Rivista Anarchica Online
Intervista ai punx anarchici
di Paolo Finzi
A colloquio con i punx anarchici, al Virus, su musica, abbigliamento, anarchia, Comiso,
violenza/nonviolenza, fanzine, aggressività, dischi autogestiti, vivisezione, antimilitarismo, eroina,
concerti, rapporti con i mass-media, ecc.
Io devo dire innanzitutto che questa domanda non mi piace tanto, perché è un casino, è un casino
dire così che cosa significa essere punk. Io posso dire personalmente mi metto i capelli in piedi e
mi vesto in una certa maniera perché mi identifico sono in questa maniera e non mi va di vestirmi
come fanno gli altri. E allora sono così. Però che una persona da esterna mi venga a chiedere
perché sono punk, a me viene in mente solo come mi vesto, mentre invece secondo me il discorso è
molto più profondo: c'è il fatto di come agisco, dei rapporti che ho con la gente, dell'azione che
porto anche fuori. E forse è tutto questo che mi diversifica dagli altri, non tanto perché ho i capelli
in piedi o gli altri mi chiedono «perché sei punk?». Alla prima domanda (che cos'è il punk? che cosa l'identifica?) Marco risponde così. E salta subito
fuori il problema delle definizioni (non mi piacciono perché diventano facilmente delle etichette
sottolinea Cristina), con il rischio di voler a tutti i costi «inquadrare» il punk in schemi vecchi,
inutili per comprendere. Eppure la prima domanda, in un'intervista ai punk (e stasera in questa
stanza della casa occupata di via Correggio 18 ce ne sono una ventina, di Milano ma anche di
Genova, Bologna, Piombino, Como, Torino, ecc.), non può che esser questa: che cos'è il punk? Secondo me - dice Cristina - esistono vari modi di rapportarsi alle cose esterne, all'ambiente
esterno, alle persone ed anche a noi stessi: e uno di questi può essere il punk. Che non è
necessariamente avere le borchie, può essere semplicemente avere una scritta o tirarsi i capelli in
piedi o come uno si taglia i capelli in una maniera che poco tempo fa (ora no, ora tutto è
cambiato) non era la maniera corrente di tagliarsi i capelli o di vestirsi, usciva insomma da certe
regole normali, da certe logiche di comportamento. Io identifico il punk in un modo di essere che
ognuno individualmente (e poi magari spesso collettivamente, nei gruppi) sceglie di far vedere agli
altri o anche così, per se stesso. Per Papalla, comunque, non è che l'abbigliamento sia una parte marginale, non importante
dell'essere punk. Penso che anche solo il lato esteriore possa essere un modo per esternare il
proprio essere. Ma allora i punk sono quelli che si vestono e si acconciano in una certa maniera? E' certo l'aspetto
esteriore ad identificarli? Cristina mette in risalto il fatto che ultimamente il punk è stato fatto
proprio e rilanciato da negozi normali, case di moda, parrucchieri, per cui c'è in giro tanta gente
«acconciata» da punk ma che con il punk non ha proprio niente a che spartire. Quando uno decide
di essere punk, aldilà del fatto che possa identificarsi subito in un modo di vita libertario o
anarchico, alcune cose ci sono immediatamente. E sottolinea l'elemento di obiettiva rottura
rappresentato dal fatto di infrangere gli schemi di vita famigliare e sociale consueti per i ragazzi
«normali»: rientrare a casa a una certa ora, adeguarsi a tutta una serie di norme, ecc. Il punk è più
facilmente riconoscibile come uno che sta spezzando qualcosa: non a caso è spesso sottoposto ai
fermi, alle provocazioni ed alle misure repressive delle forze dell'ordine. Per questo nel fatto di
essere un punk c'è già qualcosa, se non di libertario o anarchico, certamente di sovversivo.
L'importanza della musica Punk è anche musica. Che cosa rappresenta per voi la musica? Per me - risponde Daniele - la
musica ha abbastanza importanza, perché permette ad ognuno di noi di esprimersi, sia a livello
musicale sia di parole. E' difficile che nei nostri gruppi ci sia chi fa solo i testi o suona solo la
chiatrra e se ne frega dei testi: ogni pezzo rappresenta quello che vive quel gruppo, è ciò che lo
accomuna. Per me - dice Fabio - la musica è un momento di espressione come lo possono essere tanti altri,
però acquista importanza nel momento in cui io voglio dare un diverso significato a queste cose, a
questa musica. Con il mio aspetto musicale io voglio completamente stravolgere quella che è stata
la musica fino ad adesso. Una delle cose a cui ipoteticamente vorrei arrivare è la distruzione del
rock 'nd roll americano, perché lo trovo un 'espressione musicale massificante, che porta al
passivismo. L'espressione musicale io la vedo importante in questa maniera ed anche perché a me
piace suonare: ho imparato da solo a suonare la batteria e questo è stato importante, perché la
musica ha molto più valore quando c'è gente che prima ha avuto la coscienza di dire «io voglio
esprimere delle cose» e poi al limite ha imparato a suonare dopo. E' stato molto importante che
molti punk (e per questo il Virus è servito molto) prima abbiano acquisito la coscienza di volersi
esprimere al di fuori di certi canali e poi abbiano acquisito la capacità di esprimere queste loro
idee, imparando a suonare da soli, non facendosi catturare dagli stereotipi della musica.
Comunque, oltre alla musica, ci sono anche altre espressioni che io mi sento di usare: fare
opuscoli, volantini, performances teatrali e altre cose simili, che hanno anche loro la loro
importanza, nel momento in cui piacciono a te e tu gli dai un senso molto marcato, determinato. In tutti è netto il rifiuto del circuito musicale ufficiale, l'«affare musica» come lo definisce Daniele.
Molti gruppi punk sono riusciti a prodursi direttamente i loro dischi (con una tiratura, in genere,
sulle 1.000 copie), vendendoli direttamente con dentro volantini contro la guerra, contro la
repressione o altre cose. E questa volontà di «resistere» al mercato discografico e alla sua logica, è
molto sentita da tutti. Marco ricorda quando tre-quattro anni fa, all'inizio della loro esperienza, tutti
davano loro addosso, attaccandoli perché non «sapevano» suonare e predicendo loro un sicuro
fallimento. Noi volevamo tentare, imparare da soli a suonare i nostri strumenti, e così abbiamo
fatto: ma alla fine i gruppi erano molto sterili, perché ad esempio andavano a suonare sì con pezzi
fatti da loro, però magari in concerti organizzati dalle istituzioni stesse (oppure cantavano in
inglese, aggiunge Fabio). A questo punto ci siamo accorti che queste contraddizioni si potevano
abbattere tranquillamente e allora è nato il Collettivo Punk, sono nati i primi gruppi che
cantavano in italiano: dopo aver imparato a suonare fuori dei canali, ci si esprimeva e si usciva
fuori, facendo capire alla gente qual era il nostro messaggio. Secondo me - salta su Fabio - non è giusto dire «hanno imparato a suonare»: si sono adattati lo
strumento a se stessi e lo hanno usato. «Imparato a suonare» può voler dire tante cose. E allora - prosegue Marco - abbiamo iniziato a venire in questa casa occupata e ad autogestirci i
primi concerti (ottobre '81) e qui allora è cominciata a venir fuori quella musica che si è espressa
nei nostri dischi autogestiti, che vendiamo alla metà della metà del prezzo delle case discografiche.
Molti hanno cominciato a prendere coscienza che potevano esprimersi, prendere in mano lo
strumento e suonarlo come piaceva loro. E poi, mentre prima ci si trovava solo per suonare, si è
cominciato a trovarsi anche per discutere dei problemi che si hanno in questa vita di merda, in
questa situazione. La musica è poi anche uno strumento per uscire fuori, per dire quello che si ha
dentro: insomma essere prima amici e poi musicisti (mentre nel mondo musicale succede in genere
il contrario). Secondo me - dice Cristina - è importante usare lo strumento musica perché nella vita normale di
una persona adesso, vuoi perché è uno dei prodotti che ti offrono vuoi perché dentro ognuno di noi
ci sono dei suoni e una ricerca del suono che ognuno sviluppa più o meno, la musica è importante.
Usando lo strumento musica tu porti via spazio al normale mercato discografico e musicale, nel
senso che molti giovani che vengono ai nostri concerti solo per sentire musica, sentono musica e in
più sentono anche un discorso, sentono delle parole che sta poi a loro elaborare nella loro
maniera. E poi c'è l'aspetto dell'autogestione (dischi, concerti, ecc.) che è molto importante, e un
esempio. Ma allora, domanda Giuseppe, se l'importante è l'autogestione, non la si potrebbe forse applicare
anche ad altri generi di musica, quali il rock o il jazz? Visto anche quel che Fabio ha detto prima
rispetto al rock americano, questa domanda provoca una serie di risposte (tutte negative, nella
sostanza). Ne viene fuori con maggiore chiarezza che per loro il punk non è assolutamente
considerabile un genere musicale, è qualcosa di radicalmente diverso. Il fatto di non appoggiarsi
alle normali ragnatele del sistema - dice Cristina - è fondamentale. E poi il punk è un suono che si
è tirato fuori in una maniera molto tribale, viscerale, non so come dire: le persone dicevano
«voglio tirare fuori dei suoni e non m'importa niente che nota sia questa, la tiro fuori in qualsiasi
maniera», mentre il jazz, il rock, ecc. hanno uno schema e bene o male le persone che vogliono
farlo seguono questo schema. E questa è una cosa brutta secondo me.
Violenza, nonviolenza, pacifismo Papalla non è daccordo e cita il free jazz, che è viscerale quanto il punk, ma ci tiene soprattutto a
sottolineare che, aldilà dei testi, è importante anche la musica in quanto tale: il fatto che tu faccia
della musica distorta, violenta, può rispecchiare un certo tuo modo di vivere le cose, un certo tuo
rapporto con l'esterno, che è sempre, bene o male, un rapporto violento. Per cui anche il voler
creare un caos sonoro può voler dire questo. O si può anche voler dire che esiste una confusione
sia all'esterno sia all'interno di noi stessi. Per Fabio il problema è quello di andare aldilà delle
classificazioni e delle etichette: in questo senso anche il punk, se diventasse schema fisso ed
istituzione, andrebbe rifiutato. Io non me la sentirei mai di dire «io faccio della musica punk», io
prefèrisco dire «mi esprimo in questa maniera» anche se poi non c'è un nome preciso per definirla. Papalla ha citato il rapporto sempre violento con l'esterno e il discorso si sposta su questa
questione, eternamente controversa in campo libertario. Quando si sono occupati dei punk
anarchici del Virus, i mass-media li hanno sempre definiti «nonviolenti». V oi come la vedete? Puntuale, rispunta il problema delle definizioni. Intanto - dice Fabio - io non sono molto daccordo
nemmeno a definire le cose, perché per esempio in quest'intervista mi piacerebbe di più se una
persona avesse dei flash, delle visioni, delle tracce di che cosa potrebbe essere, oppure leggere tra
le righe che cosa potrebbe essere la mia vita, la mia espressione, piuttosto che uno, due, tre che
cos'è il punk. Daccordo, ma - rivolgendomi non a voi collettivamente come punk, ma ai singoli
individui - come vivete in teoria ed in pratica il discorso della violenza? Ognuno affronta questo discorso in maniera molto individuale - risponde Papalla - Per quanto mi
riguarda ho deciso a seconda dei momenti: ho già il mio aspetto che può apparire violento ed in
certe situazioni ho deciso di rifiutare, di non accettare le provocazioni che mi venivano fatte per la
strada. In che senso ti ritieni violento o ritieni che l'esterno ti consideri violento? gli chiede Fabio. Mi ritengo inteso violento perché può dare fastidio il mio modo di abbigliarmi e di comportarmi.
Mi sono sentito spesso dire da gente che ho conosciuto in seguito «ma io a te non mi ci avvicinerei
mai, perché fai paura vestito così come sei». Comunque ora non mi ritengo nonviolento e non mi
sta più nemmeno bene il termine pacifista. Per Daniele non è questione di violenza o nonviolenza, si tratta invece di non reprimere l'istinto
così come viene al momento. Altro che offrire l'altra guancia: se me ne danno una, io se posso
gliene do indietro tre o quattro. E cita il caso di quando la polizia li ferma, chiede loro i documenti
insultandoli, gli dà una sberla perché sa che tanto da soli non possono reagire. In questi casi, se
potessi, la farei finire diversamente la storia. Sulla questione della violenza - ribadisce Fabio - io mi sono stufato di autodefinirmi. Comunque
quello che è il mio tentativo (perché lo ritengo giusto per me e per l'altra gente) è escludere la
violenza da tutto quello che è la mia vita: e per «mia vita» intendo il parlare con una persona che
mi sta vicina, il parlare con una persona sul metrò, dar da mangiare al gatto e cose di questo
genere.
Ma l'aggressività è un'altra cosa Anch'io - dice Marco - vorrei eliminare tutta la violenza nei rapporti che ho con la gente e
soprattutto con la gente che mi sta intorno: però riconosco che quando una persona, soprattutto
esterna, che non conosco, tenta di buttarmi addosso con tanta violenza tutto il suo modo di essere
io rispondo quasi sempre in maniera aggressiva. Ma tra aggressività e violenza, almeno come
intendiamo questi termini stasera, c'è una grossissima differenza e su questo siamo tutti daccordo:
una cosa è il modo spontaneo ed immediato di reagire, un'altra qualitativamente ben diversa è
appunto la violenza. Quando però il dibattito si fa più concreto, emergono meglio le differenze di
carattere e di opinione. Marco si dichiara sicuramente in disaccordo con un determinato tipo di violenza, per esempio
quella organizzata, perché ti porta dietro un casino di menate e di storie anche nei rapporti
personali (e lo si è visto anche a Comiso). A mio parere - prosegue - non si risolve un bel niente
con questo tipo di violenza. Se noi usiamo le stesse «armi» che usa il sistema per combattere
contro di noi, alla fine è la stessa storia: la legge del più forte, la legge di chi ha più armi, la legge
di chi ha più soldi. Per questo motivo io non sono assolutamente uno di quelli che vuole fare delle
azioni violente, con una violenza organizzata dietro. Anche se, quando uno per la strada mi dice
qualcosa o quando la polizia attacca una nostra azione pacifista, la mia reazione può essere
aggressiva: ma io non la definisco assolutamente violenta, perché è soltanto un istinto ed io non
penso assolutamente che l'istinto dell'uomo sia violento. Dentro di me - dice Cristina - ci sono dei meccanismi che scattano ogni tanto (anzi sono scattati
spesso durante la mia vita) e sono meccanismi che scattano quando mi trovo di fronte alla violenza
continua da parte o di persone o del sistema (e dell'autorità). Questo meccanismo io non lo chiamo
assolutamente violenza, ma autodifesa: in parte è naturale (la mia aggressività) e in parte sì
probabilmente ci sono delle cose che mi sono state inculcate dentro. Io sono proprio daccordo con
questa autodifesa, perché dovrei fare proprio molta forza su me stessa, ed anche non spontanea,
per tenermi per esempio ferma quando qualcuno cerca di farmi del male. E questo modo di fare mi
è servito molto nel corso della mia vita. All'interno però dei rapporti personali (ed intendo non
solo quelli con gli amici e le persone che mi stanno intorno, ma anche quelli con la gente che
incontro per strada) tento di creare un'armonia, per cui non ci sia né violenza da parte mia né
violenza da parte degli altri. Tento perciò di usare cose come il parlare, lo stare bene, lo spiegarsi
continuamente quando c'è qualche minima cosa che potrebbe far scattare da ambo le parti quel
meccanismo di aggressività. Ciononostante ritengo che quando cammino per strada e mi succede
qualcosa di brutto, quello che scatta dentro di me non è assolutamente una cosa negativa, ma è la
mia voglia di esistere, di vivere e di sopravvivere in quel momento: per cui non è violenza. Daccordo sul fatto che chi arriva a posizioni libertarie è naturalmente avverso alla violenza
(lottiamo contro la repressione, non per reprimere qualcun altro, precisa), Daniele insiste però sul
fatto che in certi momenti la violenza ci vuole. E distingue tra la guerriglia urbana (che potrebbe
ancora andare bene) e la banda armata (che rifiuta). Sul fatto che non ci si deve mettere nell'ottica di offrire l'altra guancia e di farsi passivamente
attraversare e schiacciare dalla violenza esterna, Fabio ribadisce quello che è una posizione
sostanzialmente condivisa da tutti. Ogni espressione con cui il potere arriva a me - aggiunge - o
arriva nei luoghi dove vivo io o più in grande su scala mondiale, è un'espressione violenta. Il
potere è violenza, sopraffazione, molte volte forza fisica, è armi, è dolore, è sofferenza. Dal
momento che è il potere che impartisce questa violenza, che ne fa uso e che può giocarci (perché
chiaramente hanno dietro cose, per cui la violenza è il gioco che a loro sta bene), in quel momento
io mi sento di rifiutarla nella maniera più assoluta. Sempre in tema di aggressività e in genere di modalità di comportamento, Antonia chiede ai punk
che significato abbia il loro modo di ballare violento e cita una sua esperienza a Brescia, con i punk
anarchici di quella città. Il tema è sentito, intervengono in diversi per chiarire i rispettivi punti di
vista: è vero che nel ballare, soprattutto sotto il palco, c'è spesso un gran casino, una ricerca del
contatto fisico, ma - è questa sinteticamente la spiegazione - a parte qualche raro caso non c'è
violenza né volontà di farla. E' un modo spontaneo di esprimersi da parte di chi ha in quel momento
l'esigenza di esprimersi così: a volte sembra che ci si disfi - spiega Daniele - ma se non c'è nessun
bastardo (e ce ne sono stati ed a volte purtroppo ce ne sono) non ci si fa assolutamente male: al
massimo ci si fa male da soli, mettendo magari giù male un piede. Cristina sottolinea che in tutto
questo c'è un'esigenza di partecipazione, positiva, vissuta come un gioco: gli aspetti negativi sono
legati solo alla presenza di persone che stanno lì in mezzo solo per far casino e per dimostrare la
loro forza fisica. Ma soprattutto ci tiene a mettere in risalto che spesso le stesse persone che
criticano questo loro modo di comportarsi e lo chiamano «violenza» (mentre non è violenza) sono
poi quelle che si fanno dei risolini e si dicono delle frasi che sono delle ferite. La loro non la vedi,
perché è un'aggressività mascherata: la nostra non è nemmeno aggressività, è gioco, è gioco
reciproco perché io non salterei mai addosso ad un altro quando questo non lo vuole e spero che
nessuno lo faccia con me.
L'esigenza di uscire fuori Passiamo ad altro. L'insieme dei punk com'è organizzato (ammesso che si possa usare questo
termine)? I punti di riferimento e di contatto maggiori sono i concerti (organizzati nelle varie città
dai locali gruppi punk) - spiega Fabio - poi ci sono le fanzine, i dischi autoprodotti e da un po' di
tempo a questa parte anche certe mobilitazioni a carattere regionale e nazionale (una
manifestazione in un posto, un'altra in un altro, o magari Comiso). Per esempio proprio stasera c'è
a Roma un convegno organizzato dall'ARCI nel quale vengono trattate (a mo' di banda giovanile)
anche le tematiche punk: e lì polemicamente ci sono dei punk con un banchetto, con fanzine, dischi
autoprodotti e volantini. Tra le fanzine, due hanno maggiore tiratura e distribuzione e sono Attack
e T.V.O.R .. C'è poi Punkaminazione, che è un foglio nazionale fatto da cinque punti in Italia: è
distribuito perlopiù nell'ambiente punk, è gratis, autofinanziato dai gruppi (praticamente - precisa
Cristina - è il bollettino nazionale di informazione tra i punk, con tutte le notizie sulle cose
autogestite). Il problema della comunicazione tra noi si sta sviluppando un casino in questi ultimi tempi aggiunge Marco, ricordando che una volta le fanzine erano solo a carattere musicale - Quello che
sta venendo fuori adesso è un po' il discorso che anche noi di Milano abbiamo portato avanti con
il Virus, di uscire fuori, di partecipare alle manifestazioni sull'antimilitarismo e sul problema della
gestione degli spazi. Ci siamo accorti che questa nuova sensibilità si stava sviluppando anche fuori
Milano e qui è nata l'esigenza di trovarci con quei collettivi che operavano con le nostre stesse
storie. E qui Marco cita l'inizio delle riunioni con alcuni compagni di Torino, un anno fa circa.
Salta su Papalla e ci tiene a precisare che quelli di Torino non ci tengono per niente ad essere
chiamati compagni. Comunque - spiega Fabio - il fatto è che ad un certo punto sono saltate fuori delle contraddizioni e
ci siamo resi conto che avevamo degli spazi disponibili e non ci bastava più trovarci in 300 e
basta. I contatti con le altre città - riprende Marco - sono nati come cosa necessaria e spontanea: ai
concerti ci siamo accorti che veniva della gente da Bologna, Genova e da altri posti che aveva le
nostre stesse esigenze. Ciascuno sviluppava le proprie attività ma poi tutto si fermava un po' per la
mancanza di gente. Nel frattempo è saltata fuori questa scadenza di Comiso, che ci portava tutti
assieme a confrontarci con un obiettivo ben preciso: mi ricordo che ci sono state due riunioni qui
al Virus con i ragazzi di Brescia, di Bergamo e di Genova, e sono state bellissime riunioni. Poi per
ragioni tecniche si è un po' interrotto, ma io penso che il livello di comunicazione tra città diverse
si sta sviluppando solo adesso: il fatto per esempio che ci siamo trovati dopo Comiso (dove eravamo un centinaio di punk anarchici) a fare un articolo per «A»Rivista Anarchica è stato positivo. E
adesso vengono qui al Virus persone un po' da tutt'Italia, si riescono a fare riunioni e discussioni,
pensiamo tra poco di fare qualcosa insieme ai punk di Bergamo. Per Fabio però c'è un rischio, quello di autoghettizzarsi come punk e di cercare solo di sviluppare la
comunicazione interna ai punk, senza invece cercare di proiettarsi maggiormente all'esterno, verso
la gente. E' un rischio da tener presente.
Quali rapporti con il movimento C'è poi la «questione» dei rapporti con il movimento anarchico, con i gruppi, le iniziative, i giornali
che preesistevano allo sviluppo dei punk. Più in generale, vorrei capire quale atteggiamento nutrano
i punk - quelli qui presenti, singolarmente, non necessariamente i punk in quanto tali - verso la
nebulosa «movimento anarchico». Se ne sentono parte? Il fatto che in alcune località facciano
riferimento a sedi anarchiche (a Genova al «Ferrer», a Bologna al «Cassero», ecc.) che significato
ha per loro? E la collaborazione alla stampa anarchica (di cui l'articolo sullo scorso numero di «A»
e quest'intervista non costituiscono che un momento iniziale) come lo vivono? Si sentono più la
parte anarchica dei punk o l'area punk nell'ambito del movimento anarchico? Tutte domande
inevitabilmente schematiche, ma insomma la questione è posta. Ed i molti interventi dimostrano
che è sentita, molto sentita. Per Fabio c'è una premessa indispensabile, ora come ora fondamentale. Il movimento anarchico è
diviso in varie aree, dice in sostanza, e a me sta a cuore soprattutto di non venire etichettato o fatto
confluire in nessuna di queste aree. Poi, naturalmente, prendo quello che posso prendere di buono,
do quello che posso dare di buono, parlo con tutti. La cosa più importante per i punx anarchici
oggi è quella di non confluire in nessuna area del movimento anarchico. Daniele è pienamente
daccordo con Fabio: innanzitutto, nessuna strumentalizzazione né confusione. Io avevo già prima dei rapporti con il movimento anarchico - dice Cristina - perché da anarchica
sono diventata punk anarchica, per cui avevo già una mia idea sul movimento anarchico e sui
compagni: ci sono compagni con cui lavoravo prima, lavoro ora e lavorerò sempre, sono i
compagni con cui sto meglio. Una cosa che a me scoccia un casino (già l'hanno messa in luce gli
altri) è che vedi questa grande divisione tra compagni, queste aree divise, e poi ti trovi in mezzo un
po' come un pirla perché magari vai in un posto con tutta la tua ingenuità (per esempio a Comiso
contro i missili, o contro le elezioni) e poi invece di avere tanta gente intorno ti trovi solo della
gente che sta litigando e ognuno ti dice «ho ragione io!» «no, ho ragione io!», e tu ci rimani di
merda perché quello che ti aspettavi di fare te era un lavoro insieme. Magari può essere anche una
cosa bella la parte critica, ossia ognuno dice la sua, ci si scazza anche un po' ma poi nel bene e nel
male ci si scambia le idee: però delle volte proprio nel momento in cui stai facendo le cose
pratiche c'è questa cosa qua, e noi ci siamo rimasti proprio in mezzo. Marco è daccordo nel segnalare i ripetuti tentativi di cui i punx anarchici sono stati oggetto per farli
confluire in questa o quella area, e per questo ci tiene a definirsi punk anarchico: ma io - aggiunge -
ho un casino di fiducia in questo movimento e spero che non si ripetano più queste storie qua (per
le quali, fra l'altro, sia a Comiso sia a Milano, ero stato molto male). Non posso credere che anche
dentro al movimento anarchico ci sono stati questi tentativi di strumentalizzazione: invece ci sono
stati. Papalla la vede diversamente. Credo che innanzitutto il punk è un movimento (se così vogliamo chiamarlo) di rottura con il
passato, con qualunque passato. Rompere con il passato vuol dire anche rompere con un certo tipo
di istituzione anarchica, quella di Malatesta e del centro anarchico in cui bisogna essere militanti
o militonti, o anche del rosso e nero, del compagno serio che c'è sempre e che non si può
permettere di avere ogni tanto i cazzi propri perché bisogna andare lì per fare quella cosa. Per cui
più che parlare di area, preferisco parlare di aria che si respira in certi posti. Anche Fabio si identifica molto poco con le espressioni del movimento anarchico (gruppi, giornali,
ecc.): mi piace l'articolo su quel giornale, posso valutare positivamente questa o quella cosa, ma ci
tengo di più a determinare la mia identità. Marco ribadisce che condivide le critiche che sono state
fatte in merito ai tentativi di strumentalizzazione dei punx, ma non accetta che per questo motivo si
possa arrivare ad isolarsi dal movimento anarchico. Gli altri negano che si voglia arrivare a tanto e
il dibattito prosegue, molto vivace. Sempre in tema di strumentalizzazioni si inserisce il capitolo, ormai chiuso definitivamente, dei
rapporti tra i punx ed i mass-media. Dopo una serie di esperienze tutte negative, al Virus hanno
deciso di non avere più rapporti con nessun giornalista: e citano l'assoluta non-collaborazione
offerta proprio ieri all'ultimo arrivato, un inviato di Repubblica. Anche con i giornalisti
«rivoluzionari» non gli è andata molto meglio: dell'unica intervista rilasciata a Passpartù, una rivista dell'autonomia padovana, sono tuttaltro che soddisfatti, ma soprattutto in due ci tengono
che venga scritta qui la loro rabbia contro Damiano Tavoliere, che era stato anni prima redattore di
Controinformazione, che li convinse a lasciarlo girare dei filmati all'interno del Virus assicurando
loro che era materiale per archivio: finito però, poco dopo, negli schedari dell'ufficio «devianza
giovanile» della Provincia. C'era il tempo - ricorda Fabio - in cui ci fidavamo di questi bastardi, di
questi spandimerda e parlavamo con loro e ci sforzavamo di tirare fuori noi stessi, le nostre idee.
Lo interrompo e gli butto lì un «pensa quando lo dirai ai me, di noi di «A», per questa intervista» e
lui tranquillo: E' possibile. Ormai, comunque, è da un anno che i punx del Virus hanno chiuso del
tutto con i mass- media.
Vegetariani perché L'espresso, L'europeo ed altri giornali che si sono comunque occupati dei punx hanno sottolineato,
oltre alla loro nonviolenza (ben chiarita all'inizio di quest'intervista), anche il fatto che sono
vegetariani. E' vero? Lo sono tutti? E che significato ha per loro? Fabio è vegetariano: ma non mi
sta assolutamente bene che i mass-media ci presentino come «questi bravi ragazzi, nonviolenti, che
non sanno nemmeno più spaccare una vetrina e sono vegetariani». Non mi va di comparire su un
giornale solo come vegetariano, e non come anarchico e come uno che vuole cambiare tante cose
determinatamente. In effetti - spiega Cristina - molti di noi sono vegetariani. Io penso all'anarchia non come ad una
cosa futura, ma ad una cosa che voglio cercare di vivere il più possibile in questa mia vita, fin
nelle più piccole cose. Voglio cambiare non solo le cose esternamente, ma anche tutte quelle
piccole cose che sono piccole parti del potere dentro di me. Una di queste cose era quella di
mangiare carne, cioè di considerare gli animali degli esseri inferiori a me: per questo molti di noi
hanno deciso di diventare vegetariani. Comunque è solo una delle piccole cose che formano il
nostro modo di vivere: essere vegetariana, essere ecologista, essere igienista, ecc .. Ancora più sentita è la lotta contro la vivisezione. Anche molti gruppi che non sono vegetariani -
prosegue Cristina - sentono molto la questione della vivisezione, si impegnano a distribuire
volantini contro la vivisezione, contro lo spreco ed il lusso tipo pellicce. Fabio sottolinea che
comunque anche il vegetarianesimo si sta quasi radicando tra i punk. Daniele però mette in guardia
dall'aspetto «moda»: lui stesso personalmente ha cercato di essere vegetariano ma ora non gliene
frega niente e mangia tranquillamente carne. Fabio non è daccordo: anche se uno non mangia
carne per sola moda, comunque è uno che in quel momento non sta mangiando della carne, e
questo già di per sé è positivo. Interviene anche Claudina, vegetariana anche lei: anche se non vi è
una coscienza dietro, è già positivo che non si mangi carne (che definisce una cosa orribile). Contro l'eroina, ciò che rappresenta ed il business che ci sta dietro, i punx del Virus si sono
impegnati molto. Agli inizi - ricorda Marco - tra noi punk c'era una logica molto apatica e l'eroina
è entrata quasi automaticamente tra di noi. Ma il fatto che abbiamo iniziato ad agire, a fare
qualcosa (innanzitutto proprio contro l'eroina), ha posto fine a quel fatto. Comunque va precisato
che siamo contro l'eroina ma più in generale tutta la mentalità apatica e qualunquista che c'è tra i
giovani. Fabio sottolinea come questa lotta contro l'eroina sia molto sentita dai punx italiani,
mentre all'estero è spesso pochissimo sentita. In queste iniziative, la possibilità di avere uno spazio in cui ritrovarsi è di fondamentale
importanza. Eppure di spazi specificamente punk ce ne sono pochissimi in giro: il Virus a Milano,
il Tuwat a Carpi, da fine settembre uno spazio a Ferrara, degli appartamenti occupati a Bologna (ne
parla Nicola, che racconta anche un po' dell'attività e dei problemi dei punk a Bologna). In altre
località frequentano le sedi anarchiche. Ma nella maggioranza dei casi sono costretti a ritrovarsi in
piazza, con tutte le difficoltà ed i problemi conseguenti: a volte per suonare utilizzano cantine, case
private, ecc., ma la situazione è perlopiù precaria: al Sud, poi, è spesso drammatica. E' Fabio a porre ora una domanda. I ruoli momentaneamente si capovolgono: di che tipo è
l'interessamento che avete voi di «A» per i punk oggi? mi chiede. Innanzitutto - gli rispondo (preso
un po' in contropiede) - vorrei che il mio non fosse un interessamento per i punx, ma per delle
singole persone. Francamente il primo approccio alla questione è stato di tipo «esterno»: da
militante anarchico sono stato colpito, incuriosito ed interessato a questo «fenomeno» di segno
libertario. Questo però è un atteggiamento che scatterebbe anche per un «fenomeno» che accade in
Birmania. Poiché si tratta però di un fenomeno anche italiano, anche milanese, poiché ci siamo
ritrovati insieme in piazza in alcune manifestazioni e iniziative (come quella per Zanoni), allora -
aldilà della curiosità verso un movimento nuovo, diverso e di esplicito segno libertario - c'è
soprattutto la volontà di conoscere degli individui, che vivono in una certa maniera, che fanno più o
meno alcune delle cose che faccio io, che vivono con maggiore coerenza alcune cose, con diversa
coerenza altre, che non sentono delle cose che sento io (per esempio il discorso della militanza),
ecc.. Più che un interesse generico per i punx, c'è la voglia di conoscersi meglio con quelli che
hanno la stessa volontà. Per quanto poi riguarda quest'intervista, è naturale che come compagni che
da una dozzina d'anni portiamo avanti una delle pubblicazioni anarchiche, ci sia l'interesse (al caso
un po' tardivo) a dare spazio ad un modo di essere, di pensare, ecc. di segno libertario qual è
appunto il punk. Non solo pensando alla fascia per così dire libertaria dei nostri lettori, ma anche
per quegli anarchici che dei punx anarchici sanno poco o niente.
Per Adriano erano tutti felici E' stato citato Zanoni, è logico che il discorso cada sull'analogo gesto di Adriano, il punk del Virus
che proprio qualche giorno fa - esattamente il 6 settembre - avrebbe dovuto presentarsi in caserma a
Bari ed invece ha scelto di rifiutare sia il servizio militare sia quello «civile». Chiedo se anche tra i
punx ci sia stato qualcuno che ha storto un po' il naso di fronte ad una scelta che a volte anche tra i
compagni è giudicata inutilmente masochista (la prospettiva, si sa, è quella di un anno di carcere
militare). La sera che io l'ho detto al Virus - racconta Cristina - erano proprio tutti felici, c'era
gente che si chiedeva «ma io come posso aiutarlo?», molti dicevano «quello che sta facendo
Adriano è veramente grande», altri affermavano «io non ce la farei» ma erano pronti a sostenerlo
in qualsiasi maniera. E questo non solo per la gente del Collettivo, ma anche per i punk che ci
girano attorno. Per Papalla, invece, l'obiezione totale presenta degli aspetti negativi, che poi sono i soliti messi in
luce dai suoi «critici»: che per un anno sei chiuso dentro senza possibilità di contattare molta gente
(mentre in caserma puoi fare propaganda a più gente e non perdere del tutto i contatti con i tuoi
compagni), eccetera, eccetera. La discussione si infervora: in molti rispondiamo a Papalla,
sottolineando soprattutto il valore etico e la forza (anche propagandistica) della coerenza vissuta
fino in fondo, da chi paga di persona per un'idea che in teoria ci accomuna tutti. Papalla risponde a
sua volta, ripropone le maggiori possibilità di un lavoro tra i militari di leva, ed anche al Virus - tra
punx - si riproduce una discussione non certo nuova. E' comunque evidente che la scelta di Adriano
ha provocato al Virus, in chi la condivide, una tensione di partecipazione molto forte. A sostegno
della sua scelta non mancheranno le iniziative di sensibilizzazione. L'intervista, sempre più trasformatasi in una chiacchierata su molti temi, va avanti ancora per
molto. Si parla - tra l'altro della problematica uomo/donna all'interno del Virus, dei rapporti tra
punx e heavy metal (alcuni gruppi heavy hanno suonato al Virus), dei controversi rapporti tra i
punk anarchici italiani ed il più vecchio punk inglese (con i Crass, ecc. ecc.), del rifiuto dei punx a
farsi inquadrare nelle «bande giovanili» tipo guerrieri della notte, della possibilità di una loro
prossima collaborazione ad «A» e ad altri giornali anarchici, ecc. ecc. Chi doveva prendere l'ultimo metrò se n'è già andato, ci salutiamo e ce ne andiamo anche noi
cinque redattori e collaboratori della rivista. In macchina, mentre attraversiamo la città quasi
deserta, ci scambiamo le nostre opinioni a caldo su questi punx anarchici che ora conosciamo un
po' meglio: i nostri giudizi (non molto articolati per il sonno incipiente) sono sostanzialmente
positivi. Ma non conosciamo quelli dei punx.
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