Rivista Anarchica Online
Hurwitz questo sconosciuto
di Franco Garnero
Si vede dunque che l'intelligenza si è solo apparentemente
democraticizzata, e che solo in apparenza
i tesori spirituali di un'epoca appartengono a chiunque, nell'epoca stessa, abbia imparato a leggere;
che in realtà, invece, tutto ciò che vale davvero rimane segreto e sconosciuto; e si direbbe che da
qualche parte sotto terra esista una casta segreta di sacerdoti o di congiurati che da un anonimo
recesso tiri le fila dei destini dello spirito, che camuffi i suoi emissari armandoli di potere e di forza
esplosiva per la durata di generazioni, e li spedisca senza nessuna legittimazione sulla terra,
provvedendo a che la pubblica opinione, paga di quanto sa, non avverta nulla della magia che si
dispiega sotto i suoi occhi. Queste considerazioni di Hesse, scritte principalmente per l'universo dei
libri, possono con poca fatica essere adattate a Dialogue with a woman departed, il film di Leo
Tolstoi Hurwitz, vincitore di uno dei premi speciali al 22° "Festival dei popoli", che ha avuto luogo
a Firenze lo scorso dicembre. Potrà sembrare tardi parlarne ora, ma il silenzio che ha circondato
questo autore decisamente "diverso" ed il valore della sua opera fanno saltare qualsiasi obiezione
di tempestività. Sempre le stesse parole di Hesse possono anche aiutarci a capire la
"fortuna" di questo regista,
praticamente sconosciuto anche agli specialisti. A Firenze è stato premiato per la sua opera
complessiva e in particolare per la pellicola citata poc'anzi presentata alla rassegna. I pochi
fiorentini che hanno saputo cogliere l'opportunità, e gli altri, che hanno affrontato i disagi di un
viaggio sino al capoluogo toscano, sfidando l'indifferenza e le diffidenza che da sempre
accompagnano ingiustamente il genere del documentario, cui il Festival dei Popoli è quasi
esclusivamente dedicato, sono stati senz'altro premiati, come sempre accade nelle buone favole
d'una volta. Tutto congiurava contro questa pellicola: quattro ore di proiezione in lingua originale
(inglese), la totale assenza di un soggetto inteso in senso classico, un tema, tutto sommato, non di
immediata attualità, hanno fatto sì che, nonostante l'orario favorevole (domenica ore 15) e
l'ingresso gratuito, l'immensa e bellissima sala del "Palazzo dei Congressi" non fosse proprio
gremita. Create un feticcio, fatelo grande, capace di far tremare il mondo, e avrete un'arma in mano.
Continuate a gonfiarlo. Poi organizzate la struttura del potere, fatela funzionare. Servitevi di un
moderno mezzo di comunicazione di massa. Nessuno ribatte ad un inganno su vasta scala. La
menzogna viene trasmessa in una conversazione a senso unico che va da voi a loro. Si diffonde
contemporaneamente dappertutto, ed è una voce che ha autorità. All'inizio c'è la parola,
e le
chiacchiere la diffondono capillarmente. Si diffonde come un'infezione: così come si sviluppa
un'epidemia. E mentre la menzogna si diffonde, essi costruiscono la loro organizzazione.
Dall'organizzazione al terrore per le strade. In questo disegno i giovani hanno un ruolo importante.
E per quanto riguarda le spese, i finanziamenti vengono sempre da quelli che hanno i soldi,
segretamente. Ecco come Hurwitz commenta l'avvento dei regimi totalitari in Europa. Il
pretesto della narrazione è la morte di Peggy, l'adorata moglie del regista, di ascendenze
indiane, morta nel settembre del '71. La narrazione filmica si dipana circolarmente, prendendo
l'avvio da un albero solitario in mezzo al campo, che scandisce il passare delle stagioni, sino a
ritornarvi per l'ultima inquadratura: immagini emozionanti, tecnicamente perfette, sorrette da un
commento acuto e toccante. Nel desolante panorama delle programmazioni che solitamente ci è
dato seguire, è davvero grande la gioia di poter assistere ad un film veramente bello, che perdura
creativamente nella memoria dello spettatore. "In questo film - spiega Hurwitz - la
struttura deriva dal bisogno di legare insieme (così come sono
legate nella vita) la mia esperienza personale, l'esperienza personale di Peggy, e il modo in cui
queste esperienze sono legate al sociale, al politico. Questo è un aspetto del film. Un altro aspetto
del film è l'idea di empatia, di rapporto tra le persone e tra le persone ed il luogo in cui vivono.
Questi due aspetti, anche solo questi due, in qualche modo condizionano il mio modo di lavorare.
L'idea di empatia, ad esempio, è molto importante. Inserirla nel film vuol dire fare un film in cui il
pubblico non è "agitato"; ma agisce, pensa, sente le proprie esperienze intessute in ciò che avviene
sullo schermo. Ecco perché il film è così lungo. Se nel film c'è un albero
importante, non lo si può
semplicemente citare con una ripresa di venti secondi, è necessario vivere dentro l'albero, bisogna
porre le premesse affinché il pubblico possa sentire la vita dell'albero. Tutto questo crea le
condizioni per la struttura delle immagini e per il rapporto tra suono ed immagini. L'albero deve
vivere in un mondo di significati, così che i suoni che accompagnano l'immagine dell'albero sono
molto importanti. Le sequenze di "Dialogue" sono reali, ma non realistiche. Nella scena della
demolizione degli edifici, per esempio, le immagini di ciò che un tempo erano camere, e ora è
soltanto aria, si mescolano ai suoni di voci familiari, di marmocchi che giocano, di madri che
parlano ai loro bambini, o cantano una ninna-nanna". Hurwitz è nato nel 1909 a Brooklyn, New
York. La sua carriera è sempre stata contrastata per
motivi politici: non ha mai fatto mistero, infatti, delle sue simpatie per la sinistra radical
americana. Ha lavorato ad Hollywood per brevissimi periodi. "Capii che non era per me lavorare
in un posto in cui non potevo esercitare alcun controllo sull'uso che veniva fatto del mio lavoro, e
in cui ero semplicemente una pedina in mani altrui". Non ha ritrattato, comunque, come altri
colleghi in seguito diventati più famosi, le sue posizioni, ed
è stato costretto, quindi, ad operare sempre ai margini dell'immensa industria cinematografica
americana. La sua produzione è comunque molto ricca ed intensa: 23 titoli in un arco di 48 anni, i
più noti dei quali sono Native land (1941), Strange victory (1948), In
search of Hart Crane (1966),
Do you know a man named goya? ( 1967) e questo Dialogue with a woman
departed, la cui
preparazione è durata quasi dieci anni. Lavoro sulla premessa che il film abbia le stesse
possibilità della mente umana - chiarisce Hurwitz -
in cui si possono rappresentare tutte le esperienze, anche le più vaghe. Per esempio, pensa ad alcuni
quadri del Beato Angelico, dove, quadro dopo quadro, viene rappresentata la crocifissione, e si vede
il sangue sgorgare dalle ferite del Cristo e si intuisce la tragedia e la rappresentazione della pena
umana; se però il quadro non è buono, si avrà solamente una rappresentazione formale,
oppure un
emblema religioso; se invece è buono si potranno vedere i significati e la vita che vi stanno dietro.
Così, quando vedi qualcosa di buono, ti vengono in mente altre esperienze, numerosi collegamenti
all'interno della tua mente; e queste esperienze non le vediamo con gli occhi ma le sentiamo con le
antenne della mente; la mente non lavora con strutture lineari, proprio come il film. L'uso del suono
è libero come lo è nella mente. Ma nell'incontro con il regista Hurwitz, ciò che
più ti colpisce è Hurwitz uomo. E' un tipo che non
passa inosservato: ha settantatrè anni, ma si aggira ancora con un completo di jeans alla teddy-boy, non
del tutto inconsueto negli States, ma da noi molto più raro, specie in persone della sua età.
I suoi lunghi capelli bianchi e i suoi modi pacati ispirano immediatamente simpatia e rispetto.
Dopo la proiezione del suo film si è tentata una discussione, uno di quei famigerati dibattiti che
sempre accompagnano le occasioni "impegnate" e che tutti, giustamente, temono: nessuno si
azzarda a parlare per primo. Hurwitz allora prende l'iniziativa, dice di rendersi conto del nostro
imbarazzo e decide di spostare la chiacchierata nei corridoi del "Palazzo dei Congressi", dove
infatti la conversazione, in presenza dell'interprete, prosegue senza intoppi per parecchi minuti,
con ampia soddisfazione di tutti, anche dei più timidi. Un tale lo insulta, direttamente in americano,
dicendogli, tra l'altro, che alla sua età dovrebbe vergognarsi di fare certi film, ma egli lo ascolta
con la stessa dolcezza con cui ha accolto le lodi più lusinghiere. La dolcezza dei suoi
modi contrasta però in maniera evidente con la fermezza delle sue posizioni
politiche. Si è detto molto vicino alle posizioni di George Jackson (i suoi libri sono editi
dall'Einaudi). Quando ci siamo incontrati per l'intervista mi ha conquistato con la sua eloquenza e
con il tono della sua voce; è stato sempre disponibile e comprensivo e abbiamo continuato a lungo
a parlare di tante cose. Per il futuro ha in programma un film sulla vita di John Brown, non
sarà un documentario, ma un
film di finzione: il soggetto è la lotta contro la schiavitù, ma vorrei riuscire a rendere
questo
materiale attuale. Non sarà la classica biografia di un personaggio in cui si condensano i rapporti di
una persona in quanto individuo, dovrà essere strettamente connesso al mio tempo, e dovrà essere
"vero" come Native Land. La mia intenzione è quella di andare alla ricerca del vero John
Brown
che, a parte la canzone, è un personaggio sconosciuto alla maggior parte degli Americani. A scuola
non si parla di lui o, se lo si fa, è per descriverlo come una sorta di fanatico religioso, un pazzo, un
esaltato. Come presente narrativo del film, credo che userò il periodo tra il 1900 e il 1905, il periodo
che segue la ricostruzione o quello della post-ricostruzione.
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