Rivista Anarchica Online
La rivoluzione domani
di A. Di Solata
"I giovani si immaginano volentieri che le cose possano cambiare
rapidamente. No, le trasformazioni
si fanno con lentezza e per conseguenza bisogna guardarsi attorno con altrettanta più coscienza,
pazienza e devozione. Nella fretta di una rivoluzione immediata ci si espone per reazione a
disperare...". E. Reclus
Queste parole del vecchio Reclus (anarchico, combattente della Comune di Parigi, grande
geografo
del secolo scorso) ci sembrano bene adattarsi all'articolo del nostro redattore A. D. S. (giovane, come
tutta la redazione!) che qui pubblichiamo e sulla cui sostanza concordiamo pienamente anche se
serbiamo qualche riserva sulla forma, forse troppo aspra di sarcasmi e "provocatoria" nel suo
categorico pessimismo.
Parliamoci chiaro. La rivoluzione in Italia non la si farà né oggi né domani
né probabilmente
dopodomani. Cioè non appare seriamente proponibile l'ipotesi rivoluzionaria a
breve e forse a medio
termine. È un'affermazione, la nostra, certo impolitica perché tra i giovani della
sinistra extraparlamentare è diffuso
il mito della rivoluzione che è lì lì per venire. Perché il capitalismo
è in crisi e noi ne affretteremo la morte
con un po' di lotta dura (senza paura), lotta di classe - s'intende - (potere alle
masse) e poiché il popolo
è forte (armato vincerà) la rivoluzione è praticamente fatta e
viva-marx-viva-lenin-viva-mao-tse-tung.
Purtroppo, anzi per fortuna, la rivoluzione non si fa con gli slogans né basta l'entusiasmo di
alcune
migliaia di studenti. Sappiamo di fare un discorso impolitico perché non solo i giovani invasati
dal Mao-Tse-Tung-pensiero sono convinti di fare la rivoluzione se non da un giorno all'altro perlomeno
da un
anno all'altro (tanto per fare un esempio Potere Operaio va teorizzando - farneticando di lotta armata
insurrezionale), ma anche molti giovani avvicinatisi al movimento anarchico in questi ultimi due o tre anni
di boom rivoluzionario. È vero che negli ultimi tempi la fretta rivoluzionaria
si è un può acquetata ed il movimento extra-parlamentare che più sembrava
credere alla rivoluzione a breve termine, Lotta Continua ha fatto un po'
d'autocritica ed ha cominciato a parlare di "lotta di lunga durata" (alè con gli slogans) e a
"costruire il
partito" (tanto per cambiare), ma la lunga durata pare sempre riferita a due, tre, cinque anni, perlomeno
nell'interpretazione dei militanti di base. Più oltre l'esuberanza giovanile non riesce ad arrivare.
Sappiamo
di fare un discorso non grato, eppure ci sentiamo in dovere di farlo. Perché riteniamo pericoloso
il gusto
della rivoluzione frettolosa. Perché comincia a venirci a noia tutto questo parlare di rivoluzione
ad ogni
scaramuccia con la polizia, di scontro di classe ad ogni picchettaggio.
Noi anarchici non abbiamo complessi di sorta quanto a rivoluzioni e possiamo permetterci il lusso
di dire
sulla rivoluzione tutto ciò che di impolitico riteniamo doveroso dire. Noi anarchici abbiamo
partecipato
a tutte le rivoluzioni sociali (Russia, Spagna, Cuba, Messico, Cina...) di questi ultimi cento anni. Noi
anarchici italiani abbiamo tenuta alta la bandiera del socialismo rivoluzionario quando la sinistra
extraparlamentare non esisteva neppure. Ma proprio perché non siamo rivoluzionari improvvisati,
perché
siamo un movimento con un patrimonio secolare di esperienze, con una tradizione di lotta rivoluzionaria
ininterrotta, senza sbandamenti riformistici e parlamentari, abbiamo anche imparato a diffidare delle
illusioni, del velleitarismo, dell'entusiasmo generoso ma acritico. La rivoluzione non è una
festa, non è un gioco. Costruire una società dove non esistano lo sfruttamento
e l'autorità, una società di liberi e di uguali è una cosa terribilmente seria e
difficile. Difficile è distruggere
la vecchia società, con i suoi rapporti di produzione, con le sue gerarchie, con il suo apparato
difensivo
militare e ideologico; ancora più difficile è costruire nuovi rapporti di produzione, le
nuove relazioni
umane, il nuovo tessuto sociale. Difficile spezzare il potere dei padroni, sconfiggere lo stato; ancora
più
difficile è distribuire il potere a tutti, cioè distruggerlo veramente, impedendo che possa
rinascere con una
nuova gerarchia. La rivoluzione non è una manifestazione di piazza e neppure cento. La
rivoluzione non è uno sciopero
e neppure cento. Meno che meno cento agitazioni studentesche.
Un pugno di rivoluzionari possono funzionare come esca (è la teoria del Maggio Francese:
la "minoranza
agente come detonatore della rivoluzione"), ma se dietro l'impazienza generosa c'è solo il vuoto
culturale
e organizzativo, se la fiammata sovversiva che l'esca ha acceso si alimenta solo di un confuso
malcontento, allora il risultato non è solo negativo, è disastroso, perché il fuoco
si spegne con la stessa
rapidità e facilità con cui si è acceso (pompieri non solo i tradizionali strumenti
repressivi dei padroni ma
anche i sindacati ed i partiti sedicenti operai). Dietro l'esigua minoranza agente ci deve essere una
diffusa volontà rivoluzionaria di operai e contadini.
Perché solo gli operai e i contadini hanno la forza di rovesciare il sistema (il popolo
è già armato:
l'esercito non è forse fatto di "proletari in divisa"?) e solo gli operai e i contadini, soprattutto,
hanno la
forza e la possibilità di costruire la rivoluzione. L'emancipazione degli sfruttati
può solo essere opera degli
sfruttati stessi.
Via, siamo seri! Al di là dei bluff propagandistici, i militanti della sinistra
extra-parlamentare sono qualche
migliaio di studenti ed intellettuali e qualche centinaio di operai. Come si può pensare che queste
"forze",
divise fra loro in una mezza dozzina di organizzazioni principali (per non parlare dei gruppi minori),
possano fare la rivoluzione? E non rifugiamoci nel comodo mito dell'autonomia proletaria che colora
illusoriamente di rosa la realtà, simulando che le organizzazioni rivoluzionarie o sedicentemente
rivoluzionarie siano solo la punta emergente di un enorme iceberg. È vero che negli ultimi due-tre
anni
abbiamo visto i sintomi incoraggianti di un risveglio di quella autonomia, abbiamo visto gli scioperi
selvaggi, le assemblee operaie, le lotte spontanee; ma abbiamo anche visto che i sindacati sanno
recuperare o isolare questi episodi. Siamo ancora lontani da quel minimo di autonomia reale,
permanente, generale e organizzata
(organizzata? Sì, dagli sfruttati beninteso, non dalle avanguardie) che può garantire un
minimo di
probabilità di successo ad un movimento rivoluzionario. Oggi forse siamo più lontani
dalla "autonomia
proletaria" di cento anni fa grazie al lavoro dei socialisti autoritari (marxisti-leninisti) e dei sindacati
riformisti.
Certo, sulla carta tutto si può affermare e tutto si può negare, specialmente se, come
gli intellettuali della
"sinistra rivoluzionaria", si è "padroni delle parole". Così, se non per sciogliere tutti i
dubbi sulle
possibilità rivoluzionarie a breve termine, perlomeno per mettere a tacere l'incredulità
della ragione basta
costruire le analisi od i brandelli di strategia con cui giustificare l'attivismo su qualche mito, quale
l'inevitabilità del socialismo o la missione storica del
proletariato. Non è difficile per i giovani "emme-elle" accettare e spacciare questi miti per
verità scientifiche. Non è
difficile per loro accettarli perché "dimostrati" dalla loro ideologia, che essi pretendono
materialistica
(mentre è una delle più sofisticate costruzioni idealistiche). Non è difficile
spacciarli, perché in un
momento in cui i "valori" della società borghese, le sue religioni, le sue ideologie, i suoi miti sono
stracci
miserabili che non riescono più a mascherare la disgustosa realtà né ad
esorcizzarla con speranze illusorie,
si apre purtroppo, oltre a uno spiraglio per la ragione, anche una grandissima disponibilità -
specialmente
fra i giovani - a nuove credenze, a nuovi miti, a nuove fedi, a nuove religioni. In un'epoca in cui sempre
più l'individuo si sente impotente di fronte al "sistema", in cui la rivoluzione appare sempre
più necessaria
eppure sempre più difficile, è agevole l'inganno e l'auto-inganno della ragione ed il
ricorso alla fede in una
forza mitica più forte di quelle che si oppongono alla rivoluzione. Tutto questo dobbiamo
comprenderlo ma non possiamo condividerlo. Gli anarchici restano fedeli alla
ragione, anche se è una fedeltà avara di soddisfazioni, aspra di lucido scetticismo. Gli
anarchici sanno che
se i miti sono idee-forza che spingono all'entusiasmo e quindi all'azione, sono anche da
sempre gli
strumenti dei padroni per spingere gli sfruttati là dove loro, i padroni, vogliono che
vadano. Gli anarchici non possono accettare l'idea metafisica di una missione storica neppure se
questa missione,
anziché da un dio, si vuole affidata da un "oggettivo" gioco dialettico della storia. Anche
accettando (e
gli anarchici non l'accettano) la dialettica come grossolana interpretazione della storia, non si capisce
perché la dialettica delle classi debba necessariamente concludersi con lo scontro
borghesia-proletariato.
Non si capisce perché il proletariato, fra tutte le classi sfruttate della storia, debba essere portatore
della
"missione storica" e non lo fossero i servi della gleba della società feudale o gli schiavi della
società
schiavista. Tutte le argomentazioni in merito dei marxisti sono funambolismi che possono convincere solo
chi vuole essere convinto. Gli anarchici a priori, cento anni fa, e a posteriori, oggi, sapevano e sanno
che l'avvento del socialismo
non è inevitabile, che allo sfruttamento capitalistico e al dominio della borghesia non si pone
come
necessaria alternativa il socialismo cioè l'uguaglianza e la libertà cioè
l'anarchia. Essi sapevano cento anni
fa che nuove forme di dominio e di sfruttamento potevano sostituire quella capitalistico-borghese come
già altre l'avevano preceduta. Essi sanno oggi che laddove la borghesia ha perso il potere e la
proprietà,
non il popolo degli sfruttati ha costruito l'uguaglianza ma una nuova classe di padroni dello stato ha
costruito una nuova disuguaglianza.
Questi nuovi padroni hanno preso e stanno prendendo il potere inserendosi nella lotta fra proletari
e
capitalisti. Il gioco è vecchio. Sempre le classi in ascesa verso il potere utilizzano contro la
vecchia classe
dominante l'norme potenziale di lotta delle classi sfruttate. Oggi i nuovi padroni hanno consolidato il loro
dominio su un terzo del mondo (gli stati sedicenti socialisti) e stanno costruendolo progressivamente nel
resto del mondo, sottraendo potere ai vecchi padroni. Anche laddove (Europa ed U.S.A.) la borghesia
sembra ancora sfacciatamente sicura di sé, in realtà il sistema economico ha perso i
connotati tipici del
capitalismo tradizionale e si sta trasformando in qualcosa di qualitativamente diverso. Il capitalismo
è
oggettivamente condannato a morire, su questo concordiamo anche noi, ma altrettanto "oggettivamente",
un'altra forma di sfruttamento e di dominio dell'uomo sull'uomo lo sta sostituendo. In Italia oltre
metà dell'economia è controllata dallo stato: a questo punto lo stato non è
più uno stato
borghese in senso proprio. Lo stato è ancora un apparato di difesa della borghesia
capitalistica, ma è già
anche apparato di formazione e di difesa dei privilegi dei nuovi padroni: i feudatari dei ministeri e degli
enti statali e parastatali, i tecnoburocrati delle aziende pubbliche e degli oligopoli privati. Nella
politica governativa e nel gioco parlamentare la fase attuale di questo fenomeno socio-economico
si esprime nella strategia delle riforme; nel centro sinistra; nella programmazione patteggiata tra i
ministeri, i sindacati, ed i grandi centri di potere economico (quello che i marxisti chiamano capitale
avanzato, cioè le grandi imprese nazionali e multinazionali a proprietà privata, statale e
mista: FIAT, ENI,
MONTEDISON); nel graduale "maturarsi" della situazione per un'entrata nel governo del PCI, garante
della pace sociale ed insieme portatore delle esigenze degli interessi del nuovo sistema economico e della
nuova classe dirigente.
Da qualche anno l'economia italiana sta attraversando una crisi (e su di essa fanno molto affidamento
i
rivoluzionari frettolosi), una crisi che è in parte congiunturale e in parte strutturale. Si tratta
cioè di una
recessione del sistema produttivo italiano (sviluppatosi rapidamente e disarmonicamente negli anni '50
e '60) che si sovrappone alla problematica connessa alle profonde trasformazioni strutturali cui abbiamo
accennato. Ma alle crisi congiunturali da un pezzo il sistema ha imparato porre il rimedio,
"razionalizzandosi", con la programmazione... e con il sacrificio dei lavoratori. Anche questa crisi, con
la collaborazione dei sindacati, verrà risolta con un po' di fallimenti, un po' di inflazione, un po'
di
disoccupazione, un po' di repressione, un po' di interventi statali (vedi LESA-CONDOR
-MAGNADYNE). Quanto alla crisi strutturale essa è cronica da alcuni decenni, è legata
alla morte lenta
del capitalismo e non crediamo, anche per quanto detto sulla politica del PCI, che essa sia destinata ad
accentuarsi nei prossimi anni. C'è la sinistra extraparlamentare, è vero,
ci sono soprattutto le lotte degli sfruttati, nelle fabbriche e nei
quartieri, che esprimono non solo il rifiuto di pagare le crisi del sistema, ma anche, a sprazzi, un
rinascente spirito rivoluzionario. Non saremo certo noi a sottovalutare questi fermenti libertari, il
risveglio dei giovani ai grandi temi
rivoluzionari, la riscoperta della prassi anarco-sindacalista tra i lavoratori, proprio noi che in questo
vediamo la rinascita dell'anarchismo. Ma sarebbe anche pericoloso se, presi dall'entusiasmo
sopravvalutassimo questi fermenti. Di fronte agli episodi libertari e potenzialmente
rivoluzionari dei
comitati di base, dei comitati di quartiere, delle lotte autonome, sta il prestigio ancora preponderante ed
il potere di controllo dei sindacati i quali, ad unificazione avvenuta, saranno con il PCI un formidabile
strumento contro-rivoluzionario.
Naturalmente, in Italia come negli altri paesi industriali avanzati, il progressivo passaggio di potere
dai
vecchi ai nuovi padroni avviene non senza scontri, regressi, contraddizioni. Se una parte della borghesia
è disposta ad una trasformazione lunga e graduale del sistema, una parte è furiosamente
decisa a
difendere lo status quo con le unghie e con i denti e a buttarsi, contro il buonsenso, a destra. Ad esempio
è ormai opinione diffusa ed è stato ripetuto più di una volta anche sulle pagine
di questa rivista, che dietro
le bombe del 1969 ci fosse una manovra reazionaria, appoggiata da strati arretrati del padronato privato
e degli apparati statali, una manovra che forse mirava ad un vero e proprio colpo di stato, ma che
più
probabilmente si accontentava di frenare lo slittamento a sinistra della politica italiana con la vecchia e
sperimentata strategia della tensione (opposti estremismi ecc.). C'è stata infatti una battuta
d'arresto, ma
il PCI e i sindacati hanno saputo seppure con qualche difficoltà superare l'impasse,
presentandosi essi
stessi come tutori dell'ordine contro gli estremisti e rilanciando una bella campagna antifascista.
Analogamente, poiché la "coscienza di classe" è più una categoria
socio-psicologica valida sul grande
numero e nel grande periodo che una realtà riferibile all'individuo e al momento, i
tecno-burocrati spesso
(ma sempre meno) si fanno strumento di conservazione dei grandi privilegi dei vecchi padroni e dei
piccoli privilegi da loro già acquisiti. La storia è "intelligibile" solo nelle sue grandi
linee, non nei dettagli. Così la previsione a breve termine
non può essere seriamente categorica. Non possiamo quindi dare per certo l'avvento del PCI al
governo
nei prossimi anni, possiamo solo dire che ciò sembra logico e conseguente sia alla situazione
socio-economica sia la strategia del PCI stesso. Non possiamo dire per certo che non ci sarà un
arresto dello
sviluppo in senso tecno-burocratico del potere in Italia e che la borghesia "avanzata" abbandoni il piano
riformistico per una sterzata a destra di tipo reazionario ed autoritario. Possiamo però dire che
ci pare
improbabile anche perché l'evoluzione in senso autoritario del regime è già in atto
da anni, senza bisogno
di colpi di stato, e l'avvento del PCI e dei sindacati al potere non sarebbe d'ostacolo (tutt'altro) a questa
evoluzione.
In questo quadro il mito della "rivoluzione domani" ci pare ridicolo e dannoso. La politica del PCI
e della
CGIL è ormai scopertamente riformistica e lascia quindi in teoria un ampio spazio di chiarezza
per un
movimento rivoluzionario, ma per il momento poche ridotte frange di lavoratori politicizzati si vedono
traditi da questa politica. C'è un enorme lavoro da fare per recuperare al discorso rivoluzionario
gli
sfruttati: un lavoro non di mesi ma di anni. C'è un enorme lavoro da fare prima che una
organizzazione
rivoluzionaria possa porsi come alternativa non velleitaria ai partiti e ai sindacati riformisti. C'è
un enorme
lavoro da fare perché lo spazio rivoluzionario non venga riempito da squallidi imitazioni in
miniatura del
PCI. Non esiste ad esempio neppure la parvenza di uno strumento di crescita politica e di collegamento
militante delle lotte proletarie quali sono stati in altri tempi le organizzazioni
anarco-sindacaliste. Riassumendo, per quanto concerne le condizioni soggettive (per usare una
schematica definizione
accademica), cioè per quanto concerne la volontà e la capacità rivoluzionaria
degli sfruttati o perlomeno
di ampie minoranze di essi, siamo probabilmente ad un livello inferiore di quello raggiunto 50 anni fa,
quando pure la rivoluzione abortì e venne il fascismo. Per quanto riguarda le condizioni oggettive
non
crediamo che la crisi economico-politica del sistema sia o possa divenire a breve termine tanto grave da
farlo saltare, soprattutto se, com'è prevedibile, delle scelte economico-politiche sarà reso
maggiormente
corresponsabile il sindacato unitario. In ogni caso, se è certamente vero che un forte movimento
e una
diffusa coscienza rivoluzionaria possono agire anche in condizioni oggettivamente sfavorevoli è
dubbio
che la sua surrogabilità tra condizioni oggettive e soggettive sia altrettanto valida in senso inverso.
Se nei
prossimi anni dovesse verificarsi una improbabile situazione pre-rivoluzionaria, verosimilmente il PCI
sarebbe in grado di "gestire" e controllare la situazione e di usarla a fini di potere, in barba a tutta la
sinistra extraparlamentare, agli anarchici e all'autonomia proletaria. E se, evento ancora più
improbabile,
si arrivasse (magari in risposta ad un colpo di stato stupidamente reazionario) ad una situazione
rivoluzionaria, questa non avrebbe verosimilmente la possibilità di svilupparsi autonomamente,
né gli
anarchici avrebbero la forza di proporre o difendere alternative libertarie. Dovremo allora rinunciare
ad una strategia rivoluzionaria o rinviarla a tempi migliori? Non di certo.
Proprio quando la situazione è oggettivamente e soggettivamente sfavorevole alla rivoluzione,
il lavoro
rivoluzionario è maggiormente necessario. Dovremo abbandonare - questo
sì - il gioco degli slogans
falsamente rivoluzionari, per guadagnare in serietà, efficacia e prestigio. Dovremo costruire la
rivoluzione
anarchica nelle coscienze e nelle cose con pazienza, con modestia, con tenacia,
senza illusioni.
A. Di Solata
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