Rivista Anarchica Online
Pacifismo firmato Crass
di un membro dei Crass
In maggio i Crass hanno tenuto numerosi concerti in giro per la Gran Bretagna, con il fine - tra
l'altro - di raccogliere soldi a sostegno del quindicinale pacifista Peace News. Come sempre in
simili occasioni, sono stati distribuiti scritti, volantini, prese di posizione, ecc. di gruppi musicali,
libertari, pacifisti, ecc .. I Flux of pink indians, uno dei gruppi musicali anarchici più impegnati,
hanno distribuito il loro scritto Taking liberty (« Prendendo la libertà»). A firma di «un membro dei Crass», è stato inoltre distribuito un lungo volantino, incentrato
sull'analisi critica del movimento pacifista inglese: ne riproduciamo in queste pagine ampi stralci.
Le illustrazioni sono tratte da vari opuscoli/copertina dei dischi dei Crass, caratterizzati da una
grafica originale, dissacrante, aggressiva (vi ricordate quella copertina di «A» 104 con Breznev,
Reagan, la Thatcher, ecc., anch'essa ripresa da un disco dei Crass, che certo non passò
inosservata?).
Se mi fermi per chiedermi: «... e adesso?... dove adesso?» aspetti davvero una risposta da me? Non
è forse più semplicemente dalla tua coscienza che tu cerchi una risposta? Io posso solo dire qualche
cosa, e sperare che tu ed io riusciamo a capire di più noi stessi, e un po' l'uno dell'altro...Dove il
mare colpisce senza pietà la spiaggia, è la sicurezza della terra. Nel punto più profondo dell'oceano,
spesso regna una strana quiete ...
Non bastano i bei ragionamenti Credo non sia più il caso che le nostre azioni siano spinte da motivazioni che forse dieci anni fa
avrebbero potuto avere un qualche valore. Non viviamo in una società regolata dalla Ragione (e
forse non è mai stato così), e se anche lo fossimo stati, credete che coloro i quali detengono
l'autorità al di sopra di questa società sarebbero stati disposti ad ascoltare questa ragione? Viviamo
in uno stato di polizia all'interno del quale ogni illusione di democrazia che poteva esserci stata è
ormai stata messa da parte, sostituita da una benevolente forma di fascismo. Non possiamo avere
alcuna possibilità se continuiamo a seguire logiche e motivazioni che affondano le loro radici in
un'epoca passata. E' ora di rendersi conto che il movimento pacifista è per sua natura un movimento
rivoluzionario: è assurdo limitarsi a chiedere la pace e ad esigere ragionevolmente le condizioni che
possono renderla possibile, rivolgendosi ad uno stato la cui unica politica è la repressione. Il nostro
compito è il completo smantellamento dello stato, con volontà di combattere per raggiungere
questo scopo e rifiuto totale di partecipare a folli politiche di riforma. Il massimo che ci si può
attendere dalle riforme è la completa libertà: il potere, però, resterebbe ancora allo stato e ai suoi
agenti. E' questo ciò che vogliamo? E' esattamente quanto abbiamo avuto in quest'ultimo secolo.
Ora, nel 1984, si può ragionevolmente dire che tutto ha funzionato? Lo stato farà sempre delle
concessioni al popolo, per nessun'altra ragione se non quella di mantenere il controllo su di esso. E'
ora che facciamo valere la nostra autorità: non basta più elemosinare che altre persone ci concedano
qualcosa. Il nome di tutto questo è «lotta di classe», da non intendersi però col significato
sinistroide di «operai contro padroni» né secondo il gergo femminista di «donne contro uomini».
Queste sono formulette facili, che servono soltanto a creare fratture e divisioni: ricchi e poveri, lo
stato e il popolo. E' tempo di rendersi conto che lo stato non sarà abbattuto con bei ragionamenti ed evasioni quasi
mistiche camuffate da azioni. Naturalmente, noi come individui dovremmo sviluppare la ragione,
educare alla comprensione e all'amore, dovremmo rendere conto delle nostre azioni al nostro spirito
(inteso in senso mistico, o altro), ma pensare di applicare questi comportamenti a livello politico è
ingenuo e irrealistico. Se il discorso regge a livello personale, a livello politico proprio non ci
siamo: siamo coinvolti in una rivoluzione, non in un dibattito accademico. Nella realtà, il
movimento pacifista non è un vero «movimento», piuttosto un punto di riferimento comune a un
enorme gruppo di persone molto diverse fra di loro (...). Dall'elettore laburista al militante anarchico c'è un vasto e diversificato insieme di motivazioni
individuali, ragionamenti e razionalità. Quando un minatore afferma che con uno sciopero intende
proteggere il suo diritto al lavoro e contemporaneamente recare danno (ed eventualmente mettere in
crisi) il regime della Thatcher, io mi sento di solidarizzare con la sua lotta, anche se sono convinto
che nessuno dovrebbe essere costretto a lavorare in quelle terribili condizioni che si pretende i
minatori accettino pur di ricevere un po' più di soldi dal loro ricco padrone, cioè lo stato; io
solidarizzo con quella lotta, poiché essa è parte dell'enorme dissenso dal quale potrebbe in qualche
modo nascere un'insurrezione popoiare. Quando le donne di Greenham Common organizzano delle
dimostrazioni (esclusivamente aperte alle donne) e affermano di portare avanti un discorso di
informazione e diffusione, sperando in questo modo di favorire una politica di riforme, io mi sento
di solidarizzare con loro sebbene io non sia un sostenitore del separatismo (per me è il massimo
dell'autolesionismo, la lotta è di donne e uomini insieme) e io non credo che le loro azioni
simboliche possano in qualche modo condurre a dei reali cambiamenti. Sono comunque dalla loro
parte, poiché esse dimostrano il potenziale di uno stile di vita rivoluzionario, che è uno degli aspetti
dell'enorme dissenso dal quale potrebbe nascere un'insurrezione popolare. Se i minatori e le donne
di Greenham si rendessero conto di condividere lo stesso senso di oppressione, e cercassero punti
in comune alle loro battaglie invece che le differenze, allora si potrebbe assistere alla creazione di
un vero movimento. I collegamenti sono evidenti: le miniere stanno per essere chiuse e smantellate poiché le centrali a
carbone sono in contrasto con la politica energetica del governo, che tende allo sviluppo delle
centrali atomiche. Le centrali nucleari producono le materie prime per costruire ordigni nucleari:
ecco il vero potere! E così, mentre i minatori presidiano i cancelli delle loro fabbriche per
proteggere il loro lavoro e il loro mondo, mentre le donne di Greenham Common continuano a
manifestare davanti ai cancelli della base americana per proteggere il loro mondo, lo stato resta a
guardare e sorride divertito. Fino a che i collegamenti non saranno stabiliti lo stato riderà alle nostre
spalle. Non è forse giunto il momento di non guardare più alle nostre differenze, e capire che
ciascuna delle nostre azioni potrà avere veramente un valore soltanto se ci renderemo conto che la
nostra è una lotta comune? Noi non siamo soli. Ancora per quanto organizzeremo inutili dibattiti
sul pacifismo in contraddizione con l'attivismo? Ancora per quanto dovremo sopportare quelle
noiose e stupide chiacchiere moralizzatrici sul come questo o quell'altro gruppo avrebbe dovuto
comportarsi? Mettiamoci bene in testa che la lotta delle popolazioni oppresse di tutto il mondo è anche la nostra
lotta, e che i metodi impiegati per condurre questa lotta sono diversi, così come diverse sono le
battaglie condotte da ciascun singolo individuo. In tutta franchezza credo che molte delle strategie
del «Movimento di Azione Diretta Nonviolenta» siano inefficaci quanto sorpassate. Io non voglio
essere una vittima della violenza dello stato, e non voglio neanche che altre persone lo siano. Mi
sembra che le proteste simboliche espongano la gente a non altrettanto simboliche reazioni delle
forze dell'ordine: il numero degli arrestati e denunciati nel corso delle manifestazioni di protesta
dello scorso anno è stato dell'ordine delle migliaia. La filosofia del «riempiamo le prigioni» è
soltanto vittimismo: se ci sono delle persone disposte ad accettarla e portarla avanti, avranno la mia
solidarietà soltanto nel caso in cui le loro azioni siano incluse in un più grande disegno di dissenso
dal quale potrebbe aver origine un'insurrezione popolare.
Non sono una pecora Da parte mia, non sono disposto ad accçttare un ruolo simile: non sono una pecora che si lascerà
condurre docilmente al macello dello stato. Ad eccezione di pochi individui (i cosiddetti «psicotici»
e i robots attirati dalla virilità della vita militare o della carriera in polizia) mi sono reso conto che,
tra tutte le persone che ho incontrato nella mia vita, nessuna ha la minima intenzione di procurare
dolore o fastidio ai propri simili. Coloro che lo fanno agiscono così perché sono stati stravolti dalla
pazza e assurda oppressione dello stato e della società da questo manipolata e controllata. Ancora
per quanto tempo dovremo tollerare il triste spettacolo dei nostri compagni bastonati dagli agenti
dello stato, e poi le critiche moraliste provenienti proprio dall'interno del movimento pacifista,
magari espresse proprio da coloro che ritengono necessario un ritorno ai disordini di piazza? Non credo che lo stato e il suo principale rappresentante, la Thatcher, che ha spietatamente
assassinato più di trecento marinai imbarcati sul Belgrano, rimangano danneggiati o in qualche
modo colpiti da strategie del tipo «riempiamo le prigioni». Mi sembra evidente che in questo modo
gli unici a rimetterci e ad indebolirsi saremmo soltanto noi: quanti compagni siamo disposti a
consegnare allo stato? Tutti noi, indistintamente, abbiamo dovuto affrontare frustrazioni incredibili
per trovare quella piccola parte di noi stessi che urla: «... questo è sbagliato!... non voglio esserne
complice!» : è moralmente accettabile il fatto che noi ci sentiamo in colpa perché possediamo
questa piccola luce? ( ... ) Io so che i colori esistono, io so che esiste la bellezza. So che la vita è perfetta, unica, eppure sento
che nuvole oscure avvolgeranno tutto quanto è nobile, buono, puro. So che accadrà, lo sento... Non possiamo permetterci di fare i martiri, poiché sarà molto più difficile essere uno di quelli che
resteranno dopo. La nostra lotta è una sola, e dobbiamo portarla avanti assieme, dentro, fuori dai
cancelli e contemporaneamente lontano dai cancelli. La minaccia di migliaia di compagni arrestati
non fa che confermare il cinismo agghiacciante del nemico: non possiamo permetterci di essere le
vittime di questa caccia alle streghe del ventesimo secolo. Quelle prigioni buie sono le nuvole nere
sui cieli luminosi del nostro futuro. Opponiamoci a questa oscurità: contro le nuvole oscure,
spezziamo le catene che ci tengono legati al nostro immobilismo! Credo fermamente nel pacifismo
e nel significato più ampio di questa parola. Rifiuto completamente qualsiasi forma di violenza
verso ogni forma di vita. Sono convinto che nessun contrasto può essere risolto con il ricorso alla
forza e alla violenza, ma non sono disposto a stare fermo senza far niente, e assistere passivamente
allo spettacolo dei miei compagni che soffrono, stretti negli artigli dello stato. Noi abbiamo il
diritto di proteggerci: è un diritto fondamentale di tutti gli individui. Non sono così stupido e così
«macho» da credere di essere in grado di salvare dei compagni dall'arresto o da un pestaggio
quando in giro ci siano un bel po' di poliziotti, ma nel caso ci sia una reale possibilità di riuscita (e
sempre che il compagno non abbia deciso di accettare passivamente l'arresto) credo sia il caso di
tentare. Un pugno o due valgono il rischio, poiché un po' di casino per strada è infinitamente
preferibile all'osceno trattamento che ti sarebbe riservato una volta in prigione. Suggerirei questa
soluzione per tutte quelle situazioni in cui ci siano minacce di violenze fisiche: siamo stati per
troppo tempo zitti a subire la derisione di idioti fascisti che sputavano sopra a quanto siamo riusciti
a creare.
Il potere della parola e quello delle azioni Ciò che abbiamo costruito è troppo prezioso perché venga distrutto senza una nostra reazione.
Ancora per quanto tempo abbiamo intenzione di lasciarci coinvolgere nella politica suicida delle
manifestazioni di massa? Non sarebbe il caso di valutare meglio azioni simili? D'accordo, i «campi
della pace» possono funzionare, ma sono il modo migliore di impegnare le nostre forze? E'
abbastanza? Una manifestazione come «Stop The City» può essere una buona idea, ma si riesce a
paralizzare davvero un'intera città? E' abbastanza? Mi sembra il caso di affermare che la strategia delle grandi manifestazioni di massa è ormai
inefficiente e sorpassata. Certo, c'è un valore in azioni simili, ma siamo noi che glielo attribuiamo.
La crescita personale è importante, certo, è essenziale, ma quand'è che smetteremo di sviluppare la
nostra personalità ed inizieremo ad usarla? Tutto quel gran numero di individui sovversivi piazzato
lì a presidiare le basi americane non è certo ragione di preoccupazione per lo stato: fintanto che
restano lì non possono essere in nessun altro posto. Credete che il giocare a indiani e cowboys con i
convogli di trasporto dei missili sia qualche minaccia per lo stato? Lo stato non se ne preoccupa,
anzi. Credete davvero che manifestazioni come «Stop the City» abbiano un qualche effetto
duraturo? Lo stato non se ne accorge neanche, anzi, è in occasioni come queste che i suoi agenti
hanno la possibilità di fare un po' di ginnastica, contro persone che non potranno o non vorranno
replicare in modo altrettanto violento. A differenza di noi, la polizia non ha alcuna inibizione ad
usare la violenza. Se verrà il momento in cui mi troverò costretto a menare le mani, lo farò soltanto
perché io avrò deciso di farlo. Al contrario, la polizia mena le mani perché non si rende conto di
quello che fa, non se ne interessa. E perché dovrebbe? Quale minaccia costituiamo noi per la loro
autorità? Sanno bene che sono loro quelli che tengono il coltello dalla parte del manico. La
resistenza passiva, invece che una sfida al potere, è un'occasione per rafforzarlo. Se l'accettare
passivamente la violenza che ci viene usata può servire a farcela accettare più facilmente, vale la
pena di farlo più intelligentemente, ma è un'assurdità fare della passività una politica di
comportamento. Quanti cristi dovranno ancora morire sulla croce della nostra paura, prima che ci
rendiamo conto che noi non siamo le vittime ma i carnefici? Non credo alle pressioni dell'opinione pubblica per la richiesta di riforme. Non voglio essere un
pesce nella vasca dello stato, non voglio accettare passivamente la sua violenza, non voglio
partecipare ai suoi dibattiti. Non credo sia sufficiente che ognuno sviluppi per proprio conto la sua
consapevolezza. Nulla di tutto questo può portare a cambiamenti apprezzabili, ma sono disposto
comunque a solidarizzare con iniziative simili, poiché credo siano essenziali per il raggiungimento
dell'inevitabile rivoluzione, che potrà verificarsi durante il corso della mia vita, oppure nel futuro,
ma dovrà verificarsi, prima o poi. Dopo tutti questi discorsi, non ho ancora spiegato chiaramente quale sia la mia posizione, forse
perché è una posizione di ambivalenza. Da una parte, sono profondamente convinto del potere della
parola, dall'altra, del potere delle azioni. Entrambi possono coesistere e rafforzarsi a vicenda, ma
spesso nella pratica questo non succede. Le mie parole possono rendere inutili le mie azioni,
proprio come le mie azioni possono rendere inutili le mie parole. Raramente azioni e parole non
sono in contraddizione. Lasciatemi però dire che sento che ciò in cui credo è il giusto senso delle
cose. Lasciatemi continuare nella mia ricerca di forza interna, a giudicare la mia abilità di essere
all'altezza di quanto ho affermato. Sono disposto a rendere pubbliche le mie parole, ma le mie
azioni saranno conosciute direttamente solo da poche persone, e in questo senso rimarranno «private». Credo che i «campi della pace», le manifestazioni di massa, ecc. abbiano un loro valore, un loro
senso, ma che sia ora di dedicarsi a imprese più utili e per noi convenienti. La politica del riunirsi
tutti assieme in grandi folle mette in grado la polizia di controllarci, schedarci, di trattarci come dei
numeri, non come persone. Per noi è facile diventare cartelle nei loro archivi: ricordiamoci che
essere denunciati, processati e condannati ci può rendere difficile o addirittura impossibile il
muoverci liberamente per il resto della vita, quindi non facciamoci fregare. Davanti a una qualsiasi
delle basi americane in Inghilterra c'è adesso un gran numero di manifestanti che è passibile di
denuncia e di arresto per «atti criminali» quali il sabotaggio (taglio di fili spinati, scavalcamento e
abbattimento di reticolati, ecc.), spionaggio, cospirazione ai danni dello stato. Secondo me, la
maggioranza delle persone occupate a presidiare le basi americane (non tutti, meglio non
abbandonare completamente il terreno) sarebbe meglio impiegata a commettere «atti criminali» in
altri luoghi e situazioni. Perché rischiare l'arresto durante le grosse manifestazioni (ad esempio, quando sono stati scavalcati
i cancelli di Greenham Common) quando si potrebbe procurare danno maggiore allo stato e alle
istituzioni in modi non così direttamente controllabili? Ci sono innumerevoli altri obiettivi sui quali
varrebbe la pena soffermare la nostra attenzione, dagli uffici di collocamento alle scuole, dai
municipi alle stazioni di polizia, etc .. Nella pratica, nella realtà, tutti questi posti sono istituzioni e
diramazioni dello stato. Credo ci siano soltanto due possibilità per il futuro del nostro pianeta: la prima è che allo stato
venga ancora permesso di continuare la sua repressione fino a quando, per sua naturale tendenza
all'arroganza e al sopruso, sarà costretto a sterminare qualsiasi forma di vita, nella sua ossessione di
guerra. Al giorno d'oggi viviamo un'assurda situazione, per cui rischiamo ogni momento un
disastro nucleare, sia sotto forma di guerra atomica (inevitabile) che come guasto di una centrale
(inevitabile). Uso la parola «inevitabile» perché tutto questo è destinato ad accadere a meno che
non decidiamo di non farlo accadere: ecco la seconda possibilità. Il disarmo totale dello stato e
delle sue istituzioni: è una corsa contro il tempo. Credo che coloro che assecondano la logica dell'evoluzione riformista, nella pratica operino per la
prima delle possibilità che ho citato. Non possiamo più fidarci della ragionevolezza, poiché questa
non ha mai ottenuto alcun risultato concreto. Soltanto una rivoluzione totale potrà trasformare la
terra in un luogo sicuro. Inevitabilmente, in uno scritto breve come questo, si rende necessario
stringere per arrivare alle conclusioni. Se una rivoluzione ci sarà, questa dovrà essere
internazionale. Non sta a me adesso definire le strategie che gli altri dovranno seguire nei loro
rispettivi paesi, visto che ciascuno sa bene in che situazione si trova e che le considerazioni fatte
finora devono essere adattate alle diverse situazioni locali. Bisogna accettare l'idea che la lotta di
tutti è anche la nostra lotta, sebbene non se ne condividano completamente i metodi.
Contro ogni separatismo Nonostante mi sia sempre considerato e definito un «pacifista», la mia fiducia nel pacifismo, forse
a causa del modo in cui molta gente lo pratica e lo vive, è andata progressivamente diminuendo.
Come può il separatismo, ad esempio, essere considerato pacifista? Come può essere considerato
pacifismo la separazione in ruoli, la provocazione, l'asservimento? Destiniamo noi stessi ad essere
vittime, senza reagire: è una filosofia senza via d'uscita, è un modo completamente sbagliato di
praticare il pacifismo. Credo che le grosse manifestazioni di massa non serviranno a niente, se non
a piccole riforme. Non mi sembra sia moralmente accettabile lo starsene lì a guardare senza far
niente, mentre i nostri compagni sono malmenati e picchiati dalla polizia. Il limitarsi ad esprimere
il nostro senso di consapevolezza e di amore non credo possa avere alcun effetto nei confronti di
gente addestrata a picchiare ed educata ad odiare. Prendendo posizioni diverse e contrastanti,
all'interno del movimento pacifista, noi ci uniformiamo alla politica di divisione e conquista dello
stato. Più di ogni altra filosofia, credo che i maggiori responsabili di queste divisioni all'interno del
movimento siano le femministe e Non Violent Direct Action. Com'è che ogni mia iniziativa è giudicata «maschilista», com'è che lo scavalcamento dei cancelli di
Greenham Common è stato propagandato come «una dimostrazione del nuovo spirito del
femminismo»? Non siamo forse persone? Non è forse l'anarchismo la pratica dell'autocoscienza,
come il pacifismo, come il femminismo? Dov'è il posto per queste divisioni, che io sento imposte
da qualcuno che ha paura della propria individualità? Mi sono stancato dell'esclusivismo. . Mi sono stancato delle diversità. Mi sono stancato di essere solo, quando sento che ho bisogno di
stare assieme agli altri. E' giunto il momento di finirla, una volta per tutte, di rinfacciarci le nostre
differenze, ed unificare i nostri sforzi. O è troppo tardi per trovare degli accordi?
Quando si tratterà di scegliere La nostra arte e la nostra creatività sono le nostre armi più potenti. Dobbiamo usare la nostra
fantasia per stabilire il nostro futuro: incominciamo a preparare il mondo nuovo. Nessuna rivoluzione è auspicabile se non si ha una chiara visione di quello che si vuole dopo. Non
è forse giunto il momento di chiederci per che cosa vogliamo combattere? Creiamo dunque le
politiche di comportamento per il nostro futuro. Siamo così spesso forzati alla rinuncia, ci
nascondiamo dentro al nostro buco, al buio, per guardare la luce che brilla così distante da noi. Non
è forse tempo che ci muoviamo in direzione di quella luce? Adesso, forse, sono giunto al momento più difficile di questo mio scritto, il punto più importante
per mettere alla prova la mia natura essenzialmente pacifista. Quando la gente verrà a conoscenza
di qualche possibilità di cambiamento reale, in un primo momento si limiterà ad assistere, a
solidarizzare passivamente, e solo in un secondo momento si sentirà coinvolta e parteciperà
attivamente alla lotta. Lo stato, i suoi agenti, i suoi «amici» ed alleati (da qui la necessità di una
rivoluzione internazionale) si opporranno alla concessione della libertà reclamata, libertà alla quale
la gente non sarà disposta a rinunciare. Per quelli che facevano parte del grande movimento
pacifista degli ultimi anni '70, e che a quel tempo erano convinti delle strategie puriste e pacifiste
del primo movimento nonviolento, si porrà la domanda cruciale: combattere o non combattere?
Combattere oppure sottomettersi all'inevitabile barbarie con cui lo stato reagirà alla rivoluzione? Se il movimento pacifista è davvero schierato dalla parte della pace, non può in alcun modo
tollerare l'esistenza dello stato, soprattutto perché la pace così come lo stato l'intende non è altro
che una situazione generale di calma e torpore, un senso di sicurezza che lo stato può controllare
direttamente. Se cerchiamo la pace, la vera pace, mettendo da parte le nostre differenze, noi
andiamo verso la rivoluzione, poiché in nessun altro modo le nostre domande troveranno una
risposta. Verrà il momento in cui noi non ci dovremo più confrontare con la polizia, ma con
l'esercito (...). So che se il mondo non verrà prima distrutto dallo stato, verrà il tempo della rivoluzione. So che
tutti i pacifisti contribuiscono e hanno contribuito a questa situazione. Quello che non so è se sarò
oppure no disposto a prendere in mano un fucile.
Una nuova filosofia di vita Non so se da quanto sono riuscito a esprimere in questo articolo riusciate a intravedere una qualche
scintilla di luce. So che, fucile o non fucile, farò di tutto per mantenere intatti, dentro di me, quelli
che credo siano i sentimenti più umani ed essenziali: la scelta e la speranza. Spero che un giorno si
riesca a creare una nuova filosofia di vita che non comprenda sofferenza e dolore, una filosofia che
dia a tutti dignità ed integrità. Un giorno, me lo auguro, tutti potremo raggiungere questo modo di
vivere, questa scelta. Per il momento, il mio senso di realtà mi dice che questa possibilità mi è preclusa, ma continuerò a
cercarla e a sperare. Senza dimenticare il vero senso della vita, immaginando quanto questo sia
auspicabile e bello, possiamo finalmente cominciare a guardare al senso della nostra lotta da un
diverso punto di vista? Con amore, pace e speranza.
traduzione di Marco Pandin
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