Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 139
estate 1986


Rivista Anarchica Online

Una rivoluzione contro il potere
di Nico Berti

Molti ne parlano ancora in termini di "guerra civile", ma quella spagnola fu una vera rivoluzione popolare, sociale, nata sotto il segno del rifiuto della politica. Analizzare oggi quegli avvenimenti significa anche fare i conti con le carenze strategiche dell'anarchismo.

La rivoluzione spagnola del 1936-39 è la prima e l'ultima rivoluzione autenticamente proletaria della storia europea. Le rivoluzioni del 1848 furono essenzialmente borghesi. La Comune di Parigi del 1871 durò sessantatré giorni e interessò soltanto la capitale della Francia. I moti italiani della fine del secolo e quello successivo della "settimana rossa", furono, per l'appunto, moti e non rivoluzioni. Ancora i moti in Europa negli anni 1919-20 - propagazioni dell'ondata rivoluzionaria iniziata nella Russia del '17 - si esaurirono quasi subito una volta che la crisi postbellica trovò soluzioni autoritarie o democratico-borghesi. La rivoluzione russa fu una rivoluzione proletaria, ma la Russia non appartiene interamente all'Europa.
Nella Spagna del 1936 si chiude dunque un ciclo di aborti e nasce l'unica rivoluzione popolare dell'occidente a carattere francamente socialista e operaio capace di coinvolgere un intero popolo. Forza politica e sociale di gran lunga prevalente di questa rivoluzione è l'anarchismo. Conclusione: l'anarchismo trova la sua massima espressione concreta nell'unica rivoluzione popolare, operaia, socialista e proletaria europea. Bisogna dire che è quanto mai curioso l'argomentare di quella storiografia che assegna al movimento anarchico una natura irrimediabilmente piccolo-borghese!
La rivoluzione spagnola non è soltanto una rivoluzione proletaria. Essa è anche una rivoluzione "classica", vale a dire un movimento di trasformazione sociale così radicale (considerando il tempo entro cui si svolge questa esperienza) che non ha precedenti in tutta la storia delle rivoluzioni: la radicalità del mutamento, l'ampiezza del consenso e l'universalizzazione del comportamento rivoluzionario ne fanno il punto più alto dei moti emancipatori dell'epoca moderna. Qui non può essere applicato il paradigma di Weber e Ferrero circa l'intrinseco carattere "non legittimante" di ogni trasformazione rivoluzionaria: legalitari erano i rivoluzionari (cioè quasi tutta la popolazione), non i conservatori. Questa naturale legittimazione (espressione della spontaneità del movimento) fa della Spagna il primo autentico esempio di un moto rivoluzionario senza forzature giacobine.
È questa, pertanto, la ragione per cui è giusto parlare di rivoluzione popolare e non di guerra civile. È vero: in Spagna ci fu anche una guerra civile, ma ciò come sovrapposizione secondaria. Si deve dire che la reazione fascista non avrebbe avuto effetti decisivi se non vi fosse stata una spontanea e diffusa pressione rivoluzionaria del popolo. Fascismo e antifascismo sono insomma la logica conseguenza di una totale assenza giacobina nella genesi della rivoluzione. Non sono i rivoluzionari che insorgono contro un potere esistente più o meno legittimato. Sono i reazionari (sotto forma di fascismo) che anticipano con la forza un esito che nelle cose era già scontato: senza l'intervento dei militari la repubblica non avrebbe alla fine retto al poderoso urto impresso dalle classi inferiori con le loro consapevoli esigenze emancipatorie. La rivoluzione stava nelle cose, essa costituiva uno sbocco inevitabile. Ecco per quale motivo intervennero i militari.
Possiamo così confrontare la Russia e la Spagna. In Russia i bolscevichi attuano un colpo di Stato perché sanno che nell'assemblea costituente essi sarebbero stati in netta minoranza, cioè non avrebbero mai avuto il potere (in nessun paese al mondo i comunisti hanno conquistato il potere per via democratica). In Spagna i militari fascisti fanno il colpo di Stato perché sanno che in una situazione di democrazia la stragrande maggioranza della popolazione spagnola avrebbe spinto alla fine per una società socialista libertaria: in Russia abbiamo un giacobinismo che forza la situazione in quanto non c'è un consenso popolare, in Spagna abbiamo un fascismo che forza la situazione perché questo consenso popolare c'è. Nel primo caso vi è un intervento della forza, dal momento che non c'è una autentica rivoluzione comunista, nel secondo caso c'è l'intervento di una forza perché c'è un'autentica rivoluzione anarchica.

La negazione della politica
La Spagna del '36 esprime dunque una rivoluzione "classica" (secondo il modello teorico elaborato dalla cultura rivoluzionaria nel corso dell'Ottocento) improntata decisamente in senso popolare. Abbiamo detto che essa chiude un ciclo, che costituisce la summa di tentativi precedenti. Precisamente pone fine all'epoca del protagonismo operaio e socialista a carattere rivoluzionario. Pertanto non può costituire un esempio valido per oggi, essendo quell'epoca definitivamente in via di estinzione. Gli insegnamenti che da essa si possono trarre devono partire da questa constatazione, cominciando con una domanda: perché, nella storia europea, vi è stato un solo esempio di questo tipo? Cioè: perché una rivoluzione "classica" non ha schiuso un avvenire ma ha definitivamente chiuso un passato?
La domanda riguarda naturalmente la natura del movimento operaio e socialista che non è possibile prendere ora in esame. Tuttavia c'è una stretta relazione tra la natura rivoluzionaria del movimento operaio e socialista e l'effettività storica della rivoluzione spagnola. Il tramite di questa relazione è rappresentato dall'anarchismo. Questo tramite dimostra che una rivoluzione "classica" ad ampia diffusione popolare non poteva che avvenire sotto il segno anarchico, perché una rivoluzione "classica" è la negazione della Politica. Attenzione: una negazione della politica, non del potere, cioè dei rapporti di forza. La complessità della situazione spagnola rimanda pertanto alla complessità dell'intreccio tra rivoluzione, politica e potere. Ma procediamo con ordine, privilegiando l'osservatorio dell'anarchismo.
In Spagna al momento del golpe franchista esisteva un proletariato in gran parte aderente alla CNT (sindacato anarchico) e alla UGT (sindacato socialista). Altre formazioni minori si collocavano comunque nell'ambito della sinistra avanzata. Il movimento anarchico riscuoteva il consenso maggiore; anche gli aderenti all'organizzazione sindacale socialista erano ideologicamente orientati in senso non-riformistico e non-legalitario. Il proletariato iberico era insomma ben disposto verso una prospettiva rivoluzionaria. Ciò spiega perché i comunisti fossero pressoché inesistenti: quando una rivoluzione è veramente popolare il giacobinismo non prospera.
Cogliamo così una prima caratteristica: il proletariato spagnolo è innanzitutto pervaso da una cultura rivoluzionaria come viene, per l'appunto, dimostrato dal fatto che le forze politiche hanno scarso peso rispetto a quelle sindacali. Qui il popolo è pervaso dal "sociale", non dal "politico". Esso è di sicuro educato politicamente, ma questa educazione ideologica gli deriva prima di tutto attraverso l'organizzazione del sindacato, non del partito. La stessa Federazione Anarchica che nasce nel 1927 - cinquant'anni dopo la propagazione dell'anarchismo in terra iberica! - conta perché i suoi aderenti sono tutti iscritti alla CNT (mentre non tutti gli iscritti alla CNT sono anche aderenti alla FAI). In conclusione il sociale predomina di gran lunga sul politico: per questo scoppia la rivoluzione.
In Spagna nasce una rivoluzione sociale precisamente sotto il segno di un rifiuto della rivoluzione politica. Pertanto, nella volontà della maggioranza dei suoi protagonisti, essa lotta contro il potere inteso proprio secondo la triplice classica definizione anarchica: lo Stato, la Chiesa, il Capitale. Una rivoluzione sociale diretta contro la politica, per l'abolizione del potere: così si presenta in Catalogna, nell'Andalusia e nel Levante il moto popolare all'indomani del 19 luglio del 1936. Certo, non in tutta la Spagna l'anarchismo è maggioritario. Non lo può essere sicuramente laddove il golpe riesce subito vittorioso, non lo è a Madrid, non nelle Asturie e nei paesi Baschi. Però, considerato nel suo complesso, è l'anarchismo ad essere la forza principale del movimento antifascista, sono la CNT e la FAI che imprimono un carattere rivoluzionario di risposta al golpe dei generali, una risposta che in sé sarebbe stata solo politica e legalitaria. Infine, è solo il movimento anarchico che detiene (perché lo coltiva da sempre) un progetto di trasformazione completa della società. Nel mondo, fino allora, l'anarchismo era stato un movimento (più o meno radicato nella società), che voleva costituirsi quale alternativa al potere esistente; in Spagna esso è già una realtà data, esprime già un'alternativa concreta.
I rapporti di forza delineatisi nel campo antifascista sono senza dubbio a vantaggio degli anarchici. Bisogna mettere insieme tutte le altre forze politiche e sociali per avere una forza pari. In termini democratico-numerici gli anarchici rappresentano la maggioranza relativa. I rapporti di forza, cioè di potere, stanno dalla loro parte.
Ecco quindi un primo dato paradossale. Il movimento anarchico spinge per una rivoluzione che abolisca il potere, pretendendo però di non sfruttare la logica dei rapporti di potere che gli sono favorevoli. Ritiene, in coerenza con la propria ideologia, che si debba definitivamente superare il meccanismo stesso che presiede all'avvicendamento delle forme potestative. A Barcellona, subito dopo l'annullamento del putch militare, gli anarchici potrebbero prendere la responsabilità massima del comando, essendo la forza di maggioranza relativa. Rinunciano invece a questo ruolo, negando con ciò la realtà politica espressa dalla loro stessa esistenza. Nel Comitato centrale delle Milizie antifasciste formatosi il 21 luglio entrano 5 rappresentanti anarchici (FAI e CNT), 4 rappresentanti socialcomunisti (PSUC e UGT), 1 rappresentante trotzkista (POUM), 1 rappresentante del sindacato dei contadini (Union de Rabassaires) e 4 dei partiti repubblicani (Esquerra e Azione catalana repubblicana). Si consideri ora, ad esempio, il reale rapporto di forza in senso numerico tra socialcomunisti e anarchici. Gli anarchici hanno 5 rappresentanti, i socialcomunisti 4: la CNT-FAI contava oltre 600.000 aderenti, l'UGT-PSUC nemmeno 100.000! Nella composizione dell'esercito delle milizie gli anarchici sono presenti con 13.000 uomini, i socialcomunisti con 3.000! Chi ha voluto che, comunque, le rappresentanze fossero pressoché alla pari? Gli anarchici, naturalmente, per non sentirsi dittatori!
Il comitato delle Milizie, proprio perché ci sono gli anarchici, non assume la simbologia del comando, anche se detiene il potere effettivo. E questa non-giacobinizzazione del Comitato permette la sopravvivenza del governo della Generalitat con il risultato che questa, alla fine, assorbe il comitato. Nel giro di tre mesi il Comitato viene sciolto e tutto il potere passa al Governo. Conclusione: il potere non è stato abolito perché il Comitato non ha esautorato il governo e non l'ha esautorato in quanto gli anarchici hanno impedito la trasformazione del Comitato in un organo di potere simbolico-reale!
Ecco dunque la situazione come si svolge dal luglio all'ottobre: il potere non viene abolito; il governo cambia di nome ma rimane al suo posto. In Catalogna e nel Levante il mutamento rivoluzionario è grandioso, drammatico, commovente, entusiasmante, straordinario: però il Palazzo rimane lì, perché la rivoluzione, in quanto rivoluzione sociale, non ha assorbito per nulla il ruolo di comando proprio del governo. Se lo avesse fatto avrebbe cambiato natura: da sociale sarebbe diventata politica.
Essa si propaga invece in modo orizzontale, coinvolge quasi tutti i gangli della società, socializza ampi settori dell'economia sotto uno slancio autenticamente popolare. Un'immensa spontaneità cadenza ovunque il processo della rivoluzione. Ma, lo ripetiamo, la rivoluzione di per sé non possiede alcuna leva di comando. Essa esprime una forza immensa, tuttavia non ha la forza di farsi rispettare: ad esempio, quando in ottobre si decide la militarizzazione delle milizie, che cosa fanno i rivoluzionari? Scalpitano, gridano, si indignano, ma alla fine, dopo qualche mese, in gran parte accettano. Anzi vediamo i massimi esponenti dell'anarchismo usare tutto il loro prestigio per fare passare questa autentica misura controrivoluzionaria. Constatiamo insomma che i leader del movimento anarchico usano l'immaginario rivoluzionario - sedimentato nel corso di decenni - per "addomesticare" la forza oggettiva espressa dalla realtà politica del movimento anarchico.
Il risultato, lo ripetiamo, è paradossale ma del tutto congruente. Riassumendo: per la prima volta nella storia gli anarchici sono posti in una condizione di oggettiva non-subalternità politica, essendo non soltanto la maggioranza tra le forze in campo, ma anche gli interpreti più coerenti di una congiuntura storica - la rivoluzione - che li ha posti di fatto in una posizione di leadership. Essi non sfruttano tuttavia, perché non possono, tale vantaggio. Si ha per conseguenza una dicotomia fra il potere politico e la rivoluzione sociale.
Poiché la frattura tra il sociale e il politico non viene colmata (né potrebbe esserlo) gli anarchici sono costretti ad entrare nel governo, una volta che è stato assorbito il Comitato delle milizie. Dapprima entrano nel governo regionale, poi in quello centrale. Viene spontaneo domandarsi: ma perché sono costretti? La domanda ammette una sola risposta: sono costretti perché se non lo facessero romperebbero quell'unità politica che loro stessi hanno cercato, non avendo voluto imporre (in quanto anarchici) la propria politica. Subiscono così la politica altrui, perché non ne fanno alcuna e non ne fanno alcuna dal momento che non sfruttano i rapporti di forza espressi dalla loro esistenza politicamente dominante. Fanno la rivoluzione; ma, per l'appunto, così facendo negano la politica.

Creatività ed autogestione
Ciò è paradossale, ma ancora una volta del tutto logico. La partecipazione anarchica al governo è del tutto impolitica, nel senso che ottiene un solo risultato: lo screditamento simbolico dell'immagine rivoluzionaria dell'anarchismo. Gli anarchici sono convinti di piegare la logica del potere perché alle spalle hanno il moto trasformatore della rivoluzione. Però ritengono che prima occorra saldare l'unità antifascista. In tal modo sono obbligati ad anteporre l'unità politica antifascista alla prospettiva rivoluzionaria. Inoltre, essendo anarchici, non sanno, né vogliono, sfruttare appieno l'obiettivo vantaggio che deriva loro dalla forza sociale della rivoluzione. La conclusione è che finiscono con l'avere una posizione subalterna nelle decisioni di comando. Essi, che sono i più forti, finiscono con l'avallare la volontà dei più deboli.
Ma quale è la ragione che impedisce loro di capovolgere questa situazione? Se continuiamo a seguire il ragionamento condotto fin qui, si vede che l'intenzione degli anarchici era quella di fare da tramite fra il sociale e il politico. Entrano insomma nella stanza del comando perché si era creata una frattura tra le due realtà. Non capiscono, tuttavia, che questa frattura si era formata in quanto era in atto la rivoluzione. La rivoluzione, in quanto rivoluzione sociale, era effettivamente spontanea e popolare. Con i suoi vari esperimenti autogestionari, esprimeva una grande creatività che era però priva di ogni direzione, priva cioè di ogni senso politico. Infatti chi determinava, o avrebbe dovuto determinare a livello generale, cosa produrre, quanto produrre, come produrre? A chi, per conseguenza, spettava formulare il criterio di distribuzione del consumo? E ancora: dove era il luogo in cui si sceglieva quali servizi attivare, quali sopprimere, quali trasformare? Le norme della società civile erano spontaneamente rispettate. Ma quando ciò non avveniva, quali erano gli organi preposti al mantenimento di queste osservanze?
Vien da dire che queste e molte altre decisioni erano state assorbite dal sociale, piegate alle esigenze di questa nuova realtà, e quindi rese funzionali alla crescita libera di una società libera. Non è vero, non è assolutamente vero. La società civile non aveva assorbito fino in fondo la società politica. Non lo aveva fatto perché si stava svolgendo in essa una rivoluzione il cui scopo era quello, appunto, di rendere superflua tale dimensione. Era accaduto insomma che, invece di farsene carico, la rivoluzione aveva espulso dal proprio ambito i problemi propri della politica perché convinta di averli effettivamente superati. Invece, e lo dimostra proprio la presenza degli anarchici al governo, tale superamento non c'era stato. Gli anarchici infatti vanno al governo perché la rivoluzione sociale non esprime autonomamente una politica. Anzi, la nega.
Il paradigma anarchico di ascendenza saintsimoniana (e in parte anche marxiano) della superabilità della politica attraverso il sociale è qui popperianamente falsificato: la società civile può essere di per sé veramente autonoma, ma non rende, per tale motivo, superflua quella politica. Il politico si può ridurre ai minimi termini, ma non si può abolire. In Spagna non è stato abolito perché non si è fatta chiarezza sui rapporti di forza espressi dal sociale. La "prova del 9" di questa non abolizione è il riuscito tentativo controrivoluzionario comunista delle giornate di maggio del '37 a Barcellona. Qui tocchiamo il fondo dell'impotenza politica della rivoluzione (oltre che della dabbenaggine anarchica). Il tentativo comunista riesce perché ancora una volta la rivoluzione sociale ha continuato ad occupare lo spazio del sociale e la politica a rispondere alle finalità del potere.

Una riflessione aperta
Rivoluzione, politica e potere, un intreccio che la Spagna dimostra indissolubile. La rivoluzione, quando è "classica" e popolare, è la negazione della Politica. Però in sé è contemporaneamente l'espressione di un rapporto di forze. Essa può negare la politica, ma non può negare se stessa, cioè il potere che deriva dalla sua forza. Se questo potere non viene esplicitato e posto al servizio degli obiettivi rivoluzionari, la rivoluzione genera impotenza perché di per sé non esprime autonomamente una politica. I rivoluzionari che pretendono di negare il potere prescindendo dalla politica subiscono il potere della politica altrui, anche se questa non ha rapporti di forza favorevoli. La politica e il potere non sono invincibili. Ma non sono neppure completamente distruttibili. La Spagna ha dimostrato che l'unica rivoluzione contro il potere è stata fatta dall'anarchismo. Essa è stata la prima e l'ultima rivoluzione proletaria dell'occidente appunto perché il sociale non è una forza sufficiente per l'esito di una rivoluzione. La rivoluzione in Spagna è stata veramente contro il potere, ma lo è stata perché c'era l'anarchismo, cioè perché c'era una volontà politica. Qui sta l'arduo nodo della riflessione.