Rivista Anarchica Online
Il secolo della paura
di Agostino Manni
Ciò che colpisce maggiormente nel mondo in cui viviamo, è che, in generale, la maggior parte
degli uomini (salvo i credenti di ogni specie) sia senza futuro. La vita non ha valore se non è
proiettata nell'avvenire; senza promessa di crescere e progredire. Vivere contro un muro, è vita da
cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle
facoltà, hanno vissuto sempre più come cani. Sono parole di Albert Camus, di un articolo pubblicato nel novembre 1948 sul giornale «Combat»,
organo clandestino dell'omonimo movimento durante la Resistenza francese, di cui Camus fu
redattore insieme a Pascal Pia dopo la liberazione di Parigi. L'articolo si intitolava «Né vittime né carnefici», e recava un sottotitolo eloquente: «Il secolo della
paura». Cominciava così: Il secolo XVII fu il secolo delle matematiche, il XVIII delle scienze fisiche
e il XIX della biologia. Il nostro, il ventesimo, è il secolo della paura. Mi si obietterà che questa
non è una scienza. Ma anzitutto anche la scienza c'entra in qualche modo, come è vero che i suoi
ultimi progressi teorici l'hanno condotta a negare se stessa mentre le sue applicazioni pratiche
minacciano la terra intera di distruzione. Inoltre, se la paura in se stessa non può essere considerata alla stregua di una scienza, non c'è dubbio che essa sia tuttavia una tecnica... L'articolo, un po' oltre, prosegue: Naturalmente, non è la prima volta che l'umanità si trova dinanzi
a un futuro materialmente chiuso. Ma di solito furono sufficienti la parola e la protesta. L'uomo
faceva ricorso ad altri valori su cui sperare. Oggi, invece, nessuno parla più (tranne coloro che si
ripetono). Oggi il mondo sembra governato da forze cieche, sorde alle nostre grida di allarme, ai
consigli, alle suppliche. Qualcosa è andato distrutto in noi. Lo spettacolo degli anni recentemente
vissuti ha segnato la fine di quell'eterna fiducia dell'uomo che ci aveva fatto credere sin qui di
poter trarre da un altro uomo reazioni umane parlandogli il linguaggio umano. (...) Il lungo
dialogo degli uomini si è interrotto. E, beninteso, un uomo che non si può persuadere è un uomo
che fa paura. Così attorno a chi non parlava perché lo riteneva inutile, si stendeva e si stende
tuttora un' immensa cospirazione del silenzio, accettata da chi ha paura e da chi si dà buone
ragioni per nascondere a se stesso codesto tremore, e suscitata da quanti vi sono interessati. «Non
parlate della epurazione degli artisti in Russia perché ne trarrebbe vantaggio la reazione».
«Dovete tacere sull'appoggio dato dagli Anglo-Americani al regime di Franco perché il
comunismo se ne avvantaggerebbe». Come dicevo, la paura è una tecnica. Ma, a cosa serve questa tecnica? Da chi è usata quest'arma? E chi la usa, perché lo fa? Io credo che si persegua un solo scopo: creare insicurezza, far circolare i germi di una presunta
impotenza; diffondere la rinuncia. A giudicare dalle espressioni che leggo sui volti dei miei familiari o dei miei amici, e dalle
sensazioni che ascolto verificarsi dentro di me, ogni volta che io e loro riusciamo a spingere lo
sguardo al di là delle nostre esistenze quotidiane (sempre da spettatori, sia ben chiaro, con il solo
fine dell'informazione: l'unico che ormai ci è concesso), come quando comodamente sdraiati su una
poltrona, ci lasciamo più o meno inebetire dai bombardamenti studiati di un telegiornale: a
giudicare da questi momenti, dai miei tremori e dalle espressioni di chi mi sta vicino, non riesco a
non dar ragione a Camus. La paura è una tecnica; il terrore è un sottile strumento abilmente
adoperato da quanti vi sono interessati. Prendiamo un esempio a noi contemporaneo: un bombardamento iracheno sui pozzi di Nowruz ha
provocato la fuoriuscita di enormi quantitativi di petrolio, che si sono riversati nel Golfo Persico
formando una chiazza vagante di dimensioni spaventose: 386 km di lunghezza, 48 km di larghezza,
una estensione di volta in volta paragonata dai mass-media a quella della Sicilia, della Lombardia,
del Belgio, ecc. La scienza non sa cosa fare: tanto per cominciare bisognerebbe incappucciare i pozzi danneggiati
per fermare la fuoriuscita del petrolio; ma questo non è possibile, finché Iran e Iraq non si decidono
a sospendere almeno momentaneamente il conflitto. Ma anche qualora le ostilità tra i due paesi
fossero sospese, anche se si riuscisse a riparare tempestivamente i quattro pozzi «off shore»
danneggiati dall'aviazione irachena, non si sarebbe comunque risolto granché: come fermare,
infatti, la «marea nera» prima che, superata la foce del golfo, si immetta nel mare aperto? Come rimediare a questo disastro ecologico? La scienza ufficiale sembra impotente. Assurdo! - urlano gli spettatori - Non può esser vero: la scienza dell'atomo, dell'uranio, dei
computer, la scienza dei viaggi spaziali e dei missili intercontinentali, impotente? Non è
possibile!». Invece sembra proprio di sì. Questa scienza che ha il potere di distruggere sembra non aver quello di salvare, di rimediare ai
suoi «errori» (?). «E se anche la scienza è impotente - pensa l'ingenuo e timoroso spettatore - io,
cosa posso fare, io?». Ecco: le continue immagini televisive del disastro, le opinioni e le polemiche della scienza
internazionale (che importanza può avere il fatto che la chiazza sia profonda un metro o 10 cm.,
quando basta una pellicola di pochi millimetri sul pelo dell'acqua a stravolgere lo scambio gassoso
tra il mare e l'aria, provocando un disastro ecologico, la distruzione della fauna marina e delle sue
condizioni di vita), gli accurati reportage, i continui ipocriti appelli (i generali iracheni non
vogliono sospendere il conflitto perché temono che gli iraniani possano approfittarne per sminare le
vie di navigazione del Golfo). Ecco: tutto questo può avere molti effetti, ma almeno due sono
sicuri: il primo, è quello di dare allo spettatore la sensazione (per niente ingiustificata) che il suo
mondo stia andando lentamente - ma neanche tanto - a farsi fottere; il secondo, invece, è di
procurargli la certezza (questa, però, discutibilissima) che lui non possa farci proprio niente. Come
se fossimo stati legati alla poltrona ad assistere, impotenti, al compiersi della tragedia; come se un
muro enonre fosse stato eretto davanti alla nostra isterica disperazione: condannati a vivere, contro
un muro, una vita da cani. Diventa impossibile, davanti a questa tragedia, di fronte a questo muro, per i più, operare una
scelta: una scelta che non può non tener conto anche, e soprattutto, di quella paura che
accompagna, oggi, la nostra esistenza, di quel terrore che viene significato ormai come una
caratteristica dell'essere umano e del mondo in cui vive. Ancora Camus: Per uscire da questo terrore sarebbe necessario poter riflettere e agire di concerto.
Ma il terrore, a vero dire, non è un clima favorevole alla riflessione. Credo, tuttavia, che invece di
biasimare la paura, occorra considerarla come uno degli elementi essenziali della situazione e
cercare di porvi rimedio. E non v'è nulla di più importante. (...) Cosicché, se la paura non è il
clima della giusta riflessione, occorre anzitutto mettersi in regola con essa. Ma, per farlo, occorre
rendersi conto di ciò che la paura significa e rifiuta. Essa significa e rifiuta la stessa cosa: un
mondo in cui l'assassinio è legalizzato, un mondo dove la vita umana è considerata senza
importanza. E' questo il primo problema politico di oggi, al cui riguardo bisogna prendere
innanzitutto posizione. Evidentemente, la società umana non ha fatto poi grandi progressi, se la necessità di dover prendere
delle scelte radicali, di dover assumere posizioni che le aprano la strada ad un futuro non solo
possibile, ma migliore, le s'impone oggi, aprile 1983, negli stessi termini in cui Camus la poneva
ieri, novembre 1948. E il fatto che «Né vittime né carnefici» sia stato scritto subito dopo il secondo
conflitto mondiale dovrebbe far riflettere: almeno, dovrebbero farlo quanti ancora ritengono che il
mondo sia ormai uscito fuori dalla guerra e dalla follia, una volta per sempre, e si sia incamminato
verso un futuro di pace e di benessere. Io, certo, non sono tra quelli. Ho letto su «Repubblica»,
all'indomani della catastrofe ecologica del golfo Persico, un'osservazione di Fulco Pratesi,
presidente del WWF, sul problema della «marea nera», e i termini in cui egli si esprimeva avevano
una strana e inquietante somiglianza con un discorso fatto da Camus nel '46, agli studenti della
Columbia University. Gli argomenti sono diversi: qui il disastro ecologico, lì la passata esperienza
della «peste» nazista e della Resistenza; ma in entrambe le dichiarazioni, dell'ecologo e dello
scrittore - o del politico, se volete - si avverte un'amarezza che non si esaurisce nella condanna dei
potenti, dei «criminali», ma che coinvolge un intero sistema di vita, un'intera civiltà, e le scelte da
questa operate. Diceva, infatti, Fulco Pratesi: «Non dovrei dirlo, ma ben gli sta. In fondo è giusto:
paesi che con tanta protervia hanno fatto del petrolio e del suo sfruttamento la loro unica risorsa di
vita, adesso ne paghino le conseguenze». E, quarant'anni fa, Camus: Di fronte al terrore hitleriano, ci trovammo dunque disarmati. Se il
problema fosse stato quello del fallimento di una ideologia politica o di un sistema di governo, il
fatto non sarebbe stato grave. Ma quel che accadeva veniva dal fondo stesso dell'uomo e della
società: su questo non c'era da sbagliarsi, ne avevamo conferma ogni giorno, e più ancora nel
comportamento dei mediocri che in quello dei criminali. A guardare i fatti le società europee, se
non gli individui uno per uno, meritavano quel che stava loro capitando: il loro modo di vita
valeva veramente troppo poco, basato com'era sull'egoismo da una parte e su ideali non più
creduti dall'altra. La violenza della negazione hitleriana, in sé e per sé, era logica. Ma era
insopportabile, e l'abbiamo combattuta. E concludeva: Ora che Hitler è sparito, sappiamo un certo
numero di cose. La prima è che il veleno di cui era saturo l'hitlerismo non è stato eliminato: è
ancora in ciascuno di noi. Chiunque oggi parli dell'esistenza umana in termini di potere,
d'efficienza, di «compiti storici» cui bisogna sacrificare i propri scrupoli morali, diffonde tale
veleno: è un assassino, effettivo o potenziale. Giacché, se il problema della vita umana si riduce a
un «compito storico» assegnato da non si sa quale istanza suprema, allora l'individuo non è che il
soggetto passivo della Storia, e si può fare di lui ciò che si vuole, solo che si abbia la forza.
Un'altra cosa abbiamo imparato, ed è che non possiamo accettare nessuna concezione ottimistica
dell'esistenza, nessuna specie di lieto fine al dramma della storia. Tuttavia, se crediamo che essere
ottimisti è una stoltezza, sappiamo anche che dichiararsi pessimisti quanto alla possibilità di agire
in mezzo ai nostri simili per diminuire i mali che affliggono e procurare qualche bene, è una viltà. Il fatto più strano è che poco dopo mi è capitato di leggere, sempre su «La Repubblica», una
precisazione del presidente del WWF riguardo alla dichiarazione che ho riportato sopra, in cui egli
specifica di non aver voluto riferirsi in generale a tutti i paesi del Golfo Persico, ma solo ai due
paesi belligeranti, Iran e Irak. Cosa buffa, nella stessa pagina in cui questa precisazione è
pubblicata, c'è un articolo di Francesco Alberoni - per il quale io non nutro molta stima, ma che
questa volta non mi sembra dire le solite cose -, in cui si dimostra l'inevitabile coinvolgimento
dell'intero pianeta anche in conflitti per così dire «regionalizzati», come quello in questione, e in
cui il «sociologo» assume il disastro ecologico nel Golfo Persico come «primo, drammatico
esempio» del carattere planetario di quelle che potrebbero essere le conseguenze di qualsiasi altro
conflitto, anche «limitato». A questo punto mi chiedo: forse che qualcuno dei paesi, o meglio, dei governi degli Stati che Fulco
Pratesi sembra discolpare, ha mai cercato di impedire il conflitto che sta alla base di questo
disastro? Eppure, questa guerra fra Stati sta mietendo migliaia dì vittime dall'ottobre dell'80.
Sarebbe poi stata possibile questa guerra, e le vittime e il disastro ecologico che ha causato, se un
esiguo manipolo di fanatici non fosse stato sostenuto dal fanatismo di migliaia di «sfruttati»?
Sarebbe stata possibile qualsiasi altra guerra, se quelle migliaia di soldati che l'hanno condotta e
che la conducono si fossero rifiutati di assolvere al loro «dovere» di macellai e di carne da macello?
Sarebbe stato possibile l'hitlerismo stesso, se non ci fossero stati milioni di «mediocri» pronti a
sostenere il comportamento dei «criminali»? Si sarebbe mai diffusa «la peste» se anche noi, nelle nostre quotidiane esistenze, non ne avessimo
incubato i germi?
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