Rivista Anarchica Online
L'importante è partecipare
di Colin Ward
Colin Ward, inglese, architetto, è
stato redattore del settimanale "Freedom" dal 1947 al 1960,
poi fondatore e animatore del mensile "Anarchy" dal 1960 al
1969. Oltre a numerosi libri che si
occupano di usi popolari e non convenzionali dell'ambiente abitativo,
ne ricordiamo qui l'unico ad esser stato tradotto in italiano:
Anarchia come organizzazione
(Edizioni Antistato, 1976, 1979). In queste pagine pubblichiamo la
relazione che Ward ha svolto nell'ambito del seminario "Urbanistica:
approcci libertari", tenutosi il 17 settembre scorso a Milano,
per iniziativa del Centro studi libertari e del Centro studi Co.S.A.
Quarant'anni fa, quando la rivista
"Volontà" veniva ancora redatta a Napoli dai miei
amici Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, venne pubblicato un
articolo sul problema della casa e sulla pianificazione urbana (da me
laboriosamente e senza dubbio inaccuratamente tradotto per il
giornale anarchico inglese "Freedom") a firma di un giovane
architetto, Giancarlo De Carlo.
Allora, come ora, la propaganda
anarchica era intralciata dal suo insistere che niente può
accadere se non accade tutto. La distruzione del capitalismo e dello
Stato erano le condizioni preliminari per poter costruire una società
libera. Il problema è che, allora come ora, né De
Carlo, né io, né i milioni di persone coinvolte possono
in realtà aspettare questi cambiamenti rivoluzionari. E
sarebbe interessante chiedersi se questi ultimi siano oggi più
vicini o più lontani di quanto lo fossero quarant'anni fa.
Alla ricerca di approcci alternativi,
De Carlo prendeva in esame le cooperative edilizie, le cooperative di
inquilini, gli scioperi dell'affitto e lo "squatting",
ovvero le occupazioni abusive di abitazioni vuote. Ora, nelle quattro
decadi che ci separano dal 1948 (millenovecentoquarantotto) abbiamo
potuto verificare come tutte queste tecniche di azione diretta messe
in atto dai cittadini più poveri, in Italia come in Gran
Bretagna o negli Stati Uniti, hanno portato ad un maggiore
coinvolgimento nella pianificazione urbana. E proprio per quei ruoli
che i cittadini possono pretendere.
Aspettare la rivoluzione?
In quegli anni lontani, De Carlo
proseguiva prendendo in considerazione quale potesse essere un
atteggiamento anarchico nei confronti della pianificazione urbana:
"Può essere un atteggiamento di ostilità - il
piano emana necessariamente dall'autorità, non può
essere che dannoso e va osteggiato; non si possono, del resto,
modificare i modi di vita sbagliati attraverso le loro
rappresentazioni; bisogna prima cambiare i modi di vita, le
rappresentazioni muteranno di conseguenza".
Oppure, veniva suggerito, si poteva
adottare un atteggiamento di partecipazione: "Il piano è
un'opportunità di svuotare i modi di vita attuali attraverso
il mutamento delle loro rappresentazioni; è questo mutamento
che crea i presupposti per un capovolgimento di tutta la struttura
sociale". "Il primo atteggiamento",
sosteneva De Carlo, "muove da una ragione critica fondata su due
argomenti essenziali: l'autorità non può dare la
libertà (il che è giusto), e l'uomo (oggi naturalmente
avrebbe detto l'uomo e la donna) non può fare finché
non è liberato (il che è sbagliato). L'uomo non deve
essere liberato, l'uomo deve liberarsi, ed ogni progresso che compie
verso la liberazione non può essere che un atto di coscienza
concreto. Conoscere nel loro pieno valore i problemi della regione,
della comunità, della casa, è un atto di coscienza
concreto. Esigere che questi problemi siano risolti e prepararne la
soluzione, è un'azione diretta concreta che toglie il potere
all'autorità e lo restituisce all'uomo (e alla donna)".
"L'atteggiamento di ostilità,
che significa in fondo "aspettare la rivoluzione per fare",
non tiene conto del fatto che la rivoluzione è una prerogativa
di cervelli lucidi, non di gente affamata o malata che non può
pensare al futuro perché è attanagliata ai suoi mali
presenti. E non tiene conto del fatto che la rivoluzione si avvia
cominciando a risolvere questi mali, per creare le condizioni
necessarie a un'aspirazione cosciente di libertà".
Giancarlo De Carlo faceva così due importanti affermazioni.
Innanzi tutto che, in qualunque società si viva, per
l'anarchico è fondamentale promuovere quegli approcci ai
bisogni individuali e sociali che dipendono dall'iniziativa popolare
e che rappresentano un'alternativa alla dipendenza dal capitale e
dallo Stato. In secondo luogo che il piano urbanistico può
essere l'opportunità per questo avvio rivoluzionario, se si
riesce a sottrarlo al cieco monopolio dell'autorità e a
trasferirlo ad una collettività mobilitata alla ricerca e
all'affermazione delle sue vere esigenze.
Per me, questo punto di vista, espresso
quarant'anni fa, è sempre stato importante e di grande aiuto
perché mi ha convinto - ed ancora lo sono - che uno dei
compiti della propaganda anarchica è di proporre soluzioni ai
problemi moderni che, per quanto dipendenti possano essere dalle
esistenti strutture socio-economiche, siano comunque soluzioni
anarchiche: il tipo di approccio che verrebbe adottato se
vivessimo in quel tipo di società che prefiguriamo. In altre
parole, è molto più probabile ottenere consensi al
nostro punto di vista se noi stessi formuliamo risposte anarchiche
che possano essere sperimentate qui ed ora, piuttosto che dichiarare
che non vi possono essere risposte fin quando non vi sarà la
risposta ultima: una rivoluzione sociale che continuamente scompare
oltre l'orizzonte.
Ritorniamo al primo dei punti formulati
da Giancarlo quarant'anni fa: l'importanza del movimento per
l'occupazione abusiva delle case sfitte. Al tempo in cui scriveva,
avevamo appena assistito a quell'esplosione di occupazioni illegali
che era avvenuta in Italia, in Gran Bretagna e altrove nell'immediato
dopoguerra. È storia,
ma la sua lezione è stata dimenticata. In seguito, negli anni
'60 (sessanta), le occupazioni sono tornate ad essere importanti: a
Torino, a Londra, a Berlino, a Copenaghen ed in decine di altre città
europee e americane. Questo movimento per le occupazioni non ha avuto
successo solo come tattica per risolvere il problema individuale
dell'alloggio, ma è anche stato un fenomeno politicamente
formativo. Ed è un fatto che le più solide cooperative
edilizie fiorite in Gran Bretagna nell'ultima decade abbiano avuto
inizio con occupazioni abusive.
Ma quale rinnovamento urbano?
Un secondo motivo di interesse nelle
sue argomentazioni del' 48 era l'uso della frase "un
atteggiamento di partecipazione". Ora, la parola
"partecipazione", negli anni '40 e '50, non faceva ancora
parte del linguaggio degli architetti o degli urbanisti. È
entrata nell'uso solo dopo quella fase di ricostruzione post-bellica
delle città britanniche e statunitensi nota come "rinnovamento
urbano".
Come è oggi chiaro a tutti,
"rinnovamento urbano" ha significato in pratica
"l'espulsione dei ceti poveri dalla città", con la
conseguente distruzione della tradizionale cultura urbana propria
alla classe lavoratrice. Esiste un'ampia bibliografia sulle
implicazioni connesse a questo evento. Ci sono i ben noti studi
americani di Robert Goodman e di Jane Jacobs ed i loro equivalenti
inglesi. Tra questi, vi è il lavoro di un consigliere comunale
socialista, dunque non anarchico, in cui si dichiara che: "Nella
nostra società , la pianificazione è essenzialmente il
tentativo di introdurre una tecnologia radicale in un'economia
conservatrice e altamente disegualitaria. L'impatto avuto dalla
pianificazione su questa società non è stato dissimile
da quello avuto dal sistema educativo su questa stessa società:
è meno oneroso e più vantaggioso per coloro che sono
relativamente privi di potere e relativamente indigenti.
La pianificazione, per quanto concerne
i suoi effetti sulla struttura socio-economica, è una forma
altamente regressiva di tassazione indiretta".
Si è così sviluppata,
negli anni '60, una nuova ideologia della "partecipazione"
populista e socialista che, in misura limitata ma significativa, è
stata una riscoperta di valori anarchici da parte di persone che non
avevano mai sentito parlare di anarchismo.
Uno dei più importanti tentativi
di misurare l'effettivo valore di queste pratiche partecipative è
stato fatto dall'urbanista americana Sherry Arnstein, ideatrice di
quel sistema noto appunto come "la scala partecipativa di
Arnstein". I gradini di questa scala, dal basso in alto, sono i
seguenti:
Controllo
popolare
Delega di
potere
Collaborazione
Conciliazione
Consultazione
Informazione
Terapia
Manipolazione
Ho sempre trovato "la scala di
Arnstein" un sistema di misurazione molto utile che ci consente
di andare oltre le barriere della propaganda e giudicare così
se una certa pratica di "partecipazione pubblica" non si
attesti semplicemente ai livelli della manipolazione o della terapia
se non addirittura all'inganno (che
non trova posto nella "scala di Arnstein" anche se dovrebbe
averlo).
Naturalmente l'obiettivo anarchico
punta all'ultimo gradino della "scala", quello del pieno
controllo da parte dei cittadini. Ed è qualcosa cui vale la
pena mirare in qualunque società noi si viva. Potremmo non
vincere le battaglie economiche, ma talvolta riusciremo a vincere le
battaglie ambientali. E la storia delle città italiane,
inglesi o americane è fatta tanto di successi quanto di
scoraggianti sconfitte.
Dobbiamo tuttavia domandarci se
"partecipazione" non sia stata una di quelle parole degli
anni '60 e '70 silenziosamente abbandonata negli anni '80. Il governo
britannico e quello americano, con la loro ideologia da Nuova Destra,
quelle poche volte che parlano dei problemi urbani ne parlano in
termini di una partnership tra mondo degli affari e governo.
Certamente non si riferiscono alla "partecipazione" dei
comuni cittadini.
Il termine "rinnovamento",
essendo ormai screditato, è stato sostituito da suoi
equivalenti, come "rigenerazione" o "rivitalizzazione".
E siamo tutti invitati a constatare di persona questa rigenerazione
delle città americane. Io sono stato invitato ad un convegno a
Pittsburgh (USA) sul tema "Ricostruire le città".
Uno dei relatori, Alan Mallach del New Jersey, ha affrontato proprio
l'argomento che interessa voi e me, affermando che: "La
concezione di una partnership pubblica/privata come di una relazione
tra due settori - il governo ed il mercato privato - è
inficiata dall'esclusione di un terzo attore essenziale: i residenti
delle comunità interessate.
Messaggi auto-gratificanti sui successi
imprenditoriali e sulla proliferazione di scintillanti costruzioni
per uffici in centro, mettono in ombra il fatto che in realtà
molte persone non beneficiano affatto di tutti questi successi ed
anzi molte ne sono profondamente danneggiate in maniera permanente". In altre parole, la battaglia per la
partecipazione locale dei cittadini va combattuta continuamente e
dovunque. Giancarlo De Carlo aveva ragione già tanti anni fa.
Ma vi è un altro aspetto del
discorso sulla città che dal punto di vista anarchico va
ulteriormente discusso. L'anarchismo ha condiviso con altre ideologie
politiche della sinistra una serie di convinzioni riguardo la
crescita della città industriale moderna e del proletariato
industriale moderno. Marx ed Engels, quali che siano le virtù
ed i difetti della loro concezione della storia, l'hanno comunque
basata sul primo paese - la Gran Bretagna - che ha sperimentato la
rivoluzione industriale: l'improvviso sviluppo di città
industriali quali Birmingham, Manchester, Leeds o Glasgow, la
proletarizzazione dei contadini immigrati e così via.
Rileggere Kropotkin
Per far rientrare il mondo reale in
questa teoria, essi hanno minimizzato ciò che era
sopravvissuto in Gran Bretagna dell'economia rurale europea ed hanno
liquidato la consistente presenza economica delle piccole officine
come una noiosa sopravvivenza dei "piccoli commerci"
medievali. Kropotkin, nel suo libro Campi, fabbriche, officine,
(Edizioni Antistato, Milano) ha cercato di correggere questa
visione rammentandoci che la grande città industriale è
un fenomeno temporaneo, originatosi in Gran Bretagna. Così,
già nel 1899 (milleottocentonovantanove), ha sostenuto che la
decentralizzazione è tanto inevitabile quanto desiderabile:
"La dispersione delle industrie su tutto il territorio - così
da portare la fabbrica in mezzo ai campi, consentendo all'agricoltura
di trarre tutti quei profitti che si sono sempre realizzati quando si
è combinata con l'industria e integrando il lavoro industriale
con quello agricolo - è certamente il prossimo passo che va
fatto... Questo passo è imposto dalla necessità per
ogni donna o uomo sano di dedicare una parte della loro vita al
lavoro manuale fatto all'aria aperta e questo diventerà sempre
più necessario quando i grandi movimenti sociali, oggi
divenuti ineludibili, arriveranno ad interferire con l'attuale
commercio internazionale, imponendo ad ogni nazione di ritornare alle
proprie risorse per il proprio mantenimento".
Ora, Kropotkin era - come me -
un'ottimista. Ma egli ha colto una grande verità riguardo alla
città ed all'occupazione industriale.
Sulla città industriale,
Ebenezer Howard, il pioniere della città-giardino,
contemporaneo di Kropotkin, nel 1904 ha dichiarato: "Mi arrischio ad
affermare che mentre l'epoca in cui viviamo è l'epoca delle
grandi città ad alta densità, vi sono già segni,
per quelli che riescono a leggerli, di un cambiamento in atto così
grande ed importante che il ventesimo secolo sarà conosciuto
come l'epoca del grande esodo...".
Che sia o no avvenuto secondo le
modalità anticipate da Howard, le statistiche demografiche
relative alle città britanniche confermano il suo punto di
vista. Un economista inglese, Victor Keegan, ha osservato alcuni anni
fa che "la teoria più seducente è che quanto
stiamo sperimentando adesso è nientemeno che un movimento a
ritroso verso un'economia "informale" dopo un breve flirt
di 200 (duecento) anni circa con una "formale"".
La vasta città industriale, la
grande fabbrica accentrata con la sua armata proletaria sono un breve
episodio nella storia della città, nella storia della
produzione e nella storia del lavoro. E per esserne convinti vi basta
visitare le agonizzanti città industriali della Gran Bretagna
e degli Stati Uniti.
Il ruolo dell'Italia
Nell'affrontare quella peculiarità
che è il miracolo economico italiano, noi anglo-americani
abbiamo una caratteristica discordanza di opinioni. Per esempio, lo
scrittore britannico Fergus Murray dà un interessante
resoconto dei recenti cambiamenti nell'industria italiana, spiegando
che: "Alla fine degli anni '60 la presenza sindacale in molte
industrie italiane aveva raggiunto livelli tali da minacciare
direttamente la rimuneratività delle imprese; le dirigenze
aziendali misero perciò in atto una serie di strategie tese
inizialmente a ridurre la forza dirompente di questa militanza
operaia". Una di queste strategie è stata il
decentramento della produzione industriale in un'economia su base
locale affidata a piccole officine e al lavoro autonomo. Si potrebbe
così interpretare l'intera evoluzione recente come una
cospirazione capitalista.
Prevedibilmente, gli stessi cambiamenti
industriali sono stati visti in maniera molto diversa dagli Stati
Uniti. L'architetto americano Richard Hatch, che sia io che De Carlo
ricordiamo come un pioniere della pianificazione partecipata in
un'area delle più difficili come può essere Harlem a
New York, ha scritto in tempi molto più recenti che: "Una
nuova forma di produzione urbana industriale sta dando in Italia
nuovo significato alla sua forma storica. Essa si basa su un ampio
numero di imprese molto piccole e flessibili che fanno ricorso a
lavoratori altamente specializzati ed a macchinari automatizzati e
polifunzionali. Produttori essenzialmente intermedi, essi si
collegano tra loro in combinazioni e modelli variabili per
raggiungere capacità manifatturiere più complesse, in
grado di ampliare il mercato. Queste imprese mettono insieme una
rapida innovazione con un alto grado di democrazia sul posto di
lavoro. Esse tendono a concentrarsi in aree integrate dove si vive e
si lavora. La loro crescita è stata il risultato di una
politica di pianificazione, di interventi nel campo
dell'architettura, e di investimenti municipali, con cospicui ritorni
in termini di crescita economica e di vitalità dei centri
urbani". Come è ovvio, la vitalità
dei centri urbani è uno degli obiettivi dell'urbanistica,
obiettivo che quest'ultima però è stata singolarmente
incapace di realizzare sin dagli anni '40. Quanti di noi si occupano
di urbanistica hanno dunque svariate ragioni per osservare quanto sta
succedendo in Italia. C'è stato, ad esempio, un
anarchico americano morto di recente, George Benello, che aveva
identificato nel "rinascimento industriale" dell'Italia
centrale e nord-orientale "un modello che ha funzionato, creando
in meno di tre decadi, non centinaia ma letteralmente centinaia di
migliaia di piccole imprese, capaci di produrre ben più che le
fabbriche gestite in modo convenzionale, grazie ad una attività
lavorativa basata sulla specializzazione, sulla responsabilità
e sulla capacità artigianale di una forza lavoro organizzata
in modo democratico".
Ho appreso dalla stessa fonte che
Benello era "sorpreso dalla combinazione tra un design ed una
produzione tecnologica sofisticate, e una condizione esistenziale e
lavorativa a scala umana; ed anche dalla quantità e dalla
diversità delle attività, integrate e collaborative,
presenti in questa rete. Piccole città come Modena hanno
creato dei "villaggi artigiani" - aree lavorative dove gli
impianti produttivi e gli spazi abitativi sono tutti raggiungibili a
piedi o in bicicletta, dove le scuole tecniche per i disoccupati
alimentano direttamente nuove attività lavorative e dove
piccole imprese che ricorrono a tecniche computerizzate si
consorziano allo scopo di realizzare una produzione più
complessa".
A questo punto sono sicuro che molte
persone qui, che siano anarchici, lavoratori o urbanisti, si
sentiranno estremamente a disagio di fronte a questa immagine
idealizzata che ho dato dell'Italia artigiana, e protesteranno
che la realtà quotidiana ha poco a che vedere con questa
visione. Ebbene, poiché il soggetto da trattare è un
approccio anarchico all'urbanistica, mi tocca di acuire ancora un po'
questo vostro disagio. La conclusione cui giungeva George Benello era
che "l'Italia ha insegnato al mondo i modi della vita urbana
forse più di qualsiasi altra nazione. Ancora una volta è
in prima linea nel creare un nuovo ordine economico a scala umana
basato sui bisogni della città".
Tra Torino e Coventry
Ora, pur mettendo in conto una certa
italofilia sentimentale, vi è un aspetto assolutamente vero in
questa dichiarazione. Provate ad andare non nelle città del
nord-Italia ma in quelle britanniche o statunitensi e vi imbatterete
certamente nelle rovine di quella cultura di fabbrica basata su
imprenditori monopolistici, che hanno abbandonato il campo o che
hanno diversificato le proprie attività, e su una forza lavoro
che dipende dai contributi elargiti dall'assistenza sociale o dalle
svariate alternative lavorative escogitate per le città
britanniche o americane: aree ricreative, musei industriali, centri
commerciali o acquari. Tutto tranne che la concreta opportunità
di essere coinvolti in un lavoro produttivo. Secondo quanto mi ha
riferito uno storico inglese, se si paragona l'esperienza dei
lavoratori del settore automobilistico di Birmingham o Coventry con
quella di Torino, nelle fabbriche britanniche la terza generazione di
operai industriali specializzati si è "formata in una
resistenza operata al capitalismo industriale", senza
sperimentare altro che un'occupazione gestita dal grande capitale. Al
contrario a Torino, con il suo frequente "ricambio
generazionale" determinato dall'afflusso di nuovi lavoratori
industriali provenienti dal Sud, i contadini e gli artigiani emigrati
a Nord non sono stati "schiacciati dal capitalismo di fabbrica"
ed hanno, di conseguenza, trovato più semplice diventare
lavoratori autonomi, o membri di cooperative o dipendenti di piccole
imprese ad alta tecnologia, o magari uscire quasi completamente
dall'occupazione industriale passando ad un'orticultura su piccola
scala.
Ora, noi anarchici non siamo marxisti.
Apparteniamo ad una tradizione diversa da quella che vedeva nella
macchina a vapore, e nella conseguente concentrazione della
produzione industriale, il fattore ultimo della storia umana. Noi
apparteniamo ad una tradizione diversa che comprende, ad esempio, la
fiducia di Proudhon nelle officine autogestite e la visione di
Kropotkin d'una produzione decentrata combinata con l'orticultura.
Ed è la nostra tradizione
che corrisponde più strettamente all'esperienza reale, tanto
dei nostri nonni che dei nostri nipoti.
Una delle persone che, pur appartenendo
ad una tradizione differente, ha riflettuto in maniera seria su
questo soggetto è André Gorz, il quale sostiene che la
Sinistra politica è stata congelata in un atteggiamento
collettivista autoritario che appartiene al passato. Ed ha aggiunto:
"Finché i sostenitori del
socialismo continueranno a fare della pianificazione centrale il
perno del loro programma e dell'adesione di tutti agli obiettivi
"democraticamente formulati" il nucleo della loro dottrina
politica, il socialismo rimarrà una proposta poco attraente
per le società industriali. La dottrina socialista classica
trova difficile venire a patti con il pluralismo sociale e politico,
inteso non semplicemente come una pluralità di partiti e
sindacati ma come la coesistenza di svariati modi di lavorare,
produrre, vivere, di svariate espressioni culturali e modi di vita
sociale... Eppure proprio questo tipo di pluralismo è conforme
all'esperienza vissuta ed alle aspirazioni del proletariato
post-industriale, così come della maggior parte della classe
lavoratrice tradizionale".
Ora, tutto ciò potrebbe essere
perfettamente capito nelle aree urbane periferiche di Torino, o di
Modena o di Bologna o in tutti quei "villaggi-officina"
dell'Emilia Romagna o, suppongo, qui a Milano.
Anarchici in una società
ostile
E naturalmente, tutto ciò non
può non avere implicazioni con la pianificazione concreta del
territorio. Esso infatti implica un piano modesto, sperimentale e
flessibile, che assuma il controllo degli abitanti come
principio base dell'abitare e presupponga inoltre che il locatario
abbia accesso ad uno spazio verde che possa essere utilizzato come
giardino, o per l'orticultura, o come spazio-giochi per i bambini, o
per l'attività lavorativa. E do per scontato che vi sia un
nido ed una scuola elementare nelle vicinanze e spazio per officine
autogestite tutt'intorno. Sono richieste tanto semplici che,
anche se siamo anarchici in una società ostile all'anarchismo,
dovremmo essere capaci di ottenerle.
(traduzione
di Amedeo Bertolo)
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