Rivista Anarchica Online
La lezione di don
Giovanni
Il prete, don
Giovanni Chirivì, della parrocchia dell'Immacolata Concezione,
lo faceva ogni anno, e con la solennità delle grandi
occasioni. Si sentiva probabilmente investito del carisma di cui i
profeti della sua religione si erano serviti, molti secoli prima, per
diffondere le loro "rivelazioni". E d'altronde era l'unico
ambito della vita terrena in cui gli era concesso di pontificare,
data la sua proverbiale ignoranza in qualsiasi altra questione. O
forse, più semplicemente, era perfettamente consapevole delle
stupidaggini che stava per raccontare, come anche dei traumi
psicologici che avrebbero procurato nel suo uditorio, tanto vasto
quanto docile e ingenuo. Molti di noi, d'altra parte, aspettavano già
quel giorno, preannunciato dai compagni più grandi delle
classi superiori, che avevano già ascoltato il verbo dalla
bocca del solerte piccolo prete. Per cui, quando questo arrivava, la
nostra attenzione - per il resto quanto mai scarsa nelle precedenti
ore di religione - era tutta concentrata a non perdere neanche una
parola della insolita omelia. Se le classi erano
miste si capiva subito quando il momento era giunto, perché il
prete "consegnava" le ragazze nelle mani della
professoressa di educazione fisica, convinto com'era che l'argomento
non le riguardasse (e che comunque la loro educazione morale, fosse
compito delle sue colleghe - le suore -, o tutt'al più delle
madri delle giovani- alle quali, d'altronde, lui stesso non
risparmiava consigli e sollecitazioni). Quindi ci ordinava
di far silenzio, e cominciava: "Oggi parleremo di "qualcosa"
di cui nessuno vi ha certamente mai parlato, e che tuttavia ognuno di
voi conosce... Qualcosa di cui fate abuso, e che, oltre ad essere un
gran peccato, è anche molto pericoloso... Voi pensate di
essere soli, e tuttavia "Qualcuno" vi vede e vi
giudica...". Così, senza
mai usare la parola "masturbazione" o altre corrispondenti
di uso più popolare, il buon don Giovanni si dedicava - tra il
solenne e l'ironico - alla descrizione e alla interpretazione di quella
pratica (naturalmente molto diffusa tra noi preadolescenti della
terza media), e lo faceva servendosi di un modello che potremmo
definire "di tipo meccanico-idraulico"; per giungere alla
conclusione che l'abuso della pratica in questione avrebbe senza
dubbio comportato l'esaurimento della "linfa vitale e
procreatrice" cosa che naturalmente avrebbe scatenato l'ira di
Dio, il quale ci aveva fornito di annessi e connessi per tutt'altri
fini (naturalmente, far figli). "È
come una cisterna - affermava - e voi sapete che a furia di
pompare acqua "e cisterne se scuttane" (ossia: si
svuotano)". Le conseguenze di
questa "lezione" sulla psiche di ognuno di noi ve le lascio
immaginare: a parte i ridicoli calcoli che di volta in volta tra
compagni ci scambiavamo, al fine di sollevare le nostre coscienze con
i "peccati" degli altri, il vero risultato era che nemmeno
chiudendoci in bagno raggiungevamo la necessaria tranquillità
perché, sebbene genitori e parenti non potessero sorprenderci
con le loro visite improvvise, c'era sempre Dio che, anche là,
"ci vedeva e ci giudicava". E masturbarsi col
pensiero fisso di un occhio che ti scruta, seppur divino e inscritto
in un triangolo, è cosa a dir poco fastidiosa. D'altra parte,
la religione (di cui la consuetudine familiare e sociale ci aveva
reso schiavi) ci forniva uno strumento per liberarci dei frequenti
sensi di colpa almeno tanto efficace quanto lo erano state le
prediche di don Giovanni a farceli venire. Molto spesso, infatti, ci
si inginocchiava davanti allo stesso prete, il quale - smessa la
veste di "professore" di morale e indossata quella del
padre confessore, giudice delegato di dio in terra - preso atto degli
accurati calcoli di cui sopra, liberava la nostra coscienza dal peso
del sempre più ricorrente peccato. Così che noi
potevamo di volta in volta tirare un sospiro di sollievo e,
ripurificati, tornare a conteggiare tutti gli altri "peccati
impuri" che avremmo commesso. Questo piccolo
episodio della mia adolescenza mi è spesso tornato in mente in
questi ultimi tempi, ovviamente per le tante discussioni sull'ormai
famosa ora di religione nella scuola; e fin qui non faceva altro che
confermare un meditato anticlericalismo, un ostinato rifiuto nei
confronti di qualsiasi verità rivelata e di qualsiasi profeta
ispirato. Come tanti altri episodi e riflessioni e angosce della mia
adolescenza cattolica, non faceva altro che dar forza alle
convinzioni di chi, dopo aver profondamente conosciuto dio e i suoi
vicari e aver temuto satana e i suoi fedeli, aveva scelto di stare
dalla parte degli uomini e solo degli uomini, eletti o dannati che
fossero. Le discussioni che
sono comparse sullo scorso numero della rivista (pagg. 39-42) a
proposito delle considerazioni di Andrea Papi sul rapporto tra
spirito religioso e autorità costituita, nel suo libro "La
nuova sovversione..." mi hanno però spinto ad altre
considerazioni, che vanno oltre la riaffermazione di un sano e quanto
mai opportuno anticlericalismo. Premetto di essere
quasi completamente d'accordo con quanto afferma Andrea circa il modo
in cui dovrebbe essere affrontato il problema della religiosità,
in questa come in qualsiasi altra società: il bisogno di
libertà che ci contraddistingue esige che un fenomeno, "che
appartiene alla storia e allo sviluppo del pensiero umano" e
che risponde a domande fondamentali nell'esistenza di molti
individui, non possa essere liquidato con facilità (come
invece fa Nik, considerandolo il frutto di paure irrazionali o una
manifestazione di ingenuità e di arcaicità
speculativa). Sarebbe il caso, semmai, che Nik spiegasse più
dettagliatamente quali siano i modi "adulti" e "moderni"
di rispondere a simili problemi: nei fatti egli si esprime
genericamente e più per negazioni - rifiutando qualsiasi
verità dogmatica e qualsiasi accettazione magico-taumaturgica
di dottrine e ideologie - che non positivamente, per esempio
spiegando come si possa eliminare la risposta religiosa (o anche le
domande su cui si fonda, se lo ritiene possibile), senza ricorrere,
evidentemente, all'uso della forza. Ciò che chiedo, insomma, è
meno superficialità (e probabilmente questa "colpa"
non appartiene a Nik, che ha affrontato il problema in altri luoghi).
Bene fa, tra l'altro, Andrea a chiarire il senso in cui adopera le
parole "religiosità" e "clericalismo"
"religione" e "misticismo", evitando facili
confusioni. Vorrei aggiungere
anch'io una chiarificazione: mi sembra che Nik usi spesso
impropriamente il termine "mistico" quando si riferisce
alla presunta capacità di certe dottrine metafisiche o certe
ideologie politico-sociali di risolvere tutti i mali del mondo e
tutti i problemi dell'esistenza (così che nei fatti la loro
accettazione comporta una rinuncia alla chiarificazione, alla
comprensione e alla risoluzione razionale degli stessi). Meglio
farebbe, credo, ad usare il termine "MAGICO" se intende
"un tipo di relazione dell'individuo con il mondo esterno in cui
la paura e/o la volontà di controllo del mondo circostante
prevalgono sul desiderio, molto più sofisticato, di spiegare e
di razionalizzare". Risulterebbe così forse chiaro il
motivo per cui Nik considera certi "modi di pensare il nostro
essere e il nostro voler essere" come modi arcaici, che
testimoniano il perdurare di una mentalità infantile e
primitiva: condividerebbe, cioè, un'opinione molto comune,
secondo la quale la "magia" sarebbe un pensiero e un
atteggiamento proprio di tempi e di popolazioni primitive, o
apparentemente a stadi infantili dello sviluppo cognitivo
individuale, o, ancora, caratteristico di fasi psicologiche
regressive. Considerata in
questo senso, questa forma di conoscenza e di azione verrebbe
svalutata da chi si propone la comprensione razionale del mondo e la
sua trasformazione con mezzi altrettanto razionali e, ben inteso,
libertari. E non si può non condividere questa posizione. Ma
essa spiegherebbe ben poco, di fronte alla considerazione del ruolo
enorme e diffuso che il magico svolge anche nelle società
moderne e nelle loro strutture più razionalizzate, a meno di
considerare in fase di regressione la maggior parte degli individui
che le costituiscono. Nik dà
esempi illuminanti e insospettabili di ciò che avviene quando
il magico si impadronisce dei nostri modi di pensare e di progettare,
e parla di un certo modo di intendere l'ateismo, la scienza,
l'ecologia e persino l'anarchismo. "La stessa sociologia, del
resto, nata come strumento di autocoscienza del processo di
razionalizzazione della vita collettiva, non si è attribuita
poteri magici di riforma e di trasformazione della società?
L'antimagia, la funzione demistificante del pensiero sociologico, non
si è risolta anch'essa in una forma di magia, con la
percezione della sociologia come strumento magico di dominio e di
controllo della realtà?". E non è forse un
universo magico quello politico, fatto di riti, di cerimonie, di
parole che incidono sulle cose, di simboli che vengono adorati o
disprezzati, di miti, di carismi, di trucchi, di preghiere e di
esorcismi? Lo sviluppo della scienza e della tecnologia, d'altronde,
solo in apparenza hanno liberato il mondo occidentale dal potere
della magia (...). Oltre ad
avvenimenti specificatamente economico-politici, c'è un evento
sociologico che accompagna questa trasformazione della coercizione
magica di spiriti naturali in venerazione religiosa di dei o divinità
soprannaturali, e questo evento è la comparsa di un CLERO, di
una classe, cioè, specificamente adatta all'amministrazione
del culto, del rituale di venerazione. Dove compare un clero,
generalmente le religioni operano una sistemazione razionale del
proprio contenuto concettuale e dottrinario: si sistemano i dogmi, le
verità rivelate; si codificano i rituali attraverso i quali si
dispensa la garanzia di salvezza; si definiscono le qualità e
i metodi in base ai quali l'individuo viene considerato appartenente
alla comunità dei credenti. Sull'amministrazione del culto,
sull'interpretazione dei dogmi, sulla distribuzione della garanzia
attraverso i sacramenti, il clero fonda il suo potere e la sua
intransigenza, di volta in volta usato o spalleggiato dal potere
politico e da quello economico (o da entrambi). Da questo punto di
vista considero esatte le affermazioni di Andrea Papi, secondo cui
solo quando una risposta religiosa viene affermata come verità
valida per tutti e imposta da una classe "sacerdotale" si
generano, evidentemente, rapporti di dominio. E tuttavia le sue
affermazioni mi sembrano limitative, soprattutto alla luce di ciò
che scrive sulle religioni orientali, che in parte non condivido. Se
è vero infatti che il Buddismo non conosce né clero né
culto, questo vale però, storicamente, solo all'inizio della
sua diffusione (ad opera della "profezia esemplare"
esercitata dal Buddha e dai suoi diretti discepoli). D'altra parte,
le considerazioni che Andrea fa circa il sostanziale carattere di
tolleranza delle religioni orientali sono valide solo in linea di
principio, se le si contrappone all'intolleranza che "generalmente"
caratterizza il mondo occidentale in questo ambito; ma non reggono, a
mio parere, ad una concreta e capillare analisi storica (...). Il peculiare
contenuto dottrinale di una religiosità che tuttavia non
conosce né dei personali né sacerdoti, determina, da
parte dei suoi seguaci, se non la costruzione di rapporti di dominio
perlomeno la conservazione e la giustificazione di quelli già
esistenti. Gli "eletti" della stessa religione, dal canto
loro, si disinteressano del mondo e delle sue schiavitù.
D'altra parte, anche nell'ambito di religiosità occidentali,
amministrate da strutture gerarchiche e veneranti un dio personale
ultramondano, si sono sviluppati principi socialmente tolleranti e
antigerarchici, che sono sfociati storicamente nella costruzione di
comunità in cui non è difficile ravvisare dei contenuti
libertari: si pensi all'ostinato antimilitarismo di alcuni quaccheri
o al comunismo-anarchico di alcune sette anabattiste, più
volte perseguitate. E si potrebbero citare molti altri esempi. In conclusione:
ogni tentativo di dare una risposta religiosa ai problemi
fondamentali dell'esistenza comporta inevitabilmente delle
ripercussioni (più o meno significative) sulla condotta della
vita del singolo, come anche ogni tentativo di rispondervi in maniera
non religiosa. E sebbene nell'indagine storica di forme di
religiosità e di comportamento già evolute possano
essere metodologicamente consentite vaste generalizzazioni, quando si
passa al tentativo di "giudicare" il loro valore in base a
prospettive ben definite (sono positive o negative ai fini
dell'anarchia?) ritengo che sia meglio abbandonare pretese
sistematiche, che corrono il rischio di fondare un nuovo dogmatismo. A mio parere, se è
vero - come dice Nik - che di per sé le risposte religiose (in
termini di garanzie soprannaturali), come anche le risposte magiche,
rappresentano il sostituto di una tensione razionale che viene meno o
che non è mai esistita, è pur vero che la ragione non
rende l'individuo necessariamente immune dall'autoritarismo, come è
vero che non necessariamente magia e religione determinano rapporti
autoritari. Razionalizzare,
cioè, non significa necessariamente liberare (si può
razionalizzare anche il dominio); e d'altra parte la sacralizzazione
di qualcosa rappresenta strettamente solo il riconoscimento
dell'incapacità dell'uomo di comprenderne il significato
(antropologicamente, oggetti sacri/incomprensibili molto spesso
rappresentano un elemento di coesione del gruppo e simboleggiano
l'uguaglianza dei suoi membri). Il tabù può nascere nel
senso che ho illustrato (simbolo intoccabile del corpo sociale),
oppure nasce come protezione politica di privilegi particolari: ma in
questo caso la sacralizzazione segue e serve al divieto, non lo
fonda. D'altra parte, se è
vero - come dice Andrea - che quando una verità viene imposta
si creano rapporti di dominio (ed è evidente), è pur
vero che spesso il semplice rapporto individuale con una divinità
- personale o impersonale, misericordiosa o tirannica - può
determinare degli impulsi psicologici nell'individuo (e
conseguentemente delle prese di posizione nella condotta della vita)
che, anche in assenza della volontà di imporre la sua verità
ad altri, possono se non costruire perlomeno legittimare rapporti di
sopraffazione. Così come,
da quel rapporto personale col dio (o con un'energia cosmica), può
derivare una beata (o beota?) indifferenza nei confronti del mondo e
delle schiavitù altrui, anche in ambiti del tutto estranei
all'agire e al pensare religioso. Per quanto riguarda poi il
"sacrificio dell'intelletto", la rinuncia all'uso della
razionalità, mi sembra di poter affermare la sua esistenza in
ogni tentativo di risoluzione religiosa dei problemi dell'uomo, e non
solo in quelli che hanno le loro origini nella religiosità
giudaica (ebraismo, islamismo, cristianesimo). Se infatti la
religione - qualsiasi religione - è la ricerca di una garanzia
"soprannaturale" di salvezza, come si può pensare di
sondare ciò che va al di là dei limiti dell'individuo -
e al di là della natura - con uno strumento che pertiene
totalmente alla sua natura, e cioè la RAGIONE? La si può
senza dubbio usare per discuterne (e per confermarne
l'irrazionalità), ma non per fondarne la credenza. D'altra
parte abbiamo visto come sia facile "sacrificare" il nostro
intelletto anche nelle azioni più solite e più
"naturali" della nostra vita. E come sia facile restare
ingannati anche da quell'incantesimo magico che diventa il nostro
anarchismo, quando troppo facilmente gli attribuiamo la capacità
di risolvere tutti i problemi di questo mondo, trasformandoci molto
spesso in novelli stregoni, con in tasca molti meno trucchi di quanti
noi stessi crediamo. Ma penso che, in questo, Andrea e molti altri
siano d'accordo con me.
N.B. - Tutte
le frasi citate tra virgolette, quando non appartengono a Nik o ad
Andrea, sono tratte dalla raccolta di saggi su "Il magico e il
moderno", F. Angeli Editore.
Agostino Manni
(Milano)
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