Rivista Anarchica Online
La morte in
diretta
di Fausta Bizzozzero
"Sono giovane,
ricco e colto; e sono infelice, nevrotico e solo. Provengo da una
delle migliori famiglie della riva destra del lago di Zurigo,
chiamata anche la costa d'oro. Ho avuto un'educazione borghese e mi
sono portato bene per tutta la vita. La mia famiglia è alquanto
bacata e anch'io probabilmente porto tare ereditarie e conseguenze di
danni ambientali. Naturalmente ho anche il cancro, il che, per la
verità, dopo quanto ho detto, mi pare una conseguenza abbastanza
naturale". Un simile inizio
non può che provocare disagio e quindi il desiderio di chiudere un
libro (Fritz Zorn, Il cavaliere, la morte e il
diavolo, Mondadori, pagg .234, lire 12.000), che si annuncia, già
dal primo impatto, come sgradevole e pericoloso. Sgradevole perché
nella nostra cultura la malattia in genere - e il cancro in
particolare che ne costituisce il limite simbolico estremo - è uno
dei tabù e dei rimossi collettivi più radicati, è uno spettro che
fa paura e di cui non bisogna parlare. Pericoloso perché superarlo
significa denudarsi, rimettere in gioco se stessi, rileggere la
propria storia, guardare in faccia i condizionamenti subiti e i
guasti psichici e fisici che hanno prodotto. Questo non è,
quindi, un libro per tutti, poiché va a toccare quella parte dell'Io
solitamente accuratamente nascosta e non consente la fuga. Non si
tratta, infatti, del solito saggio sociologico o psicologico sulla
famiglia in cui all'approccio razionale dell'autore corrisponde
l'approccio razionale del lettore. Qui siamo di fronte alla "morte
in diretta" di un singolo individuo: la sua malattia fisica è solo
la manifestazione, l'esplosione di una malattia psichica sempre
ignorata le cui radici risalgono, come sempre, all'infanzia. Seguiamo quindi
Fritz Zorn nel suo cammino a ritroso, nella ricostruzione
dell'ambiente in cui è cresciuto, dell'educazione che ha ricevuto,
dei valori che gli sono stati inculcati, dei rapporti col padre e con
la madre; seguiamolo quando scopre di non aver mai vissuto ma di aver
solo proiettato l'immagine del buon borghese costruita dai genitori e
quando cerca faticosamente di rimettere insieme i pezzi perduti del
suo vero Io. La sua analisi
spietata e lucida dell'istituzione famiglia diventa inevitabilmente
l'analisi della cultura e della società borghese, non lascia tregua
e non perdona nulla fino a costruire un atto d'accusa
incontrovertibile. E il lettore,
pagina dopo pagina, si trova a ripercorrere parallelamente la sua
storia personale e ad affrontare i suoi fantasmi, i suoi "cadaveri
nell'armadio". Fritz Zorn ha 28 anni quando si ammala e 32 anni
quando muore poco dopo aver terminato il suo manoscritto, ma questi
quattro anni di sofferenza e di malattia non sono stati inutili, come
inutile non è stata la sua morte, se il suo libro può aiutare a
raggiungere una maggiore consapevolezza. Perché in ognuno
di noi c'è almeno un po' di Fritz Zorn.
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