Rivista Anarchica Online
L'operaio è
nudo!
di Camillo Berneri
Pubblicato nel
1934 da un gruppo di anarchici italiani esuli in Francia (tra i quali
Pio Turroni), l'opuscolo "L'operaiolatria" - del quale
pubblichiamo qui ampi stralci - è forse il più noto tra gli scritti
di Berneri. Certo è quello
che ha conosciuto il maggior numero di riedizioni.
Vi fu, e purtroppo
vi è ancora, una retorica socialista che è terribilmente
ineducativa. I comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro
partito d'avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell'"anima
proletaria", hanno tirato fuori la "cultura proletaria". Quando
morì Lunaciarsky fu detto, da certi giornali comunisti, che "egli
incarnava la cultura proletaria". Come uno scrittore di origine
borghese, erudito (e l'erudizione è il capitalismo della cultura),
alquanto prezioso come il Lunaciarsky potesse rappresentare la
"cultura proletaria", è un mistero analogo a quello della
"ginecologia marxista", termine che ha scandalizzato perfino
Stalin. Le Réveil di
Ginevra, insorgendo contro l'abuso dell'espressione "cultura
proletaria", osservava: "Il proletario è, per definizione,
e molto spesso in realtà, un ignorante, la cui cultura è
necessariamente limitatissima. In tutti i campi, il passato ci ha
fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti
a questa o a quella classe. Il proletariato, lui, rivendica anzitutto
una più larga partecipazione alla cultura, come ad una delle
ricchezze delle quali non vuole essere più privo. Dei sapienti,
degli scrittori, e degli artisti borghesi ci hanno dato delle opere
di un'importanza emancipatrice; invece, degli intellettuali sedicenti
proletari ci cucinano dei piatti spesse volte indigesti". La "cultura
proletaria" esiste, ma essa è ristretta alle conoscenze
professionali e all'infarinatura enciclopedica raffazzonata in
disordinate letture. Carattere tipico della cultura proletaria è di
essere in arretrato con il progresso della filosofia delle scienze e
delle arti. Voi troverete dei seguaci fanatici del monismo di
Heackel, del materialismo di Büchner,
e perfino dello spiritismo classico, tra gli "autodidatti", ma
non ne troverete tra persone realmente colte. Una qualsiasi teoria
comincia a diventare popolare e a trovare eco nella "cultura
proletaria", che è golosa di lussi. Come il romanzo popolare è
pieno di principi, di marchesi e di ricevimenti salotteschi, così un
libro è tanto più ricercato e gustato dagli "autodidatti"
quanto più è indigesto ed astruso. Molti di costoro
non hanno mai letto La conquista del pane, o il dialogo Fra
contadini, ma hanno letto Il mondo come volontà e
rappresentazione e La critica della ragion pura. Una
persona colta che si occupi, ad esempio, di scienze naturali e che
non abbia conoscenze di matematica superiore, si guarderà bene dal
giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in materia di
giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un
filosofucolo, di Caio che è un "grande scienziato", di
Sempronio che non ha capito il "rovesciamento della prassi"
né la "noumenicità", nè l'"ipostasi". Ché
l'autodidatta, sempre in generale, ama parlare difficile. Fondare una
rivista, al mezzo-colto, non fa paura. Non parliamo poi di un
settimanale. Scriverà della schiavitù in Egitto, delle macchine
solari, dell'"ateismo" di Giordano Bruno, delle "prove"
dell'inesistenza di Dio, della dialettica hegeliana; ma della sua
officina, della sua vita di operaio, delle sue esperienze
professionali non dirà una parola. "L'autodidatta"
cessa di essere tipicamente tale quando giunge a farsi una vera
cultura. Quando, cioè, ha ingegno e volontà. Ma, allora, la sua
cultura non è più operaia. Un operaio colto, come Rudolf Rocker è come un negro portato in Europa bambino e cresciuto in una
famiglia colta o in collegio. L'origine, come il colore della pelle,
non conta, in questi casi. In Rocker, nessuno immaginerebbe
l'ex-sellaio, mentre quando Grave esce dalla volgarizzazione
kropotkiniana fa pensare, con rimpianto, che è stato calzolaio. La cosiddetta
"cultura operaia" è, insomma, una simbiosi parassitaria
della cultura vera, che è ancora borghese e medio-borghese. È
più facile che dal proletariato esca un Titta Ruffo, o un Mussolini,
che uno scienziato od un filosofo. Questo non perché l'ingegno sia
monopolio di una classe, ma perché al 99% dei proletari, lasciata la
scuola primaria, è negata la cultura sistematica dalla vita di
lavoro e di abbrutimento. L'istruzione e l'educazione per tutti è
uno dei più giusti canoni del socialismo, e la società comunista
darà le élite naturali; ma, per ora, è grottesco parlare di
"cultura proletaria" del filologo Gramsci o di "anima
proletaria" del borghese Terracini. La dottrina socialista è
una creazione di intellettuali borghesi. Essa, come osserva De Man,
in Au de là du marxisme, "è meno una dottrina del
proletariato che una dottrina per il proletariato". I principali
agitatori e teorici dell'anarchismo, da Godwin a Bakunin, da
Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da
Fabbri a Galleani, da Gori a Voltairine de Cleyre, uscirono da un
ambiente aristocratico o borghese, per andare al popolo. Proudhon di
origine proletaria, è di tutti gli scrittori anarchici il più
influenzato dall'ideologia e dai sentimenti della piccola borghesia.
Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il più
borghese. Ed è innegabile che gli organizzatori sindacali di origine
operaia, da Rossoni a Meledandri, hanno dato, proporzionalmente, il
maggiore numero d'inserimenti(...). Ogni qualvolta mi
accade di leggere, o di udire, esaltare il proletariato industriale
come la élite rivoluzionaria e comunista, reagiscono in me
dei ricordi di vita, cioè delle personali esperienze e delle
osservazioni psicologiche. Sono condotto a sospettare negli assertori
di quello che a me pare un mito, o un'infatuazione di "provinciali"
inurbati in qualche grande centro industriale o, in altri casi,
un'infatuazione d'ordine professionale. Quando leggevo l'Ordine
Nuovo, specialmente nel suo primo periodo, quando
era periodico, la suggestione delle sue continue esaltazioni della
grande industria come formatrice di omogeneità classista, di
maturità comunista degli operai d'officina, ecc., era in me respinta
da considerazioni d'ordine psicologico.
Occhio alle
esaltazioni
Immaginavo, ad
esempio, Gramsci piovuto a Torino dalla nativa Sardegna, e preso
tutto dagli ingranaggi della metropoli industriale. Le grandi
manifestazioni, la concentrazione di operai specializzati, la vastità
febbrile del ritmo della vita sindacale della città industriale - mi
dicevo - l'hanno affascinato. La letteratura bolscevica russa mi
pareva pantografare lo stesso processo psichico. In un paese come la
Russia, dove le masse rurali erano enormemente arretrate, Mosca,
Pietrogrado, e gli altri centri industriali dovevano parere delle
oasi della rivoluzione comunista. I bolscevichi dovevano, quindi,
spinti dall'industrialismo marxista, essere condotti a infatuarsi
della fabbrica, come i rivoluzionari russi dell'epoca di Bakunin
erano condotti ad infatuarsi della cultura occidentale. In Italia, la
mistica industrialista di quelli dell'Ordine Nuovo
mi appariva, quindi, come un fenomeno di reazione analogo a quello
del futurismo. Un altro aspetto
che mi pareva esplicativo era quello della naturale tendenza che
hanno i tecnici industriali, tendenza che ha corrispettivi in tutti i
campi della specializzazione, a vedere nel fatto "industria"
l'alfa e l'omega del progresso umano. E mi pareva significativo che
gli ingegneri fossero numerosi fra gli elementi direttivi del Partito
comunista. A questo angolo
visuale sono ancora posto, e trovo una nuova conferma
nell'atteggiamento di alcuni fra i repubblicani che sono influenzati
dall'ideologia dei comunisti. Tipico è il caso
di A. Chiodini, che nel numero del febbraio 1933 dei Problemi
della rivoluzione italiana, criticando l'indirizzo rurale e
meridionalista del programma di "Giustizia e Libertà",
proclama: "Il
proletariato industriale è l'unica forza oggettivamente
rivoluzionaria della società. Perché solo il proletariato è nella
condizione e nella possibilità di liberarsi da ogni mentalità
chiusa di categoria e di assurgere a dignità di classe, cioè di
forza collettiva che ha coscienza di un compito storico da
realizzare. La rivoluzione italiana, come tutte le rivoluzioni, non
può essere l'opera che di forze omogenee e capaci di muoversi per
ideali a largo respiro. Ora, l'unica forza
omogenea che possa battersi per un ideale di libertà concreta e che
per questa battaglia possa essere disposta ad un'azione lungimirante,
non a scadenza fissa, è la forza operaia. È
questa che può porre, oggi, dopo tante prove e tante tragedie, la
propria candidatura come classe dirigente rivoluzionaria". Che il proletariato
industriale sia una delle principali forze rivoluzionarie in senso
comunista è troppo evidente perché ci sia da discutere a questo
proposito. Ma è, d'altra parte, evidente che l'omogeneità di quel
proletariato è più nelle cose che negli spiriti e più - vale a
dire - nell'agglomerato di individui che sono in grandissima
maggioranza dei salariati senza grandi differenze attuali o possibili
ed a contatto con una proprietà di sua natura indivisibile (quindi
necessariamente atta a divenire il capitale di un lavoro
necessariamente associato) che nella coscienza di classe, di forza
collettiva destinata ad attuare un grandissimo compito storico. Il particolarismo
degli operai delle industrie è troppo evidente perché ci si lasci
andare alle generiche e generalizzatrici esaltazioni che di essi
fanno taluni dei marxisti e dei marxisteggianti (...).
Viva le
corazzate!
A quali
degenerazioni sia giunta la collaborazione operaia-padronale nei
centri industriali lo dimostra il fatto che elementi cosiddetti
rivoluzionari inscenarono agitazioni per ottenere dal governo lavoro
per l'industria di guerra. Così, ne scriveva il Salvemini,
sull'Unità dell'11 luglio 1913. "La camera del
Lavoro di Spezia, amministrata da sindacalisti, repubblicani e
socialisti rivoluzionari, ha promosso uno sciopero generale. Per protestare
contro la uccisione di qualche operaio? - No. Per
protestare contro una iniqua sentenza di classe, pronunciata
dall'autorità giudiziaria? - No. Per solidarietà
con qualche gruppo di operai-scioperanti? - No. Per resistere a
qualche illegalità delle autorità politiche o amministrative? - No. Perché dunque? -
Per protestare contro il Governo che minaccia di togliere
all'arsenale di Spezia l'allestimento della corazzata Andrea Doria. Va da sé che alla
prima occasione i sovversivi di Spezia insceneranno anche a casa loro
qualche "solenne comizio" contro le spese "improduttive". E da notare che a
capo di questo movimento di protesta... rivoluzionaria, si trovava
una cooperativa, quella degli operai metallurgici (Giornale
d'Italia, 24 aprile). E va notato pure che
l'agitazione di Spezia si è manifestata nello stesso tempo in cui il
Consiglio di Amministrazione della Casa Ansaldo lamentava nella
relazione annuale di non avere sufficiente lavoro. Nello stesso tempo
gli operai del cantiere Orlando di Livorno facevano dimostrazioni
addomesticate per reclamare che lo Stato desse lavoro al cantiere
Orlando (Avanti!, 14 maggio 1913). E i deputati di Napoli si
recavano dall'on. Giolitti a chiedere "nuovi ordinativi per
affusti, cannoni, spolette e proiettili" agli stabilimenti di
Napoli, affinché non avvenissero nuovi licenziamenti di operai
metallurgici (Corriere della Sera, 24 maggio). E i giornali
clerico-moderati-nazionalisti spingevano avanti la campagna, affinché
il Governo impostasse nei cantieri quattro nuove grandi
corazzate (...).
(dall'opuscolo
L'operaiolatria, Gruppo
di edizioni libertarie, Brest [Francia] 1934)
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