Rivista Anarchica Online
Musica & idee
a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)
Franti
"… In
Giappone, nel periodo medievale, un imperatore volle far progettare e
costruire un giardino nella sua residenza dall'architetto più
famoso del paese. Dopo innumerevoli
anni di lavoro, l'architetto fece chiamare l'imperatore
comunicandogli che il giardino era stato ultimato. L'imperatore
rimase sconcertato: chiuso in un perimetro rettangolare in muratura,
un piccolo giardino verdissimo era tutto il risultato di anni
d'attesa. Sparsi però
per il giardino vi erano dei massi enormi conficcati nel terreno.
L'architetto propose all'imperatore di contare le pietre: "sono
quattordici" egli rispose. Si spostarono poi in altri punti del
giardino, ed ogni volta l'architetto chiedeva al signore di contare
le pietre: "Sono quattordici, ne sono sicuro". L'architetto
prese allora un gesso ed iniziò a numerare i massi. Alla fine
se ne contarono quindici. L'architetto spiegò
al re che aveva posizionato i massi in modo tale che da qualunque
parte li si osservasse se ne scorgevano sempre e solo quattordici,
uno in meno di quelli realmente presenti... Certo, volendo (e
potendo) salire in alto si sarebbero visti tutti i massi ma, per
gioire di un giardino, bisogna camminarci in mezzo. Ora si pone un
problema: questo giardino è la somma delle sue quindici pietre
e del suo terreno rettangolare oppure c'è qualcosa al di là,
dentro o fuori, sopra o sotto di questo? Questo è un
disco rock (termine riassuntivo): rispondere a questa domanda ci
porterebbe su terreni sui quali solitamente non ci si avventura. Ma
un musicista creativo acquista forse il suo senso proprio nello
sbattere in faccia, anche a se stesso, che ci sono salti, non
connessioni nelle tessere del mosaico. Che c'è una
pietra, anzi, quindici a turno, che sfugge. E qui ci stanno le nostre
storie, il nostro lavoro, la nostra cultura, la nostra fantasia,
tecnica, scienza. Nostre, perché impegnano la nostra vita in
un giardino di pietre...". "Un disco
rock" : una definizione frettolosa e francamente limitante,
insufficiente a contenere quella che è, nel valore e nella
complessità artistica raggiunta, la più bella opera dei
Franti. Un'opera d'arte
popolare, di questo si tratta. "Il giardino delle quindici
pietre" è il loro terzo album, un lavoro assolutamente
semplice eppure misterioso, proprio come il giardino giapponese che
viene usato come parallelo emozionante e ricco di significati
scintillanti. Il messaggio dei Franti va ben oltre i solchi del
disco, ben oltre le pagine del libretto che costituisce la copertina. Ascoltare queste
canzoni significa intraprendere un viaggio importante attraverso
l'anima di una generazione delusa, sfruttata e schiacciata ogni
giorno, ma non per questo disperata, o peggio battuta. Dietro alla
superficie ruvida delle quindici pietre c'è una sensibilità
viva che arroventa l'intero giardino, c'è la passione per una
rivoluzione sconosciuta, sognata ed attesa tutte le notti come una
stella cometa. In questo "disco rock" c'è posto per
l'intimismo tiepido e tremante della periferia delle città
industriali dove la misura dell'uomo è dimenticata, il
malessere ed il nervosismo artificiale per una vita che qualcuno
vorrebbe fatta di spettacoli televisivi inutili, di giornali letti in
fretta, di canzoni tutte uguali trasmesse per radio. In questo "disco
rock" c'è spazio per far volare, libera, la fantasia. "...Un
giardino e quindici pietre. Un'idea, un respiro, folgoranti dentro un
piccolo recinto di sassi. Non credo che i sassi sulle spiagge o sulle
rive dei fiumi siano in formazione, posizionati da qualche mano,
gigantesca. È la testa,
anzi gli occhi che danno un senso, una direzione e quindi un segno
delle pietre sparse. Man mano che lo sguardo passa di sasso in sasso
si tesse nella testa un disegno che, avanzando nello spazio, scompare per poi risalire alla memoria diverso, mai ripetuto. Come
disegnare nell'aria, che è comunque disegnare. Molti bambini
praticano quest'arte, ad ogni latitudine: non chiedono che gli adulti
scoprano il senso che sta dietro i gesti, semplicemente tracciano.
Azione e pensiero sono indissolubili in quest'arte. Arte povera, si può
provare a disegnare nell'aria (quattro case, un cane, una sedia a
dondolo che cade) e dopo qualche ora tornare a vedere cosa ne rimane.
Vere opere d'arte sono i pensieri che colorano le dita in movimenti.
Si dipinge l'aria come si suona uno strumento a corde. Perché
non provare a disegnare le figure con le pietre ed i sassi delle
spiagge lungo i fiumi? Le quindici pietre costringono a viaggi
d'esplorazione che lasciano indietro, introvata, una pietra
diversa...". I Franti si fanno
beffe della cultura borghese e pure ridono la più feroce delle
risate in faccia al bigottismo pseudo-antagonista: "No dreams,
no future" a velocità accelerata così da far
sorridere (ecco i sogni, ecco il futuro), per poi rigirare il
coltello nella piaga affermando: "...Le loro voci nelle orecchie
mi ricordano chi sono, mi ricordano a cosa servo e a chi servo"
. Linton Kwesi Johnson assieme ai ritagli di alcune tra le centinaia
di lettere ricevute durante questi anni d'attività, recensioni
e necrologi del punk, Peter Handke e Mario Boid, Humphrey Bogart,
Franz Kafka e storie "trovate in giro". Addirittura, in
"Big black mothers", i Franti fanno rivivere in un
ologramma agghiacciante lo spirito di Demetrio Stratos per poi
celebrarne il mito nel brano immediatamente successivo "Micrò
micrò". Nient'altro da aggiungere, in mezzo a questo
brivido che dura da più di mezz'ora.
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