Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 16
novembre 1972 - dicembre 1972


Rivista Anarchica Online

Alla scuola della galera
di G. S.

Quando il "delinquente comune" diventa "prigioniero politico"

Il ghetto urbano è l'ambiente naturale del sottoproletario: esso è l'espressione negativa e contraddittoria del processo di sviluppo del capitalismo avanzato.
Fin dalla sua nascita, il sottoproletario è abituato ad "arrangiarsi" per vivere, e, in quanto membro di una sottoclasse, è soggetto a subire i ricatti di un lavoro senza condizioni e tantomeno senza garanzie economico-sociali che ne fa anche di conseguenza un potenziale crumiro, assente da rappresentanze di categoria.
La contraddizione maggiore di questa sua classe, il sottoproletariato, deriva dal fatto che non ha basi economiche razionali su cui svilupparsi, il che evidenzia il fatto come il sottoproletariato sia la coda della cometa dell'intero processo di sviluppo economico del sistema capitalista. E in virtù di ciò anche il processo di sviluppo morale, ideologico e culturale del sottoproletariato estrinseca delle contraddizioni che lo caratterizzano come instabile, debole, infido, venale; ed esposto anche moralmente, ideologicamente e psicologicamente ai ricatti e ai falsi miti di chi lo ha espresso tale, cioè la borghesia.
Tuttavia il sottoproletariato non è negativo totalmente nel processo di sviluppo capitalistico-sociologico nella misura in cui esso si presta ad una utilizzazione diversa dal modo razionale a cui è soggetto il capitale. Il modo economico, per esempio, il sottoproletariato può esser un serbatoio di manodopera ricattato e ricattabile in campo sindacale. In forma politica, per esempio, il sottoproletariato, nella sua espressione delinquenziale, può essere il paravento per uno stato poliziesco.

Sottoproletariato e delinquenza

Operai, sottoccupati, disoccupati, e tutta l'eterogeneità della cosiddetta delinquenza abitano nel ghetto urbano. Fatalismo, superstizione e altri pregiudizi, sono radicati tra la gente del ghetto.
Il più tipico abitante del ghetto, però, è colui che ruba, che rapina, che traffica, che vive di "espedienti" come si dice. Costui è spesso considerato un "duro" nel ghetto e guardato con virilità dai suoi compagni. Ma in realtà dal momento in cui esso assumerà questo ruolo di "duro" acquisito o impostogli da varie circostanze, sarà essenzialmente una vittima della polizia in primo luogo, destinato a pagare duramente le conseguenze sul piano giudiziario con sentenze severissime e con lunghi anni di galera, destinato ad entrare e uscire da quest'ultima fino alla vecchiaia, uscendone alla fine vinto anche sul piano fisico, ormai un relitto umano.
Su questi individui è estremamente difficile intervenire affinché capiscano che con le loro azioni essi sono le prime ed uniche vittime di un falso modo di reagire alla loro miseria, alla loro pigrizia, alla loro situazione sociale. Non è certamente con il farsi sbattere in galera per un furto e farsi manganellare la testa nelle questure che il "duro" risolverà la sua situazione sociale e personale. Proprio per questo suo atteggiamento esteriore di "duro" estremamente contagioso, che dà un senso di potenza e di furbizia specialmente alle prime armi, che è difficile far desistere il giovane che delinque da questa sua reazione controproducente ai suoi stessi reali interessi, così come sarà quasi disperato intervenire nel vecchio individuo che si è "arrangiato" per tutta la vita.
All'abitante del ghetto, magari a colui che ha rubato per sfamare i suoi figli, bisogna chiarire con quale mistificazione egli viene giudicato e condannato, in nome cioè dei suoi stessi figli che ha tentato di sfamare, in nome di suo padre e di sua madre, in nome dei suoi fratelli, amici e conoscenti, che sono a milioni come lui e che sono la parte più vera, più genuina del popolo italiano. Bisogna dire all'operaio, all'emarginato, al detenuto, che la misura di una colpa individuale e sociale è valutabile nella misura in cui questa si esprime in un contesto sociale determinato: se una determinata società nega gli elementari principi di sussistenza umana o ne impedisce lo sviluppo di questi, come nel caso degli abitanti del ghetto, allora qualsiasi tentativo di uscire da questa situazione ingiusta, discriminatoria, anti umana, non solo è giusta ma anche auspicabile nelle forme corrette, non contraddittorie come le azioni delinquenziali. Tutto ciò sarà invece condannato se in una società sussistono tutte le garanzie di diritto e di fatto per vivere secondo giustizia per tutti e per ognuno.
Dopo aver visto come vive la gente nei ghetti urbani, non è difficile immaginare che l'80% della popolazione detenuta nelle carceri è costituita proprio da questi abitanti. In carcere si ritrova il compagno di strada, il conoscente di un quartiere vicino, l'individuo che si esprime esattamente come loro: gli abitanti dei ghetti, dei quartieri che la letteratura eufemisticamente chiama "malfamati".
Superato lo shock iniziale per essere stato sbattuto in una cella di una prigione, l'abitante del ghetto non tarderà a riprendere fiato nella prigione stessa per organizzarsi contro le guardie carcerarie, le spie e i servi al servizio del potere carcerario, unendosi in clans, in gruppi, o sfoggiando quelle stesse doti supervirili che lo hanno reso famoso e temuto nel ghetto dove egli è nato e cresciuto.
Tuttavia in quanto detenuto, il potere carcerario gli sta continuamente alle costole in forma repressiva, alienante, fino a costringere prima o poi questo alle corde, cioè di impedirgli di ragionare sulla propria condizione se non in termini di paura, di rassegnazione o di disperazione e irrazionalità. Sono tipici i casi di servilismo da parte dei detenuti all'interno delle carceri, così come sono frequenti i casi di autolesionismo ed esplosioni di rabbia, insofferenza e irrazionalità individuale e collettiva. (Vedi le rivolte carcerarie).
Per quanto in questi ultimi tempi il detenuto nelle carceri italiane sia diventato più "difficile" da governare e reprimere, questo non ha ancora messo in forse questo stesso modo di essere governato secondo una logica penitenziaria instaurata ed applicata a priori. Malgrado la sua rabbia e insofferenza ad una realtà carceraria infame, il detenuto italiano è tale come lo ha voluto il potere, la società, e lo vuole lasciare tale per manipolarlo, reprimerlo, oggettivarlo: solo lottando per mutare il suo ruolo all'interno delle carceri da detenuto "in sé" per assumere una funzione "per sé", egli, il detenuto, potrà così uscire da quell'isolamento secolare in cui la società prima ed il carcere dopo lo hanno spinto, e prendere quella necessaria coscienza di essere sfruttato, emarginato e represso alla stessa stregua di tutte le altre classi sociali sfruttate, emarginate e represse. Solo prendendo coscienza di essere masse sfruttate, emarginate e represse, depauperate economicamente e moralmente da precise origini economiche e sociali, la conseguente, necessaria e auspicabile lotta contro tutte le istituzioni, strutture e infrastrutture che perpetuano queste disuguaglianze e subordinazioni, può e avrà senza meno un successo. Il detenuto non deve fare più il detenuto, così come il sottoccupato, il disoccupato e l'emarginato devono scrollarsi di dosso questa etichetta il che vuol dire mettere sotto accusa il sistema e combatterlo efficacemente, poiché attraverso questa lotta si mettono in grado di capire i fratelli e proletari della giustezza e necessità della stessa lotta per fare un'unica lotta di classe.

Presa di coscienza ed obiettivi di lotta

Dalle lotte e rivendicazioni articolate, dalle istanze dei detenuti in questi ultimi anni, si possono trarre due fondamentali direttive che riassumono i principali problemi carcerari del momento.
1) - Una direttiva riassume tutti i vari problemi all'interno del carcere, come i colloqui, il vitto, la sanità, rapporti tra detenuti e custodia, rapporti tra i detenuti e l'esterno, rapporti sessuali, ecc.
2) - La seconda direttiva riassume tutti i vari problemi che sono direttamente o indirettamente collegati con la realtà esterna, come le riforme per il regolamento carcerario e dei codici, l'uscita dal carcere ecc. Se i detenuti avranno le idee chiare su queste due linee, essi potranno lottare efficacemente ed organicamente per ottenere dei risultati positivi, perché sono consapevoli che quanto chiedono è il risultato di fondamentali e improrogabili esigenze umane.
Gli strumenti più idonei e attualmente possibili ottenere all'interno delle carceri per avere una base cosciente e concreta su cui lavorare affinché i detenuti maturino attraverso la lotta per avere tutti i diritti umani e costituzionali, sono:
1) - Assemblea.
L'assemblea mette in grado tutti i detenuti ad esprimersi chiaramente e a prendere eventuali decisioni comuni a tutte le esigenze della popolazione detenuta.
Tra l'altro, in essa si possono appianare tutti quei conflitti interni che sorgono proprio per le divisioni interne volute dal potere carcerario. Quindi la diffidenza, l'incertezza, il sospetto verranno meno nelle assemblee, perché tutto quel che si farà nel carcere sarà automaticamente a conoscenza di tutti i detenuti. Se i detenuti, una volta ottenuta l'assemblea, sapranno gestirla e servirsene con profitto, essa sarà una sicura palestra di crescita democratica per ogni detenuto.
Recentemente in alcune carceri italiane, alcuni gruppi di detenuti lavoravano per ottenere l'assemblea, ed erano arrivati ad ottenere delle concessioni in questo senso. E per rendere più concreto e immediato il loro lavoro, avevano incaricato dei detenuti che si intendevano dei vari problemi da discutere nelle assemblee, in modo che nelle stesse ci fosse già l'ordine del giorno su un determinato problema di interesse generale su cui discutere. Per esempio, se si voleva parlare della riforma penitenziaria, alcuni detenuti studiavano il problema e lo preparavano per l'assemblea, e invitavano nella stessa assemblea un esperto (un avv. o un magistrato scelto da loro stessi) in modo che questo fungesse da interlocutore e desse uno stimolo qualificato alla discussione generale.
2) - Commissioni.
Nelle commissioni i detenuti devono gestire i programmi culturali (cinema, televisione, teatro, biblioteca, scuole). I detenuti attualmente non hanno nessun potere all'interno del carcere che possa essere utilizzato concretamente per spingere la controparte a rilasciare delle concessioni. Per esempio, i detenuti non hanno un potere economico organico e consistente, però laddove ci sono fabbriche ministeriali o private, si possono anche utilizzare scioperi per ottenere delle concessioni. Perciò i detenuti devono impadronirsi di tutte le istituzioni possibili all'interno delle carceri, stimolando la presa per altre. Non è superfluo ricordare che altro potere possibile all'interno delle carceri, è quello derivato dalle proprie ferme convinzioni di essere nel giusto nel rivendicare i propri diritti umani e costituzionali, e che per quanto giuste e belle siano le rivolte carcerarie, queste, per il loro modo di porsi in essere, cioè per la loro impossibilità di prepararle e gestirle in modo razionale, lasciano uno spazio controproducente per gli stessi detenuti in quanto il potere carcerario e tutte le istituzioni al servizio del sistema (giornali, radio-televisione ecc.) recuperano l'effetto di queste rivolte facendo credere un sacco di balle alla gente che di conseguenza non viene messa in grado di capire il perché i detenuti si rivoltano, così, invece di essere solidale con i detenuti, la gente è loro contro. Perciò i detenuti devono essere coerenti e uniti nelle proprie lotte, sia per essere loro stessi più efficienti che per mettere in grado la gente, il popolo di capirle.
3) - Diritto di qualsiasi strumento di informazione.
La lettura di tutti i giornali è un preciso dogma costituzionale. Perciò si deve ottenere l'ingresso nelle carceri di tutti i giornali per mettere in grado i detenuti di attingere a tutte le più ampie informazioni possibili della vita nazionale e internazionale.
4) - Diritto dei rapporti sessuali.
A tutti i detenuti è conosciuta la fondamentale esigenza di poter avere dei normali rapporti sessuali. Questo diritto fondamentale per l'uomo, garantito peraltro dalla costituzione, deve essere rivendicato costantemente dai detenuti. La denuncia deve essere sostenuta con degli esempi mostruosi scaturiti in virtù della negazione che i benpensanti e tutti falsi moralisti giustificano. Violenze fisiche e morali da parte di detenuti su altri detenuti più deboli per sfogare la propria libidine repressa. Processi per atti di libidine, denunce per violenza carnale e l'altissima percentuale di omosessualità contraddistinguono il bilancio giornaliero per la castrazione a cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri. Ai detenuti non si addice la castità; essi vedono 24 ore su 24 occhi di uomini spenti, abbrutiti dalla violenza e dalle negazioni fondamentali dei valori ed esigenze umane.
5) - Difesa giudiziaria gratuita.
Organizzare subito un nucleo di avvocati che difendano gratuitamente i detenuti più bisognosi almeno nella parte iniziale del processo. Infatti è nella fase istruttoria che si gettano le fondamenta per una sentenza di accusa o di assoluzione. Nel frattempo, le varie istanze di libertà provvisoria, per la scadenza dei termini giudiziari ecc. devono essere regolarmente fatte gratuitamente. Troppo spesso restano in galera un sacco di persone, sia perché ignorano totalmente le astrusità del codice, sia perché non hanno un difensore che li segua perché non hanno i soldi per pagarselo. Le carceri sono piene di detenuti con una mostruosità di anni di galera da fare per dei furti passati in giudicato uno per uno. Dieci, quindici, venti e più anni di galera per dei furtarelli, non sono condanne rare che stanno scontando centinaia di detenuti. Uomini che sono entrati in galera a vent'anni per una manciata di soldi e usciranno a trenta, quaranta e più anni di età: questo è il loro "recupero"!
Per la difesa gratuita, si deve ottenere la collaborazione e disponibilità dei democratici sensibili alla drammatica realtà dei reclusi, specialmente poveri.

Oltre la riforma, contro lo stato

Questi cinque punti, possono essere un programma minimo su cui indirizzare gli sforzi maggiori dei detenuti nella lotta per ottenerli. Essi sono direttamente emersi dalle due linee essenziali che dividono in due momenti i problemi dei detenuti, linee però che non sono e non devono essere divise per cercare di ottenere prima una cosa interna e dopo una cosa esterna, ma esse devono essere rivendicabili e rivendicate da un'unica base articolata, come un'unica, ampia esigenza. Qui sono stati tralasciati alcuni problemi carcerari molto sentiti, come la corrispondenza, i colloqui con delle persone al di fuori della cerchia familiare. Questi problemi sono inclusi in quella specie di riforma; volenti o nolenti, i detenuti dovranno subirla come ora subiscono il regolamento fascista. La lotta dovrà continuare e continuerà per denunciare tutte le mistificazioni riformatrici che in realtà perpetuano lo sfruttamento, l'alienazione, la repressione.
Le fabbriche, le scuole, i quartieri, devono essere informati costantemente della realtà in cui oggi vive il detenuto nelle patrie galere e contribuire alla sua lotta per la sua emancipazione dal gioco a cui è ceduto per condizioni sociali ben determinate. La lotta di emancipazione non può essere tale senza l'apporto delle masse emarginate, del sottoproletariato in quanto tale.

G. S.

Dal ghetto urbano alla galera

Da alcuni anni si è intensificato e soprattutto si è andato sempre più politicizzando il movimento di contestazione generale alle carceri. Insieme con l'istituzione totale della galera è stata messa in discussione l'intera visione riformista-paternalista che dell'argomento aveva dato e dà tutt'ora la sinistra parlamentare. Fra l'altro, è stata messa in discussione anche la tradizionale distinzione fra detenuti comuni e politici, distinguendo giustamente invece fra coloro che all'interno delle carceri si battono direttamente contro la repressione e coloro che comunque si adagiano e subiscono passivamente la detenzione. Tutto ciò indipendentemente dalla natura (politica o comune) del presunto reato che li ha portati a passare una parte breve o lunga della propria esistenza fra le quattro mura di una cella.
In questo contesto di particolare interesse ci sembra la pubblicazione del documento riportato in questo numero sui problemi del ghetto urbano, del sottoproletariato e delle carceri. Si tratta infatti di uno scritto pervenutoci direttamente da un carcerato, anzi da un cosiddetto delinquente comune, nel senso che non politici sono stati i reati (furti, ecc.) che sono a causa della sua detenzione, e non politica era la sua coscienza all'entrata in galera qualche anno fa. Di ciò fa fede il seguente brano tratto da una lettera di accompagnamento che ci è pervenuta insieme al documento:
"... Io stesso sono un'esempio caratteristico di certo sottoproletariato, in quanto tipico prodotto del ghetto urbano attorno ai cantieri di Monfalcone, cresciuto con la mentalità di "arrangiarsi" per sopravvivere, finito più volte in galera per reati comuni; nessuna scuola, neppure le elementari, ma ora mi sento rivoluzionario già da anni, anche se solo in questi ultimi tempi lo sono in modo più cosciente, grazie a tante letture ed all'appoggio di compagni e amici. Volete sapere il mio risultato più bello? Quello di essere riuscito ad imbastire un rapporto positivo, rispondente alla mia attuale concezione rivoluzionaria, con i miei molti fratelli e soprattutto con i miei genitori, che prima vedevano in me la disgrazia del nome e della famiglia, e mi accettavano come una disgrazia, una fatalità da sopportarsi con rassegnazione. Oggi invece hanno compreso, e mi sono molto vicini, non mi fanno mancare nulla, e sono fieri della mia funzione rivoluzionaria nelle carceri: e dire che sono tutti proletari, occupati da sempre nelle varie industrie locali! Ma per "spiegare" questo si presuppone il fatto che io sia ora diverso da quello che ero agli inizi di questa mia carcerazione, come in effetti sono.
È stato duro anche farmi accettare rivoluzionario dai miei ex compagni di strada: questa accettazione comporta altri inconvenienti in quanto solo a me, essi pensano, è stato possibile questo cambiamento e mi pongono per questo su di un piedistallo che io tento di smantellare sempre, mentre a loro non sarà mai possibile. In questo atteggiamento si vede chiaramente l'autocastrazione, la rinuncia a lottare per cambiare effettivamente vita.
Sussistono dei pregiudizi radicati nell'individuo che è sempre stato isolato nella lotta individuale per la propria sopravvivenza. Di conseguenza questi reagisce a determinate ingiustizie in modo rabbioso, violento, disperato, in modo venale, rassegnato, comunque compromesso: sempre con irrazionalità (...)".
Ed è proprio il rifiuto totale di questo atteggiamento irrazionale e sostanzialmente autolesionista che ci sembra uno degli aspetti più positivi del documento in questione, opera non di un anarchico in galera, ma di un detenuto comune fattosi politico nella allucinante realtà carceraria italiana.