un'etichetta indipendente grossa –
la stessa che pubblica Biosphere e Aphex Twin, per dire.
Mettendo da parte le telefonate, che non contano, mi accorgo
che anche Gigi è un po' che lo ascolto solo dentro ai
dischi e lo guardo dietro a uno schermo su YouTube: eccolo due
mesi fa a New York, eccolo tempo prima a Londra e prima ancora
a Copenhagen, segno che lavora. Chissà chi incontra,
mi dico. Chissà cosa gli chiede la gente – me lo
vedo il Gigi che all'intervistatore pianta gli occhi in faccia
mentre confessa che ha la sua famiglia, il lavoro, si è
sistemato un piccolo studio in soffitta e quando suona lo fa
per sé stesso. Gigi veneziano abituato a convivere con
laguna pioggia maree nebbia, con un'alluvione ha perso attrezzature
e archivi e non so quanti dischi. Gigi che andiamo a trovarlo
a casa e lo troviamo sfinito, ha appena finito di raccogliere
l'acqua che s'era rotta la lavatrice, acqua maledetta giù
per le scale mescolata al detersivo. Gigi che parla piano come
me, Gigi che guarda giù, Gigi mani in tasca che cammina
per le calli strette e sorride.
Leggevo giusto qualche giorno fa (cito a spanne, neanche ricordo
dove) qualcosa a proposito dei sogni dei bambini che vengono
incoraggiati a immaginare così un qualche futuro da costruire
e costruirsi, mentre quando si incontrano degli adulti che sognano
questi sono guardati con sufficienza, manco il sognare fosse
una perdita di tempo o uno spreco, una maniera deprecabile di
comportarsi. Gigi è uno che sogna, e sono anch'io così:
potrebbe essere che siamo rimasti amici proprio perché
ci si sente entrambi un po' spostati da quello che dovrebbe
essere il nostro posto nel mondo, come se ci fosse stata assegnata
una sedia che non troviamo o che seguendo chissà quale
istinto cerchiamo da tutt'altra parte. Non finirò mai
di ringraziare il mio amico musicista per tutta la benzina incendiaria
che getta sui miei tramonti.
Ogni suono sa di mare
Torniamo al disco e a quella frase di Jean-Claude Izzo, perché questa musica si sprigiona dalle casse come un odore salmastro per me piacevole – di solito non ascolto musica elettronica ma dev'essere la suggestione di mare forte e persistente di cui vi ho parlato poco fa. I posti qui dentro li riconosco tutti, potrei descrivere ciascun brano come una diversa serie di riprese fatte dal drone nel paese dove sono nato e cresciuto e che mi è rimasto incastrato nei pensieri. Un posto che è metà terraferma e metà mare e metà barena e metà spiaggia, dove ci sono io a volare sopra o camminare o sollevare spruzzi o correre a perdifiato, sogni che la mattina non dimentico e che magari piegati in tasca cerco di portare sempre con me. Come certi sassi che raccolgo e che poi stringo in mano e dopo un poco va a finire che appoggio da un'altra parte con l'illusione sottile di poter così modificare il destino.
Leggo in giro che il tema centrale dell'album è un viaggio all'isola di Ogigia, ritenuta l'isola della ninfa Calypso che diede rifugio a Ulisse. Qua vi dirò nonostante le foto di copertina e del libretto che accompagna i dischi sono dubbioso, non capisco se è una cosa pensata sul serio dal mio amico o da qualcuno dell'ufficio stampa: faccio un po' fatica a lasciarmi trasportare da questa giustificazione mitica perché durante l'ascolto mi ritrovo stabilmente coi piedi a terra – anzi, più propriamente coi piedi in acqua. Più che l'isola in sé, trovo sia l'acqua la presenza costante di questo lavoro, l'anima di ciascuna traccia.
Qui dentro ogni suono sa di mare. Ritrovo la sabbia bagnata su cui ho camminato e dove mi sono voltato a guardare le tracce dei miei piedi storti, le rive accanto a cui mi sono fermato a leggere a pensare a ostinarmi a ricordare i miei – proprio loro che non ci sono più da così tanti anni. Acqua di casa, acqua ovunque, il nastro di grigio e d'argento che passa sotto alla motonave e dietro si fa riccioli di rumore e schiuma, divertimento di bambino in viaggio avventuroso dalla terraferma verso il paese, la stessa acqua che quando va via il sole si fa massa nera e insidiosa che riflette le luci elettriche e le fiamme al veleno delle torri del Petrolchimico. Acqua di laguna e di mare, che cambia colore a seconda del cielo, delle nuvole, dell'angolazione del sole, delle stagioni, del vento. Acqua in movimento continuo, fiume tracciato dentro il mare, corrente che viene da un qualsiasi sud del mondo e finisce improvvisamente con l'infrangersi davanti agli scogli dove attaccarsi con le unghie e i denti e la disperazione per non farsi tirare sotto, dentro – onde di mare esigente e vorace cui non importa un cazzo se ti chiami Eiríkr Rauði oppure Odisseo, o se sono il veneziano o magari il genovese o il vichingo o lo yoruba ad agitare la tua lingua di naufrago. La stessa acqua che esce dal rubinetto appeso al muro della cucina e ti disseta, quella che ti vendono chiusa dentro a bottiglie di plastica firmate, quella che ti esce dagli occhi quando piangi e anche quando ridi, onde che strattonano e spingono e giocano maligne col tuo equilibrio e il tuo stomaco. Acqua di pozzanghera vicino alle discariche, la stessa acqua imbevibile asfalto liquido dell'autostrada che porta verso nord dalla Libia a Pozzallo: all'ingresso caselli fortificati dove si pagano pedaggi carissimi, cattedrali di buche in mezzo, alla fine un ponte monco da cui si può soltanto cadere giù.
Contatti: il suo numero non ve lo do, ma se vi mettete a smanettare su Facebook, Bandcamp, Soundcloud etc. non dovrebbe essere difficile fare centro, o almeno andarci vicino. Buon ascolto, e buona immersione.
Marco Pandin
stella_nera@tin.it
|