Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 103
estate 1982


Rivista Anarchica Online

Ma la nonviolenza non è un mezzo

Ogniqualvolta leggo o sento trattazioni più o meno estese sul cosiddetto anarchismo nonviolento, mi sorgono grossi dubbi sulle esposizioni. Ogni volta, per quanti sforzi faccia di ascoltare o leggere senza preconcetti, i miei dubbi vengono confermati e in genere rafforzati. Forse perché tendo a rifiutare ogni tendenza assolutizzante, perché ho una istintiva repulsione per tutto ciò che vuole essere onnicomprensivo e totalmente esplicativo. E la nonviolenza applicata all'anarchismo conserva questo difetto, anche quando viene espressa in modo intelligente e relativamente nuovo, come nel caso di Howard Clark (vedi «A» Rivista Anarchica, n. 101, «Anarchismo e Rivoluzione Nonviolenta»).
Cos'è che nei fatti definisce questo modo di vedere e proporre l'anarchismo? Penso si possa affermare con sicurezza che è la costanza di un comportamento individuale. Chi sceglie la nonviolenza non reagisce mai in modo violento, qualsiasi sia la situazione che vuole o è costretto ad affrontare. L'azione del nonviolento è quella di smorzare ogni pressione esterna che si opponga alla sua volontà, scegliendo un atteggiamento permanente che rifiuta strumenti e atti violenti. E' essenzialmente una scelta morale, senz'altro nobile e degna di ogni rispetto e considerazione, ma in definitiva castrante, con insiti rischi non indifferenti di divenire incoerente rispetto all'anarchismo nel cui ambito vuole rientrare. Per non essere frainteso, sottolineo che non affermo che è di per sé incoerente, ma che contiene in nuce grossi rischi per poterlo diventare.
Ognuno di noi, se realmente aderisce in modo sincero all'anarchismo, aspira ad una società ugualitaria basata sulla spontaneità delle relazioni umane all'interno della società stessa. Concepisce e se lo raffigura nei suoi sogni un modo di vivere basato sul rispetto reciproco e sul libero accordo tra esseri umani liberi. Per questo aborrisce la violenza come modo di rapportarsi gli uni agli altri. Nei nostri desideri l'anarchia è un modo di vivere socialmente in cui tutto ciò che sa di violenza è aberrazione, proprio perché siamo arcistufi di tutte le violenze che quotidianamente dobbiamo subire. Ogni anarchico, e penso di non offendere nessuno dicendo queste cose, ama la serenità e la pace e tende a non essere violento in nessuna sua manifestazione, soprattutto non si realizza quando è costretto ad esserlo.
Violenza deriva dal latino violentia. Indica atti veementi di furore, è un'azione del violare, di imporsi con impeto e del sopraffare. Violento può quindi essere considerato tutto ciò che si impone con veemenza, indipendentemente dallo scopo per cui è avvenuto. La violenza indica una implicazione dell'agire in un certo modo, quello violento appunto, ma non ha in sé delle implicazioni di tipo etico. In altre parole un atto violento in quanto tale non è né buono né cattivo, qualsiasi tipo di morale si voglia abbracciare. Mentre rientra nella morale, cioè è giudicabile moralmente, lo scopo per cui si è agito. L'azione violenta non conduce di per sé a questo o a quel fine, perché essendo un modo di comportarsi e reagire è essenzialmente uno strumento. Ciò che si giudica moralmente sono le intenzioni e gli scopi che si vogliono raggiungere. Gli strumenti invece vengono giudicati sulla base della loro efficacia, della loro capacità di condurre nel modo migliore allo scopo per cui sono stati scelti. Cosi un'azione violenta non può essere giudicata di per sé, ha senso invece giudicarla in relazione ai risultati che il suo uso ha comportato.
Lo stesso ragionamento deve essere applicato alla cosiddetta nonviolenza. Essa, al pari della violenza, anche se è esattamente il suo opposto, è uno strumento scelto in quanto tale per il raggiungimento di fini prefissati. Al pari della violenza non va giudicata in sé, ma in base alla sua efficacia, alla sua capacità di permettere di pervenire allo scopo cui si vuole giungere. Come la violenza anche la nonviolenza non è in grado di condurre di per sé al raggiungimento degli scopi scelti. Né l'una né l'altra sono mezzi, bensì vanno considerati essenzialmente come degli strumenti, e in quanto tali vanno usati a seconda delle circostanze e delle possibilità.
«Ma l'anarchismo nonviolento non è una prospettiva in cui puoi fermarti sull'orlo della violenza», dice il nostro Howard Clark. E' questo «non puoi fermarti sull'orlo» che non mi convince, che anzi rifiuto totalmente. Non siamo di fronte ad un burrone col continuo rischio di precipitare inesorabilmente. Il nostro Howard probabilmente vive la violenza, nella sua possibilità concreta di essere, come un senso di colpa. E' un peccato da cui dobbiamo fuggire per essere e sentirci puri, se non vogliamo cadere nella contaminazione di scelte che, secondo il suo modo di vedere, portano evidentemente alla perdizione. Ma non c'è perdizione negli strumenti da usarsi, mentre c'è nel cambiamento delle scelte dei fini per cui tali strumenti possono essere scelti o rifiutati. Dà quasi l'idea di chi, nel proprio comportarsi quotidiano, lotta continuamente contro se stesso per non subire le tentazioni di cui si sente vittima.
In tutta sincerità, non credo che questo modo di sentire possa efficacemente essere utile allo sviluppo e alla realizzazione dell'anarchismo. Non lo può essere perché non è di per sé in grado di determinare cambiamenti atti a creare possibilità di costruire una società nuova, quella anarchica appunto. Di fronte alla sopraffazione dei poteri dominanti è difficile pensare, se non nel senso del martirio cristiano, di subirli senza reagire anche violentemente. E' difficile pensare di non bloccarli e renderli inoperanti fino al punto di sopraffarli, perché per realizzare i nostri sogni bisogna pur distruggere e sopraffare i poteri dominanti. E che cosa è il sopraffarli se non un'azione violenta contro di loro? Torniamo al discorso iniziale che non si può giudicare moralmente lo strumento, bensi il fine per cui viene usato. La costruzione di una società futura, la più bella possibile e concepibile, ha bisogno per realizzarsi di imporsi, cioè di essere, e per essere necessita della distruzione della società precedente la cui esistenza le era di impedimento. Provate a togliere la violenza da tutto ciò.
Parlare di violenza o nonviolenza in termini di scelte globalizzanti rischia di essere ambiguo, anche perché sinceramente penso sia quasi impossibile pensare ed gire sempre in modo violento oppure nel suo contrario. I modi di comportarsi di fronte alle molteplici situazioni cui possiamo trovarci di fronte, variano da individuo a individuo e in genere manifestano situazioni e stati d'animo particolari legate al contingente. La scelta di comportarsi sempre in un modo o nell'altro è dunque una scelta a priori, a mio avviso frutto di predeterminazioni teoriche ideologiche. Infatti sia i sostenitori della lotta violenta a tutti costi come coloro che sostengono esattamente il contrario, partono dal presupposto che lo strumento prescelto sia un mezzo che, come tutti i mezzi, porta di per sé a un fine invece che a un altro.
Credo che sia necessario spurgarsi di entrambi, anche e soprattutto perché nell'un caso come nell'altro il presupposto di fondo ha tutta l'idea di essere moralistico. Si sceglie una lotta essenzialmente violenta o viceversa perché si è intimamente convinti che sia una scelta moralmente giusta e la si serge perciò a metro di giudizio. Così ciò che è inizialmente uno strumento diviene un riferimento atto a qualificare la scelta di base, cessa di essere organo atto ad ottenere un dato scopo. Così il giudizio, invece di analizzare l'efficacia cui è servita l'uso dell'una o dell'altra, si sposta sul valore in sé della scelta. In altre parole sei defìnibile come rivoluzionario o no, a seconda del fatto che tu abbia agito in modo violento o nonviolento, indipendentemente dal fatto che la tua azione si sia dimostrata utile alla rivoluzione oppure no.
Dobbiamo riportare violenza e non violenza nel loro ambito naturale. Concepirle per quello che effettivamente sono, cioè strumenti da usarsi a seconda delle circostanze cui ci troviamo di fronte. Sono entrambe manifestazioni dell'essere umano come di tutti gli esseri viventi. Sono potenzialità della nostra psiche perché esistono come possibilità dentro di noi, come modi di rapportarsi alla realtà con cui dobbiamo fare i conti. Il problema reale è quello di imparare a dominarle per non esserne dominati, di imparare cioè a usarle con criterio e razionalità. Problema questo estensibile a tutte le manifestazioni della nostra psiche.
Proviamo per esempio a supporre la situazione di un uomo in catene guardato a vista da un qualsiasi sbirro che, armato e libero nei movimenti, costringe il prigioniero a fare ciò che a lui aggrada. Per l'uomo incatenato è una situazione estremamente degradante in cui si trova costretto, suo malgrado, ad essere in balia di un altro uomo, lo sbirro appunto, il quale è in grado di propinargli tutto ciò che gli aggrada, dal sadismo più efferato all'atteggiamento compassionevole. E' una situazione estremamente violenta e, come tutte le situazioni violente, c'è chi la fa e chi la subisce. Mettiamo che si presenti l'eventualità per cui l'incatenato abbia la possibilità di liberarsi della sua situazione degradante e disumana, eliminando fisicamente lo sbirro. Approfittando di tale eventualità usa una violenza estrema, perché deve sopprimere un altro uomo, ma ottiene l'effetto di liberarsi da una schiavitù che giustamente non poteva accettare. Se invece, per principi suoi, sceglie di non essere violento, non può approfittare della eventualità che gli si presenta e la lascia sfumare, ma continua ad accettare la violenza che lo sbirro continuerà a propinargli.
Supponiamo un altro caso. I compagni organizzano una manifestazione per un qualsiasi motivo da loro scelto. La manifestazione non si può svolgere perché un ingente numero di poliziotti ben armati ed addestrati ha l'ordine di impedirla. Ma per i compagni è vitale che la manifestazione riesca. Studiando bene e in modo intelligente la situazione, i compagni si rendono conto che sono in grado di affrontare lo scontro con i poliziotti e di vincerlo e l'unico modo per riuscire a farlo è l'uso delle armi. Se metteranno in pratica i loro piani, i poliziotti verranno sopraffatti perché saranno travolti da una violenza collettiva maggiore della loro. In tal modo si avrà ragione della repressione e si potrà fare la manifestazione. Se invece sceglieranno di non reagire, sempre per principi nonviolenti, saranno costretti a rinunciare alla manifestazione in programma, ritenuta di importanza vitale. La violenza del potere ancora una volta avrà avuto ragione.
Nell'un caso come nell'altro la violenza è alla base delle possibilità di modificazione della situazione di partenza. E, guarda caso, la situazione di partenza è sempre determinata da soprusi e violenze da parte del potere. La scelta violenta, se ben esercitata, porta alla liberazione e permette di raggiungere le scopo prefissosi che, in un'etica di emancipazione, è l'unica scelta giusta e coerente. Invece la scelta di reagire in modo nonviolento, dal nostro punto di vista di non reagire affatto, comporta il rifuto della violenza da parte nostra come mezzo di azione, ma permette che rimanga una situazione estremamente violenta contro di noi. In entrambi i casi la violenza non viene esclusa, semplicemente sta da una parte invece che da un'altra. Essendo presente nella situazione di partenza, non si riesce né ad eliminarla né ad escluderla. Ne consegue che qualunque sia la scelta non ci si può esimere dall'esistenza della violenza, si sceglie solo di non usarla, per non essere moralmente dei violenti.
Abbiamo cosi appurato che, almeno per i due casi portati ad esempio, non si può prescindere dalla violenza. Essa è un dato di fatto che sovrasta le singole scelte e azioni; si tratta solo di usarla a proprio vantaggio o svantaggio, di subirla o farla subire. Esiste così una violenza sopraffattrice e una che libera. Il punto di vista etico degli anarchici è basato innanzitutto sulla liberazione e, coerentemente con questo presupposto, sceglie gli strumenti atti a raggiungere la liberazione, siano essi violenti o no. Il punto di vista etico dei nonviolenti è basato innanzitutto sul non uso della violenza, per questo non si cura della liberazione se non come effetto secondario. Il loro presupposto è quello di liberarsi dall'uso della violenza, considerata come intralcio fondamentale per ogni etica di liberazione. A nosto avviso, in altre parole confonde mezzi e strumenti per cui di fronte a certe eventualità, come quelle degli esempi citati, diviene di fatto incoerente con i presupposti dell'anarchismo che, al di là dell'azione violenta o no, vogliono innanzitutto pervenire alla liberazione.
So benissimo che gli esempi, soprattutto quelli costruiti ad arte, come i due proposti più sopra, non possono essere dimostrazioni reali. Ma gli esempi servono per rendere più chiaro il senso del discorso che si sta affrontando. In questa luce e con queste intenzioni sono stati messi in evidenza. Il senso del discorso che ho tentato di esporre non credo possa essere inquinato dal fatto che si basa su due esempi da me costruiti. Non lo credo proprio perché non si basa affàtto su quei due esempi, ma si sostiene da solo. Gli esempi sono parte di una esposizione generale molto più ampia e servono soltanto a rendere più esplicativo ciò che si vuole sostenere.
Quello che mi interessava mettere in luce è la profonda diversità esistente tra una scelta di liberazione emancipatoria della società che accetta tutti gli strumenti utili ed efficaci, in opposizione a una scelta esclusivamente morale. Dal nostro punto di vista il discorso morale è molto più ampio e non può essere limitato a comportamenti essenzialmente reattivi, come sono quelli dell'essere violenti o no rispetto a determinate situazioni. Le complessità dei comportamenti umani sono talmente vaste, che si rischia di divenire irrealisti racchiudendole in una tematica come quella relativa alla scelta tra violenza e nonviolenza.
Mi si potrebbe opporre che l'uso della violenza è pericoloso perché mette in moto meccanismi difficili da controllare, gli stessi sui quali si regge la sottomissione ai poteri dominanti. Per questa ragione diventa importante esercitarsi in comportamenti che favoriscano il sorgere della solidarietà sociale, del mutuo appoggio, i quali in definitiva sono avulsi da comportamenti violenti e sopraffattori, perché non possono reggersi sullo scatenamento di conflitti e meccanismi che l'individuo non è in grado di controllare. Concordo con chi individua l'esistenza reale di questi pericoli e penso che l'uso della violenza, come presupposto morale delle proprie azioni, porti effettivamente lontano dalle possibilità di liberazione. Ma vorrei ricordare che anche la nonviolenza, usata sempre e comunque, ha insiti grossi pericoli, almeno dal punto di vista anarchico. Può facilmente disabituare alla ribellione e, in nome del controllo sul proprio io, portare ad una mentalità che, di fronte alla brutalità del potere sempre più imperante, porta alla passività e alla sottomissione.
Il problema è quello di esercitarsi ad avere il controllo di se stessi, sia usando la violenza sia non usandola.
Se da una parte è sbagliato reprimere la propria aggressività, dall'altra è folle esercitarla in modo tale che ci diventi nemica. Accettiamo tutte le manifestazioni dell'uomo, comprese quelle violente e quelle nonviolente. Cerchiamo solo di usarle a nostro vantaggio, abituandoci ad indirizzarle in un senso che sia utile ai fini e agli scopi che realmente ci interessano.

Andrea Papi (Forlì)