Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 103
estate 1982


Rivista Anarchica Online

Il camaleonte Mitterand
di Michel Auvray

Com'era previdibile, l'entusiasmo e le illusioni provocate lo scorso anno in Francia dalla vittoria del candidato presidenziale delle sinistre, il socialista Mitterand, hanno lasciato il posto ad una realistica valutazione del solito grande scarto tra le promesse e le realizzazioni. Chi ancora una volta si era illuso, ha di che ricredersi. E' quanto emerge anche dalla lettura dell'articolo «Bluff et reniements», apparso sul n. 11 (estate '82) del bimestrale libertario francese Agorà, del quale pubblichiamo qui ampi stralci. Eppure, in Francia come in Italia, c'è ancora chi vuole illudersi che con le sinistre al governo...

Se è vero che non si può cambiare la società a colpi di decreto, è altrettanto vero che lo stato di diritto costituisce, inesorabilmente, il marchio di un regime politico in cui coesistono leggi liberticide e leggi che sanciscono nuovi spazi di libertà. La legge «Sicurezza e libertà» - o legge Peyrefitte - rientra senza dubbio nella categoria delle leggi più scellerate. Generalizzazione di delitti flagranti, legalizzazione dei controlli «preventivi» di identità, prolungamento in alcuni casi del fermo di polizia, regime di esecuzione di pene draconiano, attentato ai diritti della difesa ed estensione dei poteri polizieschi, tutte queste misure attuate per iniziativa del vecchio ministro della giustizia costituivano un grave attacco ai diritti fondamentali e, più specificatamente, a quelle garanzie giuridiche che ci preservavano, seppure solo formalmente, dall'arbitrio assoluto di un ordine poliziesco.
Esistono esitazioni che sembrano confessioni e dichiarazioni che risuonano come rumori di stivali. Passi ancora che un ministro dell'interno si difenda dall'accusa di lassismo vantandosi di aver fatto sgomberare, in un mese, diciotto fabbriche occupate: il governo fa tanti di quei regali ai padroni che il fatto non ci può sorprendere; ma che esso intenda espellere decine di migliaia di emigrati col pretesto che il paese non può diventare il «rifugio dei delinquenti» (citato in Le Monde del 17 aprile 1982), questo ha un nome: razzismo. Che egli, non contento di autorizzare i poliziotti a far uso delle armi in qualunque momento, suggerisca metodi ben più rigorosi di quelli previsti dalla legge «Sicurezza e libertà» rispetto ai controlli di identità, non può che indurre a deplorare la gravità delle intenzioni che, in altri tempi, sarebbero state giustamente definite fasciste.
Messa in discussione del diritto d'asilo, volontà di instaurare una sorta di pena di morte amministrativa, attacco a una delle libertà più fondamentali, quella di spostarsi: Peyrefitte (al cui nome è legata la famigerata precedente legge sull'ordine pubblico, n.d.r.) ha buon gioco per trovare «estremamente pericolose» le proposte che Gaston Defferre ha tratteggiato, il 15 aprile, su Le Monde. Terribilmente inquietanti, le dichiarazioni del primo poliziotto di Francia hanno sollevato certamente una tempesta di proteste. I comunicati si sono succeduti ai comunicati e il ministro della giustizia si è levato contro la virata del suo confratello che rimetteva in causa i suoi progetti. L'affaire avrebbe potuto assumere proporzioni enormi e Gaston Defferre venire congedato sul campo. Ma nessuno ha pensato di chiedere le sue dimissioni ed al primo ministro è toccato di arbitrare ciò che i media presentavano come un semplice disaccordo ministeriale. Come se, in materia di libertà, fosse concepibile transigere, trovare un aggiustamento. Come se la sortita del ministro dell'interno potesso essere ridotta a un'opposizione, in fondo tradizionale, tra il potere giudiziario e quello poliziesco, tra l'idealismo del vecchio avvocato sociale dello «stato di diritto» e il pragmatismo di chi, concretamente. ha il compito di mantenere l'ordine pubblico. Defferre è stato certamente disapprovato per le sue proposte relative al diritto di sparare che il più reazionario dei sindacati di polizia non aveva mai osato chiedere. Buon giocatore, egli ha ripiegato tanto più volentieri che la sua cantonata - o la sua abilità tattica - aveva prodotto i suoi frutti: «Ho chiesto due cose per ottenerne una: il controllo di identità» (intervista di Gaston Defferre pubblicata in Les Nouvelles Littéraires del 29 aprile 1982). E infatti il consiglio dei ministri ha adottato un testo che autorizza espressamente i controlli amministrativi di identità. Ovviamente la decisione era temperata da precauzioni orali: i controlli preventivi non avrebbero potuto essere effettuati se non in caso di «minaccia immediata alla sicurezza di persone e di beni», i poliziotti non avrebbero potuto ricorrervi se non in «determinati luoghi». Condizioni che non potrebbero essere più fluide, lasciate alla discrezionalità dei poliziotti che finalmente si trovavano con le mani libere. Stava ai deputati avallare il giro di vite del governo o essere fedeli ai loro impegni elettorali. L'arretramento era evidente: mentre la legge «Sicurezza e libertà» veniva sospesa, la pratica dei controlli di identità veniva legittimata da un governo che si autoproclamava di sinistra.
Il padre della legge «Sicurezza e libertà» poteva dirsi soddisfatto: «Se non è zuppa è pan bagnato. Questa disposizione di legge, che era stata senza dubbio la più violentemente criticata, è ora ristabilita». (Peyrefitte, citato in Le Monde del 23 aprile 1982). Qualunque passante veniva considerato sospetto, la libertà di spostamento ristretta. Defferre
aveva almeno il merito della chiarezza.
I Tribunali Permanenti delle Forze Armate (TPF A), ultima sopravvivenza dei Tribunali Speciali, sono stati soppressi dal Parlamento in aprile con grande gioia di tutti coloro che da lungo tempo lottavano per la loro sparizione. Ma i poteri accordati al ministro della difesa e allo stato maggiore sono così numerosi che quello che avrebbe potuto essere un evento importante si è risolto, invece, in un semplice trasferimento di competenze. Certo in tempo di pace non ci saranno più giurie composte prevalentemente da magistrati militari in cui le sentenze erano senza appello e non motivate. Ma molteplici eccezioni al diritto comune limitano l'ampiezza del cambiamento atteso e promesso.
Sospesi in tempo «di pace» i tribunali militari in primo luogo possono tornare in azione in occasione di crisi politiche e sociali quando, cioè, i poteri esorbitanti conferiti ai tribunali speciali si rivelano come i più funzionali per attaccare i diritti e le libertà degli individui. In secondo luogo non solo il potere si dimostra così poco solerte nel sopprimerli da accordare loro un rinvio, ma preserva ancora l'esistenza di due tribunali speciali: quello di Parigi, preposto a giudicare i soldati di stanza in Africa e in Madagascar, e quello di Landau per le truppe francesi in Germania Federale.
Altra significativa eccezione: le vittime di un crimine o di un delitto (o le loro famiglie) possono costituirsi parte civile ma, a differenza della procedura abituale che permette alla vittima di far scattare l'incriminazione a sua discrezione, la denuncia sarà sottoposta all'approvazione della Procura della Repubblica. La gerarchia militare viene così preservata da ogni accusa e deve questo regalo a chi, atteggiandosi a liberale, si permette di giustificare tale privilegio con questa sorprendente confidenza: «Pensate ai professionisti della destabilizzazione, al piccolo commando di estrema destra o agli antimilitaristi viscerali che vorrebbero «pagarsi il colonnello o il maresciallo» (Badinter in una intervista pubblicata su Liberation del 13 aprile 1982).
Il colonnello o il maresciallo possono commettere i loro misfatti in tutta tranquillità: né la gerarchia né la disciplina saranno scalfite dalla soppressione dei TPFA. E la creazione, in seno a ciascuna corte d'appello, di vere camere specializzate competenti per giudicare non solo crimini e delitti di tradimento e di spionaggio ma anche infrazioni all'ordine militare, fa pensare che si assiste, di fatto, alla creazione di un nuovo ambito chiuso. I refrattari, che costituivano l'immensa maggioranza dei giudicabili dai tribunali militari (2625 infrazioni di diritto comune e 7589 d'ordine militare sono state giudicate nel 1981 dai TPFA) non hanno, in definitiva, nessuna ragione per essere ottimisti. Da un lato perché l'esercito sarà certo tentato di reprimere, ancor più che nel passato, al riparo dei muri delle caserme, con sanzioni disciplinari che possono arrivare fino a due mesi di reclusione; dall'altro perché non essendo modificate né la definizione delle infrazioni né la scala delle pene, è da temere che renitenti e disertori divengano le vittime di un nuovo strumento di repressione ideologico non meno efficace seppure molto più discreto. L'istituzione militare, formalmente privata dei suoi tribunali ma sbarazzata da una delle principali critiche che le venivano mosse, diviene in qualche misura la grande beneficiaria di questo mutamento.
A questo proposito non c'è alcun dubbio che i nostri militar-socialisti, al di là dei principi dichiarati, hanno cercato in questo modo di «riconciliare l'esercito e la nazione» per meglio convincere della «necessità dello sforzo di difesa». (Dichiarazione del deputato Gatel, relatore della commissione di Difesa riportata su Le Monde del 16 aprile 1982).
Fermato l'ampliamento del campo di Larza ma aumentate le manovre su terreno «libero»; rinuncia al progetto di costruzione di una centrale nucleare a Plogoff ma perseguimento incrollabile del programma elettronucleare, i socialisti appaiono abilissimi in questo genere di equilibrismi.
Basta un colpo d'occhio per constatare che, in materia di libertà più che in ogni altra, il governo conduce una politica che rientra nel campo del simbolico, del prestigio, dell'apparenza. Una politica che fa pensare all'uso dei prodotti di richiamo nei supermercati: la valorizzazione pubblicitaria di questo o quel prodotto serve a mascherare la somiglianza delle merci concorrenti e a truffare il consumatore. E' esemplare il caso della legge Peyrefitte e dei TPFA. La pena di morte abolita ma non le pene a vita, tanto inefficaci quanto terribilmente crudeli. Il governo annuncia a gran voce il riconoscimento del diritto individuale al ricorso di fronte alla commissione europea dei diritti dell'uomo ma si fa forte di passare sotto silenzio il fatto che non ha per niente rinunciato alle riserve avanzate dalla Francia nel 1974, al momento della ratificazione della convenzione: il regime delle sanzioni militari così come il monopolio della radio-diffusione restano «riserva privata» e, sola tra i Nove, la Francia persiste nel rifiuto di sottomettere a un minimo di controllo internazionale i terribili poteri eccezionali che l'articolo 16 della Costituzione conferisce al Presidente in caso di crisi.
La sicurezza militare è solo camuffata, la polizia continua le sue attività di schedatura, l'imposta sulle grandi ricchezze giustifica la creazione di uno schedario dei contribuenti, il sistema informatico dei documenti di soggiorno degli stranieri continua ad esistere mentre da Golfech a Chooz manifestanti antinucleari sono selvaggiamente repressi con mezzi senza precedenti. Regime carcerario identico, servizio militare mantenuto ad un anno e, ben presto, appello delle reclute a partire dai 18 anni - cosa che Michel Debré non era riuscito a fare - amnistia-bidone per i renitenti, aumento incessante degli organici di polizia e di gendarmeria: la sinistra al potere dà prova di grande audacia innovatrice. Essa non manca certo, ora, di progetti liberali. Ma di volontà politica sì. E non sarà ahimé l'assenza di grandi movimenti sociali che potrà spingerla a prendere le distanze dai garanti dell'ordine e dai nostalgici totalitari.
Spenti i riflettori, lo spettacolo non inganna più nessuno. La novità della scenografia non cambia nulla nelle libertà quotidiane, la continuità prevale sul cambiamento. Per preoccupazione di realismo, per facilità, anche per funzione, inesorabilmente gli attori si dividono i ruoli e riprendono già gli stessi discorsi, gli stessi orpelli di cui si erano adornati i loro predecessori. Sarebbe almeno prematuro prevedere che la sinistra si lasci andare a portare avanti, come troppo spesso è successo, una politica che la destra non poteva più fare. Dell'opposizione tra coloro che sono pronti a rinnegare i loro impegni al punto di sbeffeggiare i principi a cui si richiamavano prima, e coloro le cui precauzioni oratorie non saprebbero mascherare la loro volontà di svuotare di contenuto le riforme promesse, sono i nostri diritti e le nostre libertà a fare ancora una volta le spese.