Rivista Anarchica Online
Il mago della floppy
di Aurora e Paolo
Era un tipo decisamente originale. Non solo nell'aspetto fisico: facciona immensa e barbuta,
portapenna intorno al collo, camicia sbottonata fin sopra lo stomaco maestoso, pantaloncini corti. Un orso? Un bambinone? Trasferitosi da vari anni da Ginevra a Carrara per lavorare alla tipografia,
era come refrattario all'apprendimento dell'italiano, ma non - lui francofono - a quello del dialetto
carrarino. Era contento quando gli capitava di comporre testi in lingue strane: le memorie del
vecchio Tommasini in triestino, le poesie in calabrese ed in albanese per A terra nostra, tutta roba
immediata, espressione di quella cultura popolare in cui si riconosceva. Non sopportava gli intellettualismi e tutto quanto gli pareva tale, le astruserie, il sinistrese, il
carcerese. Da questo punto di vista, il suo compito di addetto alla composizione di Umanità Nova,
delle nostra rivista e di tanta parte della pubblicistica e dell'editoria anarchica gli procurava non
poche incazzature e lui certo non le nascondeva: questo articolo non si capisce un cazzo, questo qui
ha sprecato dieci pagine per dire al massimo due cose, ma questo pezzo perché lo pubblicate.
Chiuso nel suo gabbiotto, con la sua floppy (la compositrice ultra elettronica) e le due tastiere,
componeva ad una velocità incredibile - e, quel che è davvero notevole, mentre batteva riusciva e
leggere, fissare nella sua memoria, analizzare, confrontare. Era preciso, meticoloso, estremamente
professionale: ma al contempo partecipava. Ecco allora che, mentre correggevi le prime bozze di un
articolo, trovavi la sua annotazione, la sua domanda di chiarimenti, i suoi punti esclamativi
polemici. A volte capitava anche che un articolo gli piacesse. Raramente. Malatesta ha scritto da qualche parte più o meno (non è una citazione letterale): «I giochi di
parole li lascio a quelli che vogliono ingannare il lettore». Aggiungerò io: «e a quelli che non
hanno niente da dire». Così scriveva Gilbé in una lettera pubblicata sul n. 106 della nostra rivista.
Era proprio lui: lo stesso che divorava riviste «difficili», dove però la difficoltà era diretta
conseguenza del livello d'approfondimento e della specializzazione dei temi affrontati. In qualche
pausa di lavoro, il sigaro in bocca, la cagna fra i piedi, era lì a leggersi il Scientific American. Dopo aver dormito per anni in tipografia, vicino alla sua floppy, da un po' si era trovato casa: stava
sistemando l'orto, fierissimo. Anche così viveva il suo anarchismo, lui che quando si incazzava, per
farci incazzare di più, diceva: «voi anarchici...». Refrattario alle convenzioni, aveva il suo
caratterino e quando c'era da discutere non lo si faceva certo sottovoce. Poi, amici come prima. Da
veri amici. Proviamo a ritrovare il contatto con l'uomo di strada - scriveva sempre in quella lettera Gilbé -Proviamo a dare dell'anarchia un'impressione di qualcosa vissuto ogni giorno ( ... ), un
anarchismo che sia espressione della vita stessa. Quella stessa vita che il 27 aprile, mentre stava
terminando di comporre i testi per questo numero della rivista, gli ha voltato bruscamente le spalle:
un infarto. Per noi, un terribile groppo alla gola. Mentre scriviamo queste righe, in tipografia si sta lavorando sodo. Umanità Nova l'hanno appena
finita di stampare, lavorando tutta la notte. Si stanno battendo gli ultimi testi per questa rivista: a
fatica, perchè manca il mago della floppy. Si cerca di ridurre al minimo l'inevitabile ritardo: «lo
facciamo anche per non dover pensare» dice un compagno/tipografo. Ma non pensare è
impossibile. Gilbé era un «pezzo» della tipografia che non si può sostituire. E' un pezzo del nostro cuore che se
ne va.
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