Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 137
maggio 1986


Rivista Anarchica Online

La lezione di don Giovanni

Il prete, don Giovanni Chirivì, della parrocchia dell'Immacolata Concezione, lo faceva ogni anno, e con la solennità delle grandi occasioni. Si sentiva probabilmente investito del carisma di cui i profeti della sua religione si erano serviti, molti secoli prima, per diffondere le loro "rivelazioni". E d'altronde era l'unico ambito della vita terrena in cui gli era concesso di pontificare, data la sua proverbiale ignoranza in qualsiasi altra questione. O forse, più semplicemente, era perfettamente consapevole delle stupidaggini che stava per raccontare, come anche dei traumi psicologici che avrebbero procurato nel suo uditorio, tanto vasto quanto docile e ingenuo. Molti di noi, d'altra parte, aspettavano già quel giorno, preannunciato dai compagni più grandi delle classi superiori, che avevano già ascoltato il verbo dalla bocca del solerte piccolo prete. Per cui, quando questo arrivava, la nostra attenzione - per il resto quanto mai scarsa nelle precedenti ore di religione - era tutta concentrata a non perdere neanche una parola della insolita omelia.
Se le classi erano miste si capiva subito quando il momento era giunto, perché il prete "consegnava" le ragazze nelle mani della professoressa di educazione fisica, convinto com'era che l'argomento non le riguardasse (e che comunque la loro educazione morale, fosse compito delle sue colleghe - le suore -, o tutt'al più delle madri delle giovani- alle quali, d'altronde, lui stesso non risparmiava consigli e sollecitazioni).
Quindi ci ordinava di far silenzio, e cominciava: "Oggi parleremo di "qualcosa" di cui nessuno vi ha certamente mai parlato, e che tuttavia ognuno di voi conosce... Qualcosa di cui fate abuso, e che, oltre ad essere un gran peccato, è anche molto pericoloso... Voi pensate di essere soli, e tuttavia "Qualcuno" vi vede e vi giudica...".
Così, senza mai usare la parola "masturbazione" o altre corrispondenti di uso più popolare, il buon don Giovanni si dedicava - tra il solenne e l'ironico - alla descrizione e alla interpretazione di quella pratica (naturalmente molto diffusa tra noi preadolescenti della terza media), e lo faceva servendosi di un modello che potremmo definire "di tipo meccanico-idraulico"; per giungere alla conclusione che l'abuso della pratica in questione avrebbe senza dubbio comportato l'esaurimento della "linfa vitale e procreatrice" cosa che naturalmente avrebbe scatenato l'ira di Dio, il quale ci aveva fornito di annessi e connessi per tutt'altri fini (naturalmente, far figli). "È come una cisterna - affermava - e voi sapete che a furia di pompare acqua "e cisterne se scuttane" (ossia: si svuotano)".
Le conseguenze di questa "lezione" sulla psiche di ognuno di noi ve le lascio immaginare: a parte i ridicoli calcoli che di volta in volta tra compagni ci scambiavamo, al fine di sollevare le nostre coscienze con i "peccati" degli altri, il vero risultato era che nemmeno chiudendoci in bagno raggiungevamo la necessaria tranquillità perché, sebbene genitori e parenti non potessero sorprenderci con le loro visite improvvise, c'era sempre Dio che, anche là, "ci vedeva e ci giudicava".
E masturbarsi col pensiero fisso di un occhio che ti scruta, seppur divino e inscritto in un triangolo, è cosa a dir poco fastidiosa. D'altra parte, la religione (di cui la consuetudine familiare e sociale ci aveva reso schiavi) ci forniva uno strumento per liberarci dei frequenti sensi di colpa almeno tanto efficace quanto lo erano state le prediche di don Giovanni a farceli venire. Molto spesso, infatti, ci si inginocchiava davanti allo stesso prete, il quale - smessa la veste di "professore" di morale e indossata quella del padre confessore, giudice delegato di dio in terra - preso atto degli accurati calcoli di cui sopra, liberava la nostra coscienza dal peso del sempre più ricorrente peccato. Così che noi potevamo di volta in volta tirare un sospiro di sollievo e, ripurificati, tornare a conteggiare tutti gli altri "peccati impuri" che avremmo commesso.
Questo piccolo episodio della mia adolescenza mi è spesso tornato in mente in questi ultimi tempi, ovviamente per le tante discussioni sull'ormai famosa ora di religione nella scuola; e fin qui non faceva altro che confermare un meditato anticlericalismo, un ostinato rifiuto nei confronti di qualsiasi verità rivelata e di qualsiasi profeta ispirato. Come tanti altri episodi e riflessioni e angosce della mia adolescenza cattolica, non faceva altro che dar forza alle convinzioni di chi, dopo aver profondamente conosciuto dio e i suoi vicari e aver temuto satana e i suoi fedeli, aveva scelto di stare dalla parte degli uomini e solo degli uomini, eletti o dannati che fossero.
Le discussioni che sono comparse sullo scorso numero della rivista (pagg. 39-42) a proposito delle considerazioni di Andrea Papi sul rapporto tra spirito religioso e autorità costituita, nel suo libro "La nuova sovversione..." mi hanno però spinto ad altre considerazioni, che vanno oltre la riaffermazione di un sano e quanto mai opportuno anticlericalismo.
Premetto di essere quasi completamente d'accordo con quanto afferma Andrea circa il modo in cui dovrebbe essere affrontato il problema della religiosità, in questa come in qualsiasi altra società: il bisogno di libertà che ci contraddistingue esige che un fenomeno, "che appartiene alla storia e allo sviluppo del pensiero umano" e che risponde a domande fondamentali nell'esistenza di molti individui, non possa essere liquidato con facilità (come invece fa Nik, considerandolo il frutto di paure irrazionali o una manifestazione di ingenuità e di arcaicità speculativa). Sarebbe il caso, semmai, che Nik spiegasse più dettagliatamente quali siano i modi "adulti" e "moderni" di rispondere a simili problemi: nei fatti egli si esprime genericamente e più per negazioni - rifiutando qualsiasi verità dogmatica e qualsiasi accettazione magico-taumaturgica di dottrine e ideologie - che non positivamente, per esempio spiegando come si possa eliminare la risposta religiosa (o anche le domande su cui si fonda, se lo ritiene possibile), senza ricorrere, evidentemente, all'uso della forza. Ciò che chiedo, insomma, è meno superficialità (e probabilmente questa "colpa" non appartiene a Nik, che ha affrontato il problema in altri luoghi). Bene fa, tra l'altro, Andrea a chiarire il senso in cui adopera le parole "religiosità" e "clericalismo" "religione" e "misticismo", evitando facili confusioni.
Vorrei aggiungere anch'io una chiarificazione: mi sembra che Nik usi spesso impropriamente il termine "mistico" quando si riferisce alla presunta capacità di certe dottrine metafisiche o certe ideologie politico-sociali di risolvere tutti i mali del mondo e tutti i problemi dell'esistenza (così che nei fatti la loro accettazione comporta una rinuncia alla chiarificazione, alla comprensione e alla risoluzione razionale degli stessi). Meglio farebbe, credo, ad usare il termine "MAGICO" se intende "un tipo di relazione dell'individuo con il mondo esterno in cui la paura e/o la volontà di controllo del mondo circostante prevalgono sul desiderio, molto più sofisticato, di spiegare e di razionalizzare". Risulterebbe così forse chiaro il motivo per cui Nik considera certi "modi di pensare il nostro essere e il nostro voler essere" come modi arcaici, che testimoniano il perdurare di una mentalità infantile e primitiva: condividerebbe, cioè, un'opinione molto comune, secondo la quale la "magia" sarebbe un pensiero e un atteggiamento proprio di tempi e di popolazioni primitive, o apparentemente a stadi infantili dello sviluppo cognitivo individuale, o, ancora, caratteristico di fasi psicologiche regressive.
Considerata in questo senso, questa forma di conoscenza e di azione verrebbe svalutata da chi si propone la comprensione razionale del mondo e la sua trasformazione con mezzi altrettanto razionali e, ben inteso, libertari. E non si può non condividere questa posizione. Ma essa spiegherebbe ben poco, di fronte alla considerazione del ruolo enorme e diffuso che il magico svolge anche nelle società moderne e nelle loro strutture più razionalizzate, a meno di considerare in fase di regressione la maggior parte degli individui che le costituiscono.
Nik dà esempi illuminanti e insospettabili di ciò che avviene quando il magico si impadronisce dei nostri modi di pensare e di progettare, e parla di un certo modo di intendere l'ateismo, la scienza, l'ecologia e persino l'anarchismo. "La stessa sociologia, del resto, nata come strumento di autocoscienza del processo di razionalizzazione della vita collettiva, non si è attribuita poteri magici di riforma e di trasformazione della società? L'antimagia, la funzione demistificante del pensiero sociologico, non si è risolta anch'essa in una forma di magia, con la percezione della sociologia come strumento magico di dominio e di controllo della realtà?". E non è forse un universo magico quello politico, fatto di riti, di cerimonie, di parole che incidono sulle cose, di simboli che vengono adorati o disprezzati, di miti, di carismi, di trucchi, di preghiere e di esorcismi? Lo sviluppo della scienza e della tecnologia, d'altronde, solo in apparenza hanno liberato il mondo occidentale dal potere della magia (...).
Oltre ad avvenimenti specificatamente economico-politici, c'è un evento sociologico che accompagna questa trasformazione della coercizione magica di spiriti naturali in venerazione religiosa di dei o divinità soprannaturali, e questo evento è la comparsa di un CLERO, di una classe, cioè, specificamente adatta all'amministrazione del culto, del rituale di venerazione. Dove compare un clero, generalmente le religioni operano una sistemazione razionale del proprio contenuto concettuale e dottrinario: si sistemano i dogmi, le verità rivelate; si codificano i rituali attraverso i quali si dispensa la garanzia di salvezza; si definiscono le qualità e i metodi in base ai quali l'individuo viene considerato appartenente alla comunità dei credenti. Sull'amministrazione del culto, sull'interpretazione dei dogmi, sulla distribuzione della garanzia attraverso i sacramenti, il clero fonda il suo potere e la sua intransigenza, di volta in volta usato o spalleggiato dal potere politico e da quello economico (o da entrambi).
Da questo punto di vista considero esatte le affermazioni di Andrea Papi, secondo cui solo quando una risposta religiosa viene affermata come verità valida per tutti e imposta da una classe "sacerdotale" si generano, evidentemente, rapporti di dominio. E tuttavia le sue affermazioni mi sembrano limitative, soprattutto alla luce di ciò che scrive sulle religioni orientali, che in parte non condivido. Se è vero infatti che il Buddismo non conosce né clero né culto, questo vale però, storicamente, solo all'inizio della sua diffusione (ad opera della "profezia esemplare" esercitata dal Buddha e dai suoi diretti discepoli). D'altra parte, le considerazioni che Andrea fa circa il sostanziale carattere di tolleranza delle religioni orientali sono valide solo in linea di principio, se le si contrappone all'intolleranza che "generalmente" caratterizza il mondo occidentale in questo ambito; ma non reggono, a mio parere, ad una concreta e capillare analisi storica (...).
Il peculiare contenuto dottrinale di una religiosità che tuttavia non conosce né dei personali né sacerdoti, determina, da parte dei suoi seguaci, se non la costruzione di rapporti di dominio perlomeno la conservazione e la giustificazione di quelli già esistenti. Gli "eletti" della stessa religione, dal canto loro, si disinteressano del mondo e delle sue schiavitù. D'altra parte, anche nell'ambito di religiosità occidentali, amministrate da strutture gerarchiche e veneranti un dio personale ultramondano, si sono sviluppati principi socialmente tolleranti e antigerarchici, che sono sfociati storicamente nella costruzione di comunità in cui non è difficile ravvisare dei contenuti libertari: si pensi all'ostinato antimilitarismo di alcuni quaccheri o al comunismo-anarchico di alcune sette anabattiste, più volte perseguitate. E si potrebbero citare molti altri esempi.
In conclusione: ogni tentativo di dare una risposta religiosa ai problemi fondamentali dell'esistenza comporta inevitabilmente delle ripercussioni (più o meno significative) sulla condotta della vita del singolo, come anche ogni tentativo di rispondervi in maniera non religiosa. E sebbene nell'indagine storica di forme di religiosità e di comportamento già evolute possano essere metodologicamente consentite vaste generalizzazioni, quando si passa al tentativo di "giudicare" il loro valore in base a prospettive ben definite (sono positive o negative ai fini dell'anarchia?) ritengo che sia meglio abbandonare pretese sistematiche, che corrono il rischio di fondare un nuovo dogmatismo.
A mio parere, se è vero - come dice Nik - che di per sé le risposte religiose (in termini di garanzie soprannaturali), come anche le risposte magiche, rappresentano il sostituto di una tensione razionale che viene meno o che non è mai esistita, è pur vero che la ragione non rende l'individuo necessariamente immune dall'autoritarismo, come è vero che non necessariamente magia e religione determinano rapporti autoritari.
Razionalizzare, cioè, non significa necessariamente liberare (si può razionalizzare anche il dominio); e d'altra parte la sacralizzazione di qualcosa rappresenta strettamente solo il riconoscimento dell'incapacità dell'uomo di comprenderne il significato (antropologicamente, oggetti sacri/incomprensibili molto spesso rappresentano un elemento di coesione del gruppo e simboleggiano l'uguaglianza dei suoi membri). Il tabù può nascere nel senso che ho illustrato (simbolo intoccabile del corpo sociale), oppure nasce come protezione politica di privilegi particolari: ma in questo caso la sacralizzazione segue e serve al divieto, non lo fonda.
D'altra parte, se è vero - come dice Andrea - che quando una verità viene imposta si creano rapporti di dominio (ed è evidente), è pur vero che spesso il semplice rapporto individuale con una divinità - personale o impersonale, misericordiosa o tirannica - può determinare degli impulsi psicologici nell'individuo (e conseguentemente delle prese di posizione nella condotta della vita) che, anche in assenza della volontà di imporre la sua verità ad altri, possono se non costruire perlomeno legittimare rapporti di sopraffazione.
Così come, da quel rapporto personale col dio (o con un'energia cosmica), può derivare una beata (o beota?) indifferenza nei confronti del mondo e delle schiavitù altrui, anche in ambiti del tutto estranei all'agire e al pensare religioso. Per quanto riguarda poi il "sacrificio dell'intelletto", la rinuncia all'uso della razionalità, mi sembra di poter affermare la sua esistenza in ogni tentativo di risoluzione religiosa dei problemi dell'uomo, e non solo in quelli che hanno le loro origini nella religiosità giudaica (ebraismo, islamismo, cristianesimo). Se infatti la religione - qualsiasi religione - è la ricerca di una garanzia "soprannaturale" di salvezza, come si può pensare di sondare ciò che va al di là dei limiti dell'individuo - e al di là della natura - con uno strumento che pertiene totalmente alla sua natura, e cioè la RAGIONE?
La si può senza dubbio usare per discuterne (e per confermarne l'irrazionalità), ma non per fondarne la credenza. D'altra parte abbiamo visto come sia facile "sacrificare" il nostro intelletto anche nelle azioni più solite e più "naturali" della nostra vita. E come sia facile restare ingannati anche da quell'incantesimo magico che diventa il nostro anarchismo, quando troppo facilmente gli attribuiamo la capacità di risolvere tutti i problemi di questo mondo, trasformandoci molto spesso in novelli stregoni, con in tasca molti meno trucchi di quanti noi stessi crediamo. Ma penso che, in questo, Andrea e molti altri siano d'accordo con me.

N.B. - Tutte le frasi citate tra virgolette, quando non appartengono a Nik o ad Andrea, sono tratte dalla raccolta di saggi su "Il magico e il moderno", F. Angeli Editore.

Agostino Manni (Milano)