Rivista Anarchica Online
Il fantasma di Robespierre
di Carlo Oliva / Nico Berti
Il dibattito in corso sulla
rivoluzione francese si sta rivelando, in gran parte, un pretesto per
applicare anche al passato una lettura sempre negativa di ogni forma
di conflittualità sociale. È un tentativo di cancellare
l'idea stessa di rivoluzione dall'universo dei possibili politici. È questa la tesi sostenuta da Carlo Oliva in questo saggio. Seguono tre schede, redatte dallo
storico Nico Berti per un dizionario delle interpretazioni della
rivoluzione francese (di imminente uscita presso Einaudi). In esse si
analizzano le riflessioni sull'89 di tre caposcuola del pensiero
anarchico: Proudhon, Bakunin e Kropotkin.
"Non ingannatevi, voi che
siete soddisfatti di aver legato il vostro nome a una grande
rivoluzione. Presto svanirà il clamore degli elogi che lo
stupore e la leggerezza fanno risuonare. I posteri metteranno a
confronto la grandezza dei vostri doveri e l'immensità delle
vostre risorse con le manchevolezze della vostra opera e diranno
indignati di voi: " Essi potevano rendere gli uomini liberi e
felici, ma non l'hanno voluto. Non ne erano degni!"
Dal "Discorso sul marco
d'argento".
Metodologicamente parlando, gli eventi
storici sono un'entità imbarazzante. Tanto per cominciare, non
sono entità, o, per lo meno, per esserlo devono essere
definite da qualcuno in quanto tali. E poi è più facile
attribuir loro un significato (o negarlo), che definirli con un
minimo di precisione. Ogni fatto è preceduto e causato da
altri fatti, in una catena di cui ci sfugge sempre un anello
precedente. Sappiamo tutti, tanto per fare il solito esempio banale,
che non abbiamo alcun vero motivo per dire che la "scoperta"
dell'America avvenne il 12 ottobre 1492. Visto che lo sbarco a
San Salvador s'inserisce in tutta una catena di eventi in cui sono
compresi, fra l'altro, nascita, infanzia e primi studi di Cristoforo
Colombo, la presenza di certi sovrani sul trono, alcuni problemi del
commercio mondiale delle spezie, l'evoluzione dell'ingegneria navale,
la crisi del regno moresco di Granada e quella della Repubblica di
Genova, per non dire delle condizioni del vento e delle maree in
quell'autunno, nulla ci vieta di affermare che quella scoperta in
quel giorno si concluse. Oppure, considerando che sarebbe
comunque passato un bel po' di tempo prima che le terre d'oltre
Atlantico fossero passabilmente note ai nuovi padroni, che vi
cominciò.
Il dibattito sulla Rivoluzione
In realtà, tutti coloro che si
sono occupati, in un modo o nell'altro, del problema, a un certo
punto sono stati colti dall'orrendo sospetto che la definizione di un
evento dipenda proprio dal significato ideologico che a priori
si è deciso di attribuirgli. Non tutti l'hanno ammesso di buon
grado, perché il buon senso corrente esige, non senza
fondamento, che per attribuire un significato a qualcosa di quel
qualcosa si disponga già prima, ma è anche vero che ad
attenersi a questo principio ci si infila diritti in uno di quei
circoli viziosi da cui è impossibile uscire. Forse, anche in
questo caso, sul buon senso è meglio fare subito una croce.
L'insieme di eventi comunemente noto
come Rivoluzione Francese, di cui s'è deciso, abbastanza
arbitrariamente, di celebrare quest'anno il bicentenario, ha avuto
una certa influenza sul seguito della storia mondiale, ed è
stato da sempre oggetto di mutevole giudizio. Nel nostro secolo è
prevalso in genere il punto di vista di chi lo ha considerato un
fondamentale avvenimento storico, essenziale per il successivo
progresso del genere umano. Una volta, si sa, non la si pensava così.
E pur concordando sull'idea di fondo, è sempre possibile
schierarsi sui particolari, per esempio sulla scelta dei personaggi
positivi e di quelli negativi. Si è discusso a lungo sul come
valutare il ruolo di Danton, o quello di Robespierre: intere scuole
storiografiche si sono caratterizzate su questa scelta. Il fatto, in
fondo ovvio, che la scelta non fosse indipendente da eventuali
giudizi di merito su problemi contemporanei non ha mai scandalizzato
nessuno.
Il dibattito che sugli stessi argomenti
s'è sviluppato in questi ultimi mesi, non dovrebbe parimenti
scandalizzare nessuno. Eppure, confesso che un po' mi ha
scandalizzato. Il vecchio Marx, (Karl, non Groucho, se mi è
lecito citarlo su queste colonne, scandalizzando la redazione e
assicurandomi un simpatico stelloncino di presa di distanza) ha
scritto una volta che la storia, quando si ripete, ripresenta sotto
forma di farsa quello che al primo apparire era stata tragedia.
Scherzava, almeno in parte, per far capire che cosa pensasse del "18
brumaio" di Luigi Bonaparte, ma se avesse potuto seguire il
dibattito in corso in questo 1989, anno del Bicentenario, in tema di
Rivoluzione Francese, soprattutto sulla fase giacobina, si sarebbe
sentito confortato nel suo giudizio.
In fondo, il dibattito sulla
Rivoluzione, per tutto il secolo scorso, è stato un momento
importante della storia del pensiero occidentale. Ha coinvolto tutti
i grandi teorici, da Hegel a Marx, appunto, e un numero davvero
notevole di poeti e scrittori. Di Goethe, un lettore non conformista
ha scritto che il vero problema dei suoi personaggi (Wilhelm Meister,
in particolare, ma non solo lui) è quello di come non
fare la Rivoluzione. Il problema rappresentato dalla medesima, poi,
interessò non poco a Stendhal; fu presente al Manzoni; occorse
persino a Jane Austen (che ebbe qualche geniale intuizione sul come
esorcizzarlo); incombe, da tutt'altro punto di vista, sulla
riflessione di Giacomo Leopardi; non fu estraneo, naturalmente alla
generazione romantica. Secondo il nostro metro di giudizio nessuno di
costoro, salvo forse il Leopardi, che se ne occupò solo
implicitamente, espresse dei giudizi che oggi potremmo far nostri ma
almeno c'è restato Il rosso e il nero e scusate se è
poco. Oggi, mentre ci si prepara a fare della ricorrenza del 14
luglio una delle tante carnevalate a prezzo fisso tipiche della
società dello spettacolo, lo stesso dibattito ha raggiunto
senza difficoltà il livello farsa.
Non tanto perché qualcuno abbia
sentito il bisogno di dire che ribellarsi al governo di quel
brav'uomo di Luigi Capeto sia stata una cosa esecrabile. Gli anni'80,
naturalmente, sono gli anni del grande pentimento, della riscoperta
di quanto sia gratificante un sano punto di vista reazionario: non
c'è motivo per non investire di questo punto di vista il
passato, e non solo quello recente. Ma il passato recente è
ancora affidato alla memoria collettiva e ciascuno è libero,
con qualche ragionevole limite, di rievocarlo. Per arrivare alla
"verità" di un paio di secoli or sono è
invece opportuno piegarsi alle metodiche e alle cautele della ricerca
scientifica. E pochi sono stati disposti a pagare questo prezzo. In altre parole, per invertire, come da
più parti s'è voluto fare, il valore (blandamente)
positivo che la communis opinio attribuisce alla Rivoluzione
Francese, sarebbe stato corretto mettere in discussione le grandi
sintesi storiche d'impostazione robespierrista che hanno forgiato i
giudizi correnti per gran parete di questo secolo. E trattandosi di
opere di solida impostazione accademica, non sarebbe stato male
misurarsi, alla bisogna, con l'enorme lavoro di ricerca che in quelle
sintesi si esprime. Non sarebbe stato un delitto: sarebbe stata ,
anzi, la doverosa applicazione del principio per cui la ricerca non
conosce soste e non si riflette mai in un'interpretazione canonica
permanente.
Un'idea da cancellare
Macché. Visto che la ricerca,
comunque, è faticosa e difficile, mentre l'ideologia è
facile e gratificante, e comunque bisogna affrettarsi perché
il bicentenario è alle porte e poi c'è subito da
celebrare il quadragesimo della seconda guerra mondiale e poi chissà,
ci è stato ammannito soltanto un gran blaterare ideologico sui
principi (o meglio, su quanto i principi siano nocivi). Non tutti,
naturalmente, ci sono stati, ma, per limitarsi all'Italia, il sobrio
sdegno di un Franco Fortini non è bastato a dissipare le fole
dei tanti Alberoni che ci hanno spiegato come quelle teste calde di
giacobini, accecati dal demone della violenza, abbiano rovinato
tutto.
Peccato. Perché un'occasione di
riflessione seria non andava, nonostante tutto, sciupata. Può
darsi benissimo che la vecchia dialettica tra Reazione e Rivoluzione
(il rosso e il nero, appunto...), oggi, non sia particolarmente
attuale, anche perché uno dei termini del dilemma sembra
essere stato cancellato dal vocabolario, con il tacito consenso di
tutte le parti. Quella tra libertà e dispotismo, naturalmente,
si è rivelata, con gli anni, più difficile da
amministrare di quanto si credesse nel secolo dei lumi. Ma il
problema dei critici odierni dell'89, forse, non è quello di
correggere questa o quella interpretazione sbagliata, di rettificare
certi dati acquisiti. Quelli vogliono semplicemente cancellare l'idea
di rivoluzione dall'universo dei possibili politici.
Non sembrerebbe una gran novità,
ma forse lo è. In fondo, nel caso di quella che è la
rivoluzione "borghese" per eccellenza, finora l'aggettivo
era considerato bastevole a far accettare il sostantivo (secondo la
logica per cui negli Stati Uniti uno dei gruppi più reazionari
disponibili sulla piazza si intitola alle "Figlie della
Rivoluzione Americana"): oggi si direbbe che la posizione
ideologica relativa si stia razionalizzando. Il che è più
significativo di quanto si possa pensare. Non è da oggi che la
classe dirigente si vergogna del passato rivoluzionario della
borghesia e ne teorizza l'inutilità, sostenendo, per esempio,
che nella maggior parte dei casi basterebbe, anzi sarebbe meglio,
fare pacificamente le opportune riforme. È
una tesi più suggestiva che altro, visto che il quattro agosto
viene sempre dopo il quattordici luglio, ma permette di mediare (e di
giocare con le parole) finché se ne ha voglia. Il recupero
sano della tradizione reazionaria, invece, dà un po' da
pensare.
L'ipotesi con cui fare i conti,
insomma, è sempre quella per cui si sta cercando di far
passare, persino al livello della definizione del passato, un qualche
definitivo progetto di omologazione, in base al quale qualsiasi
espressione di conflittualità dovrebbe essere considerata, per
definizione, negativa. È un progetto caro da sempre ai ceti
dirigenti di ogni genere e specie, ma finora, per un motivo o per
l'altro, non si è mai dispiegato del tutto.
Ora, gli storici (e gli ideologi) sono
soltanto una rispettabile sottospecie di intellettuali: non sono
certo stati loro a farlo fallire, figuriamoci. È un fatto,
tuttavia che il mondo intellettuale ha sempre avuto qualche
esitazione a schierarsi senza residui con il potere. La libertà
di pensiero, nonostante tutto, è una contraddizione di quelle
abbastanza toste. Se venisse meno finiremmo in una situazione al cui
confronto il dirigismo giacobino, ghigliottina e tutto, ci
sembrerebbe un paradiso libertario. Un paradiso libertario che la
Rivoluzione Francese, si sa, non è stata. Né
Robespierre né i suoi nemici politici di destra o di sinistra,
avevano titolo alcuno per essere definiti in quel modo. Lo scandalo
di cui molti fanno mostra di fronte alle vittime del Terrore è
spesso ipocrita, se si pensa al numero delle vittime che i nostri
tempi e le nostre cause hanno prodotto, ma quelle vittime ci sono
effettivamente state . La Rivoluzione ha prodotto (e Napoleone ha
diffuso e esportato) un modello di stato centralizzato e di
trasmissione del potere per via amministrativa buono per tutti gli
usi, compreso quello autoritario. Il termine "anarchia" è
stato coniato in quegli anni, come quasi tutti i termini di cui
ancora ci serviamo nel dibattito politico, ma come termine negativo.
Festeggiamo pure. Ça
ira
Il dibattito sulla Rivoluzione
Francese, in un certo senso, è il dibattito tra due punti di
vista autoritari. Ma naturalmente come si diceva all'inizio, noi
leggiamo (e scriviamo) la storia con certi intenti precisi. Non siamo
tenuti a condividere quelli altrui. Non alludo solo al fatto che in
quegli eventi siano stati sicuramente coinvolti dei libertari.
Sicuramente essi hanno fatto una gran brutta fine: i loro nomi sono
stati cancellati dalla memoria collettiva e sono noti solo a qualche
studioso o bibliofilo particolarmente erudito. Ma appunto questo è
il problema. Nulla impedisce di riscrivere (o di rileggere) la storia
di quegli anni da un altro punto di vista.
Certo, se si è convinti che
l'evento "rivoluzione" si sia definitivamente concluso in
Termidoro o in Brumaio, o a Waterloo, o in qualche momento della
storia successiva, non è facile recuperarne il valore: chi ha
dato, notoriamente, ha dato. Le cose possono cambiare un po' se lo
vediamo come la fase di un processo in corso, un processo (e un
progetto, perché no?) in cui ci sia possibile riconoscerci.
In questi duecento anni il fantasma di
Robespierre ha fatto paura a tanti: non c'è motivo per cui
debba far paura anche a noi. In fondo è stato lui a
dichiarare, come mi è capitato di ricordare in un'altra
occasione, che la Rivoluzione andava giudicata non per quello che
aveva fatto, ma per quello che non aveva fatto, e che le restava da
fare. Sono nobili parole, che troverete in epigrafe, e che nulla
vieta di prendere alla lettera. Nel frattempo, festeggiamo pure senza
paura il l4 luglio.
Ça
ira.
Carlo Oliva
P. J. Proudhon: rivoluzione, non dittatura
"Confesso, inoltre, che ciò
che m'indispone verso questo personaggio (Robespierre), è il
detestabile "strascico" che ci ha lasciato e che rovina
tutto in Francia da vent'anni, da Thiers a Guizot fino a Ledru-Rollin
e compagni: è sempre lo stesso spirito poliziesco e
ciarlatano, intrigante e incapace, in luogo del pensiero liberale e
costruttivo del paese. Dio, liberaci dal giacobinismo!". Da
questo giudizio, contenuto in una lettera inviata a Michelet l'11
aprile 1851, si può partire per ricostruire il pensiero di
Proudhon (1809-65) sulla Rivoluzione francese. Un punto fermo della
sua riflessione è infatti la condanna del giacobinismo, la cui
importanza storica è stata ingigantita, a suo giudizio, da una
tradizione democratica caduta nel colossale equivoco di scambiare un
episodio rivoluzionario (quello del '93-'94), per l'idea stessa della
rivoluzione facendo, di una forma passeggera di dittatura, un dogma.
Una tragica identificazione è
dunque, per Proudhon, l'aver accomunato la rivoluzione con la
dittatura e il pretendere perciò che tale sia la forma propria
di qualunque rivoluzione. Giacobinismo e rivoluzione sono invece, per
lui, affatto diversi. Il giacobinismo non appartiene alla rivoluzione
bensì, intrinsecamente, alla dittatura; ciò è
dovuto alla natura essenzialmente religiosa dell'evento giacobino, la
quale si rivela nella perpetuazione del principio di autorità
attraverso la divinizzazione dello Stato. Il giacobinismo deifica lo
Stato, così come nell'Antico Regime erano stati
deificati la Chiesa e il principio monarchico. Sotto questo punto di
vista i Giacobini, "questi epuratori eterni", non
rappresentano alcuna rottura rivoluzionaria rispetto alla storia
passata: "che cosa era, in fondo, la repubblica di Roma? Una
teocrazia (...); che cosa fu in seguito il governo imperiale? Una
teocrazia militare (...); che cosa è stato, successivamente,
il feudalesimo? Una teocrazia, per metà imperiale e per metà
pontificale (...); che cosa vuole essere oggi la democrazia
giacobina, secondo Robespierre, Buchez, Mazzini, l'abate Lenoir
e consoci? Una teocrazia, avente per sacramento il suffragio
universale e per papa onorario il popolo". Il giacobinismo è
dunque l'esatto contrario della rivoluzione, poiché ne
tradisce i presupposti filosofici, fondati sulla negazione radicale
di qualunque trascendenza. La trascendenza deistica dell'Essere
Supremo e la divinizzazione statalistica sono appunto dogmi in virtù
dei quali Robespierre, "l'esecutore delle vendette reazionarie",
"ghigliottinò la Repubblica". La Rivoluzione, pur
con "tutto il suo vigore", non avrebbe mai potuto generare
un regime di libertà, poiché "si inchinava davanti
alla teologia". Essa era stata "filosofica" con
Bailly, Condorcet, Clootz, Marat, Volney, ma successivamente, nella
persona di Robespierre, "si era data a Dio e il giorno dopo si
era ritrovata dominata".
La reazione termidoriana, nella visione
dell'anarchico francese, non è pertanto un fenomeno molto
diverso dal periodo del Terrore. È piuttosto la degenerazione
logica del Terrore stesso, dovuta, per l'appunto, al ruolo centrale
svolto dalla nuova divinizzazione deistica e statalistica: quando si
appoggia "sulla fede - egli afferma - la virtù
rivoluzionaria sbocca nella corruzione del Termidoro".
Rivoluzionari giacobini e reazionari termidoriani sono le due facce
di una medesima natura religiosa, e insieme l'antitesi radicale del
nucleo originario dell'89, la filosofia laico-illuministica . Con la
critica radicale del giacobinismo, e con l'esplicita valorizzazione
del federalismo girondino nonché dell'Illuminismo ateo e
materialistico, Proudhon si colloca in un versante storiografico più
liberale che socialista. Il fenomeno giacobino e terroristico del
'93-'94 è giudicato un "episodio", che non può
assurge a significato autentico della Rivoluzione francese; essa è
invece inserita nel processo, molto più vasto, della
secolarizzazione, giudicata irreversibile. "Quale è
stato, sino ad ora, il più grande atto della Rivoluzione? Non
il giuramento della Pallacorda, né il 4 agosto, né la
Costituzione del '91, né la giuria, né il 21 gennaio,
né il calendario repubblicano, né il sistema dei pesi e
delle misure, né il gran libro del debito pubblico: è
il decreto della Convenzione del 10 novembre 1793, che istituiva il
culto della Ragione. Da questo decreto discende il senato-consulto
del 17 febbraio 1810, che, riunendo lo Stato del papa all'Impero,
lacerò in tutta Europa il patto di Carlo Magno".
Con questa visione più
metastorica che storica, Proudhon tende dunque a riconoscere il
significato universale della Rivoluzione francese, e la sua presenza
attiva nella storia del mondo, nell'essere testimonianza e momento
dell'affermarsi del principio della Giustizia nella coscienza
moderna, liberatasi dall'idea religiosa e trascendentale, e quindi da
qualunque presupposto "superiore" che intenda assurgere a
fondamento della convivenza civile. L'enfasi di Proudhon nel
sottolineare il "culto della Ragione" non deve, tuttavia,
trarre in inganno: la sottolineatura, in questo caso, è solo
"polemica" e ben lungi dall'esprimere una valutazione
positiva del "culto" stesso.
Da questo punto di vista la "scossa
del 1789-93" rappresenta solo l'inizio; tuttavia, malgrado
"l'infedeltà dei suoi annalisti (e) la povertà del
suo insegnamento", i contenuti della Rivoluzione sono
inarrestabili perché esprimono il senso e la direzione del
mondo contemporaneo, fondato sull'affermazione dell'idea di Giustizia
che, a partire dall'89, si identifica con il concetto di uguaglianza.
Questo principio, osserva Proudhon, benché ancora
generalissimo nella sua formulazione, attraversa senza soluzione di
continuità l'intero ciclo rivoluzionario: lo si ritrova nella
Dichiarazione del 27 luglio-31 agosto 1789, nella Costituzione del 6
settembre 1791, nella Dichiarazione del 15-16 febbraio e del 24
giugno 1793, nelle costituzioni dell'anno III (22 agosto 1795) e
dell'anno VIII (15 dicembre 1799) e, perfino, nella Carta del 1814.
L'accentuazione da parte di Proudhon
dell'ineliminabilità del principio di uguaglianza, come
sinonimo parziale del principio di Giustizia, rivela una filosofia
della storia ancorata ad una concezione ottimistica del progresso
umano, inteso come processo infinito e, in ultima analisi,
accumulativo. Per questa ragione Proudhon non è interessato a
distinguere le differenti formulazioni dell'uguaglianza, presenti
nelle varie dichiarazioni e costituzioni; ciò comporta,
indubbiamente, una sottovalutazione del frutto maggiore della
Rivoluzione francese, cioè la democrazia politica, e una sorta
di atteggiamento "indifferente" verso le forze storiche che
ne furono protagoniste. Non esiste, infatti, nella riflessione
proudhoniana, un'analisi storico-economica delle lotte politiche e
sociali che travagliarono il quinquennio del 1789-94, né uno
specifico giudizio, positivo o negativo, sulle classi sociali che le
espressero.
Anche la constatazione che fu la
borghesia l'artefice principale e, soprattutto, la maggiore
beneficiaria della Rivoluzione e che dunque, data questa genesi, la
Rivoluzione restò entro il limitato orizzonte della libertà
e dell'uguaglianza politiche, rimane una considerazione marginale per
Proudhon. Ciò che egli intende sottolineare è che il
significato profondo della Rivoluzione non risiede nell'essere stata
il veicolo della vittoria della classe media, fatto, questo, del
tutto contingente, ma nel suo essere inscritta nel processo generale
e irreversibile della secolarizzazione e della immanentizzazione
dell'idea di Giustizia, che pervade tutta la società e per la
quale l'89 rappresenta solo l'inizio. "La fatalità della
natura domata dalla libertà dell'uomo. Tale è il
programma (...) della Rivoluzione", egli afferma. Con questo
giudizio, Proudhon coglie nella libertà il contenuto
universale (benché ancora parziale) della Rivoluzione
francese, contenuto al quale poterono richiamarsi Malovet come
Babeuf, l'uno "rappresentante della borghesia", l'altro
"tribuno del popolo".
M. Bakunin: quei reazionari dei giacobini
L'interpretazione bakuniana della
rivoluzione francese va situata, per buona parte, entro lo schema
classico della storiografia socialista.
Gli anni 1789-94 evidenziano una
rivoluzione "incompiuta" e "contraddittoria", i
cui esiti annunciano un moto più "grande" e
"solenne": la rivoluzione, "avendo proclamato il
diritto e il dovere di ogni individuo di diventare un uomo", ha
infatti generato la grande idea della libertà e
dell'uguaglianza, concretatasi storicamente nel repubblicanesimo
politico e nel socialismo. Il repubblicanesimo, "figlio adorato
dai Robespierre e dai Saint-Just" e ispirato alle virtù
eroiche dei grandi cittadini della Grecia e di Roma, appartiene ad
una concezione politica pura, "senza mescolanza di idee
socialiste", in quanto ha come suo ideale il "riconoscimento
del cittadino"; il socialismo, invece, è "l'ultimo
figlio" della rivoluzione, che lo ha reso manifesto sotto le
sembianze del babeuvismo. Babeuf e i suoi amici rivelano una reale
intenzione socialista, anche se il loro culto dell'uguaglianza va a
"detrimento della libertà". Essi esprimono "l'ultimo
tentativo rivoluzionario del XVIII secolo", l'istanza più
alta della rivoluzione: la volontà di realizzare la vera
libertà e la vera uguaglianza, cioè di portare a
compimento quello che il repubblicanesimo politico non è in
grado di fare.
Per Bakunin le carenze storiche dell'89
risiedono nell'irrisolto rapporto tra la trasformazione politica e la
trasformazione economico-sociale. Il repubblicanesimo politico non
poteva realizzare "l'uomo", in quanto "riconosceva
solo il cittadino"; era pervaso da una contraddizione
insanabile: perseguiva, infatti, "una cosa impossibile:
l'instaurazione di un'uguaglianza ideale nel seno stesso
dell'ineguaglianza materiale"; proclamava la libertà
nell'ambito della servitù economica delle classi popolari. Ciò
nonostante, esso aveva avuto il merito di aver enucleato l'ideale
"dell'assoluta libertà (anche se) solo ed esclusivamente
in campo politico", grazie al quale la Francia si era trovata
"in una posizione di preminenza tra le nazioni del mondo". Diversamente la componente socialista
della rivoluzione francese aveva bensì posto la questione
dell'emancipazione umana come questione ineludibile, ma si era
scontrata con il dato di fatto che una radicale trasformazione dei
rapporti di classe nella società dell'ancien regime era
"probabilmente impossibile". Bakunin riconosce agli uomini
del '93 d'aver agito in modo "eroico", "disinteressato"
e "generico", ma ritiene che non si possa andare oltre
questo riconoscimento etico; dal suo punto di vista i giacobini erano
rimasti ancorati a un orizzonte borghese, com'è dimostrato
dalla loro Costituzione, che aveva finito "coll'ignorare
scientemente la questione sociale", né la "terribile
ghigliottina (... ), alla quale certo non si può rimproverare
di essere stata inerte", era riuscita a distruggere radicalmente
il potere dell'aristocrazia, e in generale le basi materiali del
privilegio, visto che non era stato toccato il fulcro del privilegio
stesso: la proprietà individuale. Benché la rivoluzione
borghese avesse dato luogo a due "tendenze diametralmente
opposte", la Gironda e la Montagna, aveva comunque espresso gli
interessi "crescenti" e "vittoriosi" della classe
media; pertanto questa si ritrovò unita nello "sfruttamento
sistematico del proletariato". Ciò era stato possibile
per il fatto che l'antagonismo fra la rivoluzione borghese e la
rivoluzione popolare non esisteva ancora nella coscienza del popolo,
né in quella della borghesia.
La mancanza di una siffatta
consapevolezza, dovuta all'immaturità storica delle due classi
e dei loro reciproci rapporti, aveva consentito alla classe borghese
di esprimere nella Convenzione una propria autentica volontà
rivoluzionaria, specialmente contro i suoi nemici, la nobiltà,
il clero e la monarchia e di poter contare sul consenso popolare, la
cui forza era stata poi determinante nel portare a compimento la
rivoluzione stessa.
L'affinità dell'interpretazione
bakuniniana con il giudizio espresso dal pensiero
socialista-rivoluzionario si ferma qui. A questo punto si innesta la
specifica critica anarchica, che prende l'avvio, come in Proudhon,
dalla constatazione della natura irrimediabilmente "reazionaria"
e "religiosa" del giacobinismo. I giacobini, per
l'anarchico russo, erano "uomini che aspirano(vano) alla
dittatura e allo Stato centralizzato" e, in quanto partecipi di
un movimento "semireligioso", inneggiavano all'autorità
statale, il cui culto non poteva che condurre "fatalmente al
dispotismo". La loro rivoluzione non era stata
"socialista , né materialista, (ma) essenzialmente
metafisica, politica ed idealista". I frutti ultimi, e del tutto
logici di questo statalismo, sono ben rappresentati dalla "cupa
figura di Robespierre, il Calvino della rivoluzione, che uccise la
rivoluzione". Vi è una diretta
consequenzialità tra la pratica del Terrore e il Direttorio,
"vera incarnazione della depravazione borghese alla fine del
diciottesimo secolo"; la stessa consequenzialità legò
il Direttorio al 18 brumaio, l'esito tirannico della rivoluzione, e
al nazionalismo imperiale dei napoleonidi. Con ciò Bakunin
intende delineare una sequenza logica che parte da Rousseau e arriva
a Napoleone, tramite Robespierre. Rousseau, "il vero creatore della
moderna reazione", è in apparenza "lo scrittore più
democratico del diciottesimo secolo", ma in realtà cova
in lui "il dispotismo spietato dell'uomo di Stato". È
per ispirazione della dottrina rousseauiana, "sentimentalmente
terrorista, cioè religiosa", che Robespierre, "suo
degno e fedele discepolo", "ghigliottinò dapprima
gli herbertisti e poi il genio stesso della rivoluzione, Danton,
nella persona del quale assassinò la Repubblica preparando il
trionfo, divenuto necessario, della dittatura di Bonaparte". Il
rapporto tra la democrazia politica di Rousseau e il cesarismo
imperiale di Napoleone, metamorfosi della religiosità insita
in quello, si manifesta nel culto idealistico e dottrinario dello
Stato e nella falsa e astratta idea del contratto sociale. Il
contratto rousseauiano, che tanto influì sulle vicende e sullo
sviluppo della rivoluzione francese, è una palese
manifestazione dell'incapacità del pensiero borghese di
riconoscere la società nel suo fatto collettivo immediato, la
cui valenza "sociale" non abbisogna di una convenzione che
tolga ai suoi membri la libertà individuale in cambio della
sicurezza e dei benefici offerti dal vincolo societario. Questa
teoria statalista è la genesi del rivoluzionarismo autoritario
e totalitario del XIX secolo rispetto al quale, dichiara Bakunin in
riferimento agli anarchici, noi siamo "gli avversari naturali". La rivoluzione francese che, con la
Riforma, è la grande artefice dell'epoca moderna, è
l'erede diretta della propaganda "luminosa, eloquente, (e)
appassionata dei filosofi del XVIII secolo".
Ne risulta dunque, per Bakunin, che il
giacobinismo è l'esatto contrario dell'illuminismo: esso è
il cupo annunciatore di quel romanticismo rivoluzionario, fanatico e
intollerante, che pervaderà gran parte del posteriore pensiero
democratico e socialista, specialmente nella sua versione marxista, a
cui l'anarchico russo dedicherà pagine di lucida e profetica
critica.
P. Kropotkin: il mito della rivoluzione popolare
"Nella sollevazione dei contadini
intesa ad ottenere l'abolizione dei diritti feudali e
l'appropriazione delle terre comunali - tolte dai signori laici ed
ecclesiastici ai comuni rustici già fin dal XVII secolo, - c'è
l'essenza stessa, il fondo della Grande Rivoluzione. A ciò
bisogna aggiungere la lotta della borghesia per i suoi diritti
politici. Senza di ciò, la Rivoluzione non avrebbe mai potuto
avere la profondità raggiunta in Francia". Questo giudizio costituisce la chiave
di volta dell'interpretazione di Peter Kropotkin (1842-1921) della
Rivoluzione francese: il "fondo" e l'"essenza" di
questa rivoluzione non appartengono veramente alla borghesia, che fu
rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese venne trascinata
dall'ondata popolare, verso la quale cercò di opporre la
moderazione del costituzionalismo monarchico. La Rivoluzione, intesa
come profondo, radicale rivolgimento politico e sociale, come
irreversibile lotta tra le classi diseredate e quelle possidenti,
"non diventa comprensibile che dopo aver notato gli sforzi
reiterati (di queste ultime) allo scopo di conciliarsi la monarchia
per farsene scudo contro il popolo".
La svalutazione della volontà
rivoluzionaria della borghesia attraversa tutta la ricostruzione
storica dell'anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche
nelle conquiste del liberalismo politico l'effetto di una spinta più
grande e possente: la lotta popolare per il comunismo, nella forma
ancora rozza della semplice, diretta distribuzione egualitaria dei
beni. Se il moto rivoluzionario si fosse assestato sulla celebre
Dichiarazione dell'89, esso sarebbe rimasto entro l'angusto orizzonte
di "una professione di fede del liberalismo borghese";
questa, pertanto, mai avrebbe esercitato sui popoli quell'effetto
galvanizzatore che più tardi produsse, mai avrebbe assunto
quel mitico e potente fascino di personificazione della giustizia e
del moto della storia stessa, che posteriormente alimentò il
pathos della tradizione democratica e rivoluzionaria del XIX secolo,
divenendo "la parola d'ordine del progresso per tutte le nazioni
d'Europa".
Tutte le principali tappe che
scandiscono il quadriennio dall'89 al'94, sono segnate, per
Kropotkin, dalla presenza popolare, dal protagonismo delle classi
oppresse in lotta per l'abolizione di ogni privilegio, politico,
economico, sociale. Così il 14 luglio e il 4 agosto 1789, il 21
giugno e il 17 luglio 1791, il 10 agosto e il 21 settembre l792, il
21 gennaio e il 31 maggio 1793. L'Assemblea costituente, l'Assemblea
legislativa e la stessa Convenzione furono trascinate dall'impeto
popolare, legiferarono in senso rivoluzionano via via che si sviluppò
la pratica rivoluzionaria "dal basso" delle classi
oppresse, per cui è solo studiando "questo modo di agire
del popolo e non ingolfandosi nello studio dell'opera legislativa
dell'Assemblea che si afferra il genio della Grande Rivoluzione, il
genio di tutte le Rivoluzioni". Tra la ratificazione parlamentare
delle varie Assemblee e il moto spontaneo della rivolta popolare si
crearono momenti di sintonia e di scontro, ma sempre rimase il
divario, incolmabile, tra la forza autentica della Rivoluzione e la
sua epifania ufficiale. Il processo rivoluzionario fu un susseguirsi
incalzante di avvenimenti, secondo una logica deterministica nel
senso che, "quando una rivoluzione è incominciata, ogni
avvenimento non riassume solamente la tappa percorsa, ma contiene già
gli elementi di quanto accadrà". Nella visione di Kropotkin non vi
furono quindi molteplici rivoluzioni, come la storiografia liberale,
la socialista e la democratica hanno cercato di vedervi, enucleando
una rivoluzione aristocratica, una costituzionale, una girondina, una
giacobina, ma una sola ed unica rivoluzione, precisamente la Grande
Rivoluzione, che nel suo moto progressivo cercò la propria
"verità" nel fondo spontaneo, popolare, comunista,
anarchico. Con questa "ontologia" della rivoluzione,
Kropotkin contribuisce in modo davvero potente a forgiare quel mito
della "rivoluzione sconosciuta", che tanta parte avrà
nella storiografia rivoluzionaria di segno anarchico nel XX secolo.
Afferma infatti Kropotkin che, di contro a una storia palese,
intessuta di fatti ufficiali, che sono noti perché resi
pubblici da una disciplina storiografica di tipo "gerarchico",
intenta a mettere in luce l'azione dei re, dei ministri, del
Parlamento, dei grandi uomini politici, esiste anche, e soprattutto,
una storia sconosciuta, che non ha trovato voce in alcuna
storiografia, una storia fatta di gente anonima, immersa nella
propria quotidianità, di masse che contribuirono in modo
creativo, spontaneo, non ufficializzato, alla costruzione di un
differente ordine sociale e politico. È
in questo universo, è nei grandi fatti collettivi, che videro
protagoniste le masse anonime di contadini e di popolani, che si deve
rintracciare, per lui, il motore della Rivoluzione, il cui sviluppo,
se lasciato svolgere fino alle sue ultime conseguenze, non può
che approdare all'anarchismo comunista. La Rivoluzione, in altri
termini, è l'espressione a volte confusa, a volte cosciente,
di questa sua intima ed ultima "verità". Rendendo totalmente protagonista il
popolo, vedendo in esso la vera anima della Rivoluzione, Kropotkin
cade in alcune insuperabili contraddizioni, che sono tipiche, del
resto, di tutto il pensiero rivoluzionario. Non sa infatti spiegare
come mai questo stesso popolo, che ai suoi occhi è l'autentico
soggetto rivoluzionario, risulti alla fine sconfitto, perché
non riesca, pur essendo esso l'estrinsecazione della "verità"
profonda della Rivoluzione , a raggiungere i propri obiettivi. Tale
incongruenza riflette le contraddizioni proprie della concezione
romantica del popolo: una concezione mitica in cui, per un verso,
esso è l'autentico protagonista della storia, per un altro
verso, trascende la storia presentandosi come personificazione della
giustizia e, dunque, di una bontà che lo rende ingenuo e preda
della perfidia delle classi superiori. La causa della sua incapacità
politica risiede nello stesso motivo che lo vuole protagonista. Un
esempio, tra i tanti, è la ricostruzione della presa della
Bastiglia, simbolo della rivoluzione. Da un lato si sottolinea che il
popolo "sin dalla fine di giugno (...) era in pieno fermento e
si preparava all'insurrezione"; dall'altro lato, subito dopo
l'abbattimento dell'"odiosa fortezza", questo stesso popolo
risulta "docile a essere condotto, pronto a lasciarsi governare
dai nuovi padroni stabilitisi al Palazzo di Città". Né
Kropotkin avverte la contraddizione quando, in un altro passo,
afferma che il popolo, il quale "pur comprende così bene
le insidie della corte e vede meglio dei più perspicaci dentro
il complotto che si macchinava dalla fine di giugno", allo
stesso tempo, "Si lascia prendere (...) da un nuovo complotto -
quello cioè delle classi abbienti, che faranno, tra poco,
rientrare nei loro tuguri gli affamati, gli uomini dalle picche, ai
quali i borghesi erano ricorsi per qualche ora, quando si trattava di
opporre alla forza dell'esercito la forza dell'insurrezione
popolare".
Dunque le masse sono l'intelligenza
della Rivoluzione, ma anche, contemporaneamente, preda dei raggiri
delle classi superiori, in questo caso della borghesia. Si tratta,
come si vede, di contraddizioni gravi: se le classi inferiori sono un
vero soggetto storico perché risultano incapaci di avere una
completa autonomia? Oltre a queste, vi sono altre illogicità,
dovute al fatto che il popolo non è sempre rivoluzionario.
Dovendo spiegare il fenomeno vandeano, l'anarchico russo deve
riconoscere che la volontà rivoluzionaria delle masse
contadine si trasformò in rigetto reazionario; non potendo
negare il fatto che i complotti realisti "coprivano intere
regioni", e che dunque il loro seguito era larghissimo,
massiccio, egli è costretto ad attribuire al popolo anche la
veste reazionaria, benché sotto l'incalzante propaganda
clericale e nobiliare.
Kropotkin, inoltre, mentre enfatizza
oltre misura il protagonismo popolare, è obbligato a
riconoscere d'altra parte che la forza risolutiva delle classi
oppresse risiedeva, in ultima analisi, nelle masse parigine, a loro
volte identificate nella Comune. Il che è quanto dire che se
il grande esercito della Rivoluzione stava nelle campagne, aveva però
i suoi soldati migliori nella capitale. "Da ultimo, a Parigi,
com'è noto, fu la Comune che rovesciò il re, e dopo il
10 agosto fu ancora essa il vero focolare e la vera forza della
Rivoluzione; questa conservò il suo vigore sino al giorno in
cui visse la Comune. Le Comuni furono dunque l'anima della grande
Rivoluzione e senza quei focolari diffusi su tutto il territorio,
giammai la Rivoluzione avrebbe avuto la forza di rovesciare l'Antico
Regime".
Kropotkin è dunque costretto ad
identificare le masse con le minoranze, il popolo francese con quello
di Parigi; una identificazione che subisce un'ulteriore restrizione,
laddove è costretto ad ammettere, a più riprese, che
"in ogni epoca e in qualsiasi partito gli uomini d'azione furono
sempre un'infima minoranza" e che "le rivoluzioni sono
sempre fatte dalla minoranza".
Il risultato più grave della
enfatizzazione kropotkiniana del protagonismo popolare si rivela
nella spiegazione della dittatura giacobina . La genesi di questa
dittatura non è fatta risalire al fanatico rivoluzionarismo
totalitario dei capi giacobini, protesi a realizzare il regno della
virtù , ma alla volontà rivoluzionaria delle masse. La
lotta politica tra Giacobini e Girondini è infatti
interpretata come una logica e necessaria conseguenza della lotta di
classe tra sfruttatori e sfruttati. "Il 21 giugno 1791, giorno
dell'arresto del re a Varennes, chiude un'epoca, la caduta dei
Girondini, il 31 maggio, ne chiude un'altra. Essa diventa nello
stesso tempo l'immagine di tutte le rivoluzioni future. Non vi sarà
più una rivoluzione seria, se non finirà col suo 31
maggio. O la rivoluzione avrà la sua giornata in cui i
proletari si separano dai rivoluzionari borghesi, per marciare dove
questi non potranno seguirli cessando d'essere borghesi; oppure la
separazione non si farà, e allora non sarà una
rivoluzione". Il Terrore, ovvio epilogo del 31
maggio, diventa, nella ricostruzione di Kropotkin, e senza che egli
ne avverta l'incongruenza, l'esito della "rivoluzione dal
basso": "la Costituente, la Legislativa e persino la
Convenzione si opposero sino al giugno 1793 a questa ripresa da parte
dei comuni delle terre comunali, tolte durante due secoli ai comuni
stessi dai signori e dai borghesi. E non si giunse a tanto se non con
l'imprigionare e ghigliottinare il re e cacciare i Girondini dalla
Convenzione". È un'interpretazione, come si
vede, che finisce per assolvere il dittatorialismo robespierrista, in
quanto esso viene ritenuto un'epifania della volontà del
popolo. Invece di riversare sui capi giacobini la giusta
responsabilità per le migliaia di teste tagliate, Kropotkin fa
risalire la pratica forsennata della ghigliottina alla spinta
rivoluzionaria delle masse. "Se tre anni più tardi,
questo stesso popolo, di così facile contentatura e tanto
disposto ad aspettare, diventò feroce e cominciò lo
sterminio dei controrivoluzionari, non vi ricorse che come al mezzo
supremo per salvare qualche cosa della Rivoluzione - vedendola sul
punto di naufragare, prima di aver compiuto qualche cambiamento
sostanziale nella vita economica". Per aver voluto dimostrare a tutti i
costi che l'anima della Rivoluzione fu il popolo, a suo giudizio vero
e unico soggetto rivoluzionario, l'anarchico russo finisce,
involontariamente, col giustificare la dittatura della borghesia.
Esempio paradossale, ma del tutto logico, della mitizzazione
romantica del rivoluzionarismo popolare.
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