Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 122
ottobre 1984


Rivista Anarchica Online

Cassandra: tutti noi ribelli
di Maria Teresa Romiti

In margine all'ultimo libro di Christa Wolf

Il mito cammina profondo e segreto dentro di noi, simile alle radici degli alberi, si nutre delle esperienze, dei pensieri depositati sul terreno dai secoli. Silvia Storoni Mazzolani, Le Sacre Sponde.

Dal mito giunge la voce di Cassandra, veggente troiana, voce antica e nuova al di fuori dello scorrere della storia. Rivive in me la veggente scontrosa, ribelle al punto di rifiutare il dio o in lei sono vissute/i per millenni donne e uomini che hanno anche solo per una volta detto no? Cassandra, un nome, un destino. Donna ed è già tragedia, troiana ed è il fato che incombe, veggente ed è la visione dell'orrido futuro, ribelle ed è la fine. Un simbolo di sventure che si preferirebbe dimenticare, come già i troiani che ciechi e spaventati non vollero credere. Un rifiuto che è negazione prima che di Cassandra, della parte di me che troppe volte si è sentita legata all'idea che questo nome rappresenta; straniera e diversa tra i suoi, sola ad occhi spalancati di fronte al futuro, attorniata da gente che non vede, non vuole vedere, paralizzata, impotente.
Ridare voce al mito per ridare voce ancora una volta a chi vede e non viene creduto, a chi vive in bilico tra coscienza e impotenza, a chi è sempre solo, straniero ovunque si trovi, perché il mito possa, ritrovando nuova forza, rispondere con antiche parole a problemi che sembrano nuovi.
Se il mito è discorso di una società su se stessa, se in esso sono racchiusi archetipi a mille facce, allora è chiaro perché un mito può sembrare attuale, perché si può risentire il bisogno di riprendere in mano la figura antica di secoli. E' ciò che ha fatto Christa Wolf nel libro Cassandra, (Edizioni e/o, Roma 1984, pagg. 153, lire 14.000), che mi è servito come spunto per alcune riflessioni. Ma non ha molta importanza il libro in sé, chi parla è Cassandra, il mito di Troia. «Dovunque io fissi lo sguardo o concentri il pensiero, non un dio, non un giudizio, me stessa soltanto».
Cassandra è sola, sola perché non accetta altri su se stessa, sola perché gli altri rabbrividendo si ritraggono da me, come sempre e dappertutto. Sola sin dalla tenera età conoscevo fin da piccola il vuoto esclama. Solitudine che continua tutta la vita. Estraneità che si legge nei volti che ci guardano, incapacità a conformarsi.
Qual è la prima volta che il bambino vede lo sguardo stupito e sgomento dell'adulto? Quando desideri che sembrano normali appaiono come mostruosità? E' uno sguardo che segna la differenza, che legge nell'io la volontà di seguire solo se stessi. Ed è questa la colpa più grave nella società, il germe profondo della ribellione. Fintanto che lo sguardo chiede spiegazioni, fin quando ci sarà anche solo uno che vorrà seguire il proprio sentiero, lì sarà il pericolo. E gli altri leggono la volontà, il desiderio dell'io, la forza racchiusa nella persona e se ne ritraggono: stupiti che possa accadere, spaventati come se fossero sullo strapiombo. In quegli occhi leggono ciò che avrebbero potuto, e non hanno voluto essere: leggono la scintilla subito spenta. Anche in loro, almeno una volta, lo stesso sguardo si è alzato, ma di fronte al viso corrucciato si è spento, morendo. Che essi, ahimé, non sanno vivere. Che questa è la vera sciagura, il reale pericolo mortale. E i morti non possono sostenere lo sguardo dei vivi.
E si rimane circondati di vuoto. Condannati alla solitudine. Gli altri non capiscono, non vogliono neppure sentirti. Bisogna imparare a vivere senza nessuno. E il cuore sanguina: si anela, anche solo per una volta, a qualcuno che risponda al nostro richiamo, che accetti di comunicare con noi. E' il nostro io che grida, con rabbia, esasperazione: «Anch'io sono un essere umano!». E non capisce perché solo l'eco debba rispondergli.
La veggenza di Cassandra è imprescindibile da questo prezzo: la solitudine, la non-comunicazione, la diversità. E' qui che è nato il primo parallelo. E' qui che ho visto in faccia il mito. Perché anch'io avevo vissuto quel vuoto, anch'io conoscevo, fin da piccola, quegli sguardi tremebondi: diversa, altra. Un marchio incancellabile. E anch'io alla fine avevo gridato «sono un essere umano». Cassandra io? Cassandra la ribelle? Cassandra chi segue se stesso per quanto alto sia il prezzo.
Ma Cassandra è anche veggente. E non è un caso che non sia creduta. Cassandra, noi tutti, ribelli, anarchici: destinati a dare profezie che non vengono mai ascoltate. E c'è forse soddisfazione dopo nel dire: «Ve l'avevo detto, io!» Ma la profetessa ribelle che rifiuta persino il dio, che dice ciò che vede senza riguardo, non può essere accettata. Stolta a credere di poter passare la corazza degli uomini, stolti noi, che come lei, siamo convinti che basti parlare perché la verità salti agli occhi, quando invece non capiamo che siamo gli unici a vedere.
E' questo che per lungo tempo non ho capito: che non tutti potevano vedere quello che vedevo io. Che essi non concepivano la nuda insignificante figura degli eventi. Pensai che si prendessero gioco di me. Ma avvaloravano se stessi... Simili a formiche andiamo dentro ogni fuoco. Ogni acqua. Ogni fiume di sangue. Solo per non dover vedere. Che cosa? Noi. Per poter sostenere lo sguardo sull'esterno, vedere i nudi fatti, non cullarsi nei desideri dobbiamo prima riuscire ad affrontare noi stessi. Si riparte ancora dalla sfida. Solo chi segue il proprio io. Chi riesce a sostenere il confronto con se stesso può poi discernere la realtà.
Gli altri lo odiano proprio per questo. Li strappa dai loro sogni, gli chiede di vedere: Sempre la stessa musica: non il misfatto, ma il suo annuncio fa impallidire, anche infuriare gli uomini, lo so dalla mia esperienza. Così si è condannati alla solitudine e alla paura perché le uniche profezie bene accette sono quelle del palazzo, quelle che danno fiato ai nostri desideri.
Il parallelo è così scoperto da sembrare inutile. Io, sola, ribelle, anarchica, noi, soli, ribelli, anarchici, Cassandre. Destinati a non essere creduti, a ritirarsi di fronte alla marea di chi non vive, di chi rifiuta la realtà perché dolorosa e si piega ai ciarlatani. Troppo bello, troppo semplice. Questo è ancora solo desiderio. E' vero, la solitudine scoperta troppo presto è stata mitigata poi, quando per caso o per volontà, si sono ritrovati i compagni. Quelli che come noi, anni prima, avevano sostenuto lo sguardo accusatore senza spegnere la propria anima. La prima volta che ci si accorge di non essere soli è un tripudio: il cuore balza in gola. Sembra impossibile. Ci si ritira gioiosi dentro le mura, chiudiamo le porte Scee di fronte agli altri.
Ecco è uscito! Il bubbone intorno al quale ho girato per tutto questo tempo come Cassandra è finalmente scoperto. Perché il parallelo uscito dalla lettura è stato: noi Cassandra, ma soprattutto noi Troiani. Assediati da una cultura dominante, impauriti, costretti, ci culliamo tra desideri inespressi, ammantando di vittoria e di rito l'amaro sapore della sconfitta. Come in guerra, ci chiudiamo dentro le mura, senza neppure sapere bene come si fa tentiamo di battere il nemico con le sue stesse armi; e diventiamo sempre più simili a lui. Si spegne la fiamma, la voglia di essere in mezzo agli altri.
Cerchiamo solo compagni, parliamo solo tra noi, temiamo i nemici come la peste, guardiamo con sospetto chiunque li avvicini. Perché la guerra uccide la vita e non si può vivere sempre sotto assedio. Le nostre mura ci soffocano, ci chiudono. E tutto questo l'ho già detto.
Cassandra ancora una volta.
Qualche profezia e un po' di caparbietà di fronte a quel muro sempre più simile ad una prigione. Perché come Cassandra si è impossibilitati quasi a spiegare fino in fondo il proprio malessere. Non si vorrebbe dover dire che il proprio rifugio assomiglia sempre più ad una cella, dove gli altri forse ci hanno chiuso, ma dove noi sembriamo stare troppo bene. E come Cassandra ci sentiamo sull'orlo dell'abisso. Di fronte alla richiesta di accettare il tranello per uccidere Achille, Cassandra dice no. Eppure il dovere è accettare perché Achille è il peggior nemico di Troia e qualsiasi mezzo va bene. Il no sembra un tradimento e così viene punito da Priamo. Potevo ripercorrere la vicenda parola per parola, passo dopo passo, pensiero dopo pensiero. Dieci, cento volte sono stata davanti a Priamo, cento volte ho tentato di rispondere sì al suo ordine di dichiararmi a favore. Cento volte ho detto di nuovo no. La mia vita, la mia voce, il mio corpo non davano altra risposta. Non ti dichiari a favore? No. Ma tacerai. No. No. No. No. Avevano ragione, e il mio ruolo era di dire no.
Perché ci si sente totalmente dalla parte di Troia, incondizionatamente, ed il dissidio è insanabile. Come dire no, parlare di errori, giudicare la morte imminente di chi si sente vicino, troppo vicino. Sa di tradimento. Proprio ora nel momento peggiore quando piano piano la vitalità fuoriesce, vogliamo essere proprio noi a vibrare il colpo alla schiena gridando il nostro no. Per tornare soli? Non è neppure quello, la solitudine ci è amica a volte anche tra compagni; non ci fa certo paura. Ma tradire gli amici, le persone che conosciamo così bene, di cui sappiamo pregi e difetti: questo è troppo. E allora il silenzio copre il nostro grido.
Solo di tanto in tanto, incontrando lo sguardo perduto di chi, come noi, sente la morte che si avvicina, ci spingiamo a discutere, a commentare ad analizzare.
Poi si ricomincia anche se l'entusiasmo non c'è più, anche se a volte si lavora solo per dovere perché quasi non si crede a ciò che si sta facendo, come in un rito spogliato del proprio significato. Come animali feriti e in trappola restiamo bloccati, consci di ciò che ci aspetta e nello stesso tempo impotenti. Ma è un atteggiamento pericoloso: non si può continuare a vedere senza far nulla. L'impotenza porta la disperazione e dopo per sopravvivere si può solo chiudere gli occhi, uccidere la fiamma che brilla dentro di noi. Dire no prima di diventare morti che seppelliscono morti, prima che tutto ciò che facciamo si muti in un orrido rito funerario senza senso in cui glorificare il passato mentre si stende un velo sul presente. Belle parole, ma ancora solo parole. Come fare, cosa, dove?
Anche quando ci si rende conto che il cambiamento deve essere radicale, rimane il problema del come. Le nostre menti mute non riescono a trovare risposte, non riescono neppure a formulare le domande. Un arcigno guardiano dentro di noi ci blocca, impedisce ai pensieri di formarsi. Autocensura? Sì, proprio! Bloccati perché troppo partecipi, troppo legati emotivamente per avere il coraggio di spezzare i legami, di ripartire, anche da soli seguendo il nostro sentiero. Si può fare qualcosa di fronte all'io che si erge censore?
Dalle pagine si alza un'altra voce. E' difficile chiamarla risposta, forse al massimo tentativo. La prima volta che l'ho letta ho detto: «Ecco noi dovremmo essere così». Dovremmo, ma non siamo: la nostra tragedia è racchiusa in queste parole. Comunità di donne che sorgono fuori Troia, tra le caverne. Donne libere che vivono insieme: greche, troiane, schiave, principesse. Piccole comunità dove la vita non è spenta, dove non si è permesso alla guerra di entrare. Forse nella Troia storica e neppure in quella leggendaria sono mai esistite, ma ora divengono mito, carico di significato. Le donne delle montagne. Le donne che accolgono Cassandra come tutte coloro che vogliono qualcosa di diverso, come gli uomini, pochi, che vorrebbero veramente cambiare qualcosa. Non parole, ma fatti, calde accoglienze, sapere accettare gli altri, anche la loro diversità, il tentativo di un mondo diverso. Anche noi dovremmo essere così, fuori tra le montagne, senza bisogno di tante parole.
Le donne sulle montagne mi hanno tolto il vizio dell'orgoglio. Non con le parole. Con la loro diversità, col fatto che guadagnavano alla loro natura quei tratti che osavo appena sognare.
Nessuna risposta certa. Nessuna parola che dica cosa fare. Avrebbe senso forse? Solo sperimentare, giorno dopo giorno il proprio sogno senza chiedersi per quanto tempo, senza cercare di persuadere gli altri, senza considerarsi un esempio da seguire. Semplicemente cercando la propria strada con tutti quelli disposti a seguirci. E non importa la lingua che parlano, non ha senso chiedersi chi sono e cosa vogliono: sono esseri umani, vogliono vivere, liberi, come noi.
Eravamo grate perché era concesso proprio a noi di godere del massimo privilegio che esista, far avanzare una sottile striscia di futuro dentro l'oscuro presente che occupa ogni tempo. Che sogno. Quasi troppo bello: comunità nate insieme ad Anchise che appagò un suo sogno e che insegnò a noi giovani come si sogna restando con i piedi per terra.
E' stato breve come tutti gli esperimenti, che nati e vissuti sotto l'ombra della divesità vengono ricordati come vuoti riti. Mentre ogni volta si deve avere il coraggio di abbattere gli idoli, rifiutare Apollo e ricominciare sperimentando, ancora, ancora, ancora per se stessi e non per gli altri ...
U n mondo di uomini non ha bisogno di eroi ... E nemmeno di profeti.