Rivista Anarchica Online
Il villaggio e la città
di Luigi De Carlini
Le città, che in passato sono
state il motore fondamentale di crescita dell'umanità, sono
oggi protagoniste di uno scambio ineguale e fattori di disgregazione
sociale ed ambientale. L'idea del villaggio rurale
gandhiano a confronto con il pensiero urbanistico più recente.
Le nostre città nascondono e
ostacolano la vita. Gli animali ne sono sacrificati, le piante rade e
patite. Tra la gente si moltiplicano i segni di una scarsa affezione
alla vita: basso numero di figli, droga, suicidi... Infine l'ambiente
urbano è particolarmente inadatto per la vita delle persone
più deboli come bambini, anziani, handicappati. Le macchine li
scacciano, non esiste la possibilità di uno scambio vitale tra
le diverse persone e tra queste e la natura. Eppure è ormai
accertato che i bambini hanno bisogno dei nonni (o di figure simili),
tanto quanto dei genitori; hanno bisogno della compagnia di altri
bambini, diversi anche per età, hanno bisogno di contatto con
la natura. Le nostre strutture urbane ostacolano questi scambi
vitali. Nella città l'uomo perde il senso della sua dipendenza
dalla natura e si ritiene dominatore supremo.
I vantaggi della città.
Nel passato le città hanno costituito un forte fattore di
crescita dell'umanità: scambio e integrazione sono le
parole-chiave per comprendere questa superiorità storica della
città sulla campagna. Le città consentono non solo
scambi commerciali, ma, prima ancora, scambi culturali, sociali e
umani tra persone diverse, ciò che permette una migliore
qualità della vita. Un aspetto della qualità della vita
oggi rivalutato è la relazione. Nel campo biologico si
sottolinea che la vita preferisce i luoghi di confine, dove la
relazione è alimentata dalle differenze, dai contrasti, anche
dai conflitti. L'epistemologia tende a superare la netta distinzione
tra soggetto (uomo) e oggetto (natura), sottolineando l' importanza
della reciproca relazione, così come la teologia scopre
l'importanza pratica della relazione trinitaria. (J. MOLTMANN, Dio
nella creazione, dottrina ecologica della creazione, Queriniana,
Brescia 1986). Per poter assolvere la funzione di scambio e
integrazione umani, le città devono mantenere, appunto,
dimensioni "umane". Dopo la rivoluzione industriale le
città hanno cominciato a crescere a dismisura, non però
nella ricerca di maggiori possibilità di scambio umano, ma
soprattutto per l'effetto di fattori economici. Le aree centrali, ad
es., aumentano sempre più di valore, restando precluse alle
classi subalterne. Il conseguente pendolarismo casa-lavoro spiega
perché molte strutture urbane, nel passato, si sono formate
lungo il tracciato di linee ferroviarie. Oggi è invece l'auto
il più importante fattore di localizzazione: determina la
diffusione capillare degli insediamenti e spesso la distruzione di
attività tradizionali, dell'agricoltura, del paesaggio. Nelle
zone montuose, ad es., quando arrivano le auto, si ha spesso
l'abbandono di consuetudini secolari, improntate alla sussistenza e
all'autosufficienza. L'auto, collegando con il mercato, comporta
l'esaltazione degli aspetti economici della vita. Così nelle
città di oggi si cercano possibilità di guadagno, di
carriera, di divertimento, più che di scambio umano. Ma quando
diventano deserto urbano, dove non si conosce neppure chi abita
nell'appartamento accanto, e si mortificano i rapporti con la natura,
oltre che tra gli uomini, peggiora la qualità della vita.
Uno sviluppo che espropria. È
importante sottolineare che il processo di sviluppo urbano (come ogni
processo di sviluppo economico) non è neutrale. Come "in
natura nulla si crea e nulla si distrugge", così in
economia qualcuno paga con il sottosviluppo il benessere di altri.
Nella storia delle città si può individuare lo
sfruttamento della campagna circostante con lo "scambio
ineguale" delle materie prime fondamentali (come gli alimenti)
che ne provengono. La città moderna si struttura, in modo
ancor più gerarchizzato, in relazione al valore economico
delle aree: in certe zone le case dei ricchi, in altre quelle dei
poveri. Nei luoghi centrali le funzioni superiori o terziarie, in
altri funzioni industriali o agricole, in altre ancora degrado ed
emarginazione. I proprietari dei terreni sono spinti a cambiarne la
destinazione verso impieghi più redditizi, sottraendoli agli
usi vantaggiosi per la comunità. La non neutralità fa
si che questo processo di sviluppo consumistico comporti un
arricchimento dei proprietari e delle categorie imprenditoriali a
scapito della parte restante della popolazione - soprattutto dei meno
abbienti: una vera e propria forma di esproprio. Inoltre, poiché
il fenomeno del gonfiamento dei valori fondiari - pilotato dalle
classi superiori - si diffonde anche fuori delle città, nelle
zone migliori dal punto di vista paesaggistico e climatico, si può
parlare di esproprio di qualità della vita; un'altra via per
illustrare come la città moderna - tracciata dall'economia e
dalla speculazione - si opponga alla vita. Una cultura antiurbana sta
oggi sviluppandosi ovunque. Un antesignano di tale cultura è
stato Gandhi. Il profeta della nonviolenza aveva intuito il
potenziale di sfruttamento - e quindi di violenza della città
nei confronti dei villaggi rurali - e ha sempre accordato favore a
questi ultimi. Indicava inoltre l'autosufficienza e l'autonomia come
garanzie contro le diverse forme di esproprio o sfruttamento. Diceva
persino che ciascuno, nei villaggi, dovrebbe essere spazzino dei
propri rifiuti, trasformandoli in concime per le coltivazioni.
Possono sembrare idee di altri tempi, ma se si pensa ad attuali
problemi, come l'inquinamento organico dell'Adriatico o lo
smaltimento dei rifiuti urbani - scaricati dalle grandi città
su zone esterne, perché di più basso valore economico -
i principi gandhiani non appaiono tanto remoti. Gandhi non era certo
un urbanista: era soltanto un saggio, un profondo conoscitore di
quell'essere insondabile, imprevedibile, che è l'uomo. Si è
limitato a indicare alcune esigenze umane che trovano possibilità
di essere soddisfatte più nel villaggio che nella città. Le esigenze dell'uomo. Oltre
a
non essere sfruttato, l'uomo, per crescere, ha bisogno di contare, di
essere artefice, di partecipare alle decisioni che lo riguardano.
Gandhi rifiutava il principio occidentale della democrazia
quantitativa, che non esclude la possibilità dello
sfruttamento delle minoranze da parte della maggioranza: la
democrazia non deve prescindere dalla giustizia. Si ha vera
democrazia solo quando vengano rispettati e resi partecipi anche i
più deboli ed emarginati, come i paria, che egli chiamava
"figli di Dio". Nel villaggio autonomo e tendenzialmente
autosufficiente è agevolata l'integrazione dei gruppi
marginali, bambini e anziani innanzitutto. Un'altra esigenza
dell'uomo è quella di fare, di agire, mentre la città,
accentrando e affidando a specialisti molte funzioni, spinge alla
dipendenza - ed è superfluo ricordare quanto dannoso possa
essere l'atteggiamento di dipendenza, specie nel terzo mondo, dove si
dovrebbe creare uno sviluppo autonomo.
Due obiezioni si potrebbero avanzare a
questo punto. Una prima di carattere storico: Gandhi è stato
glorificato, messo sugli altari, ma i suoi principi sono stati presto
abbandonati, a cominciare dalla classe politica indiana. Questo è
vero senza dubbio. Tuttavia l'attualità del suo pensiero,
specie nella presente "rivoluzione" ecologica, può
essere verificata dall'esperienza di chi, in India e altrove, vi si
ispira. In particolare, legata anche al nostro paese, opera in India
l'Assefa (1), cioè l'associazione che riunisce e promuove
villaggi rurali gandhiani. Formati in prevalenza da paria, che
abbandonano le abominevoli periferie urbane non appena si prospetta
la possibilità di coltivare autonomamente un terreno, questi
villaggi hanno avuto una notevole espansione (un migliaio in una
ventina d'anni), pur non perseguendo il successo quantitativo. La
loro esperienza conferma l'applicabilità e la validità
dei principi di Gandhi. Un'altra obiezione potrebbe essere: I
principi gandhiani valgono per l'India o per il terzo mondo, ma è
possibile applicarli nelle nostre città - tecnicizzate,
automatizzate, evolute? Bisogna "tornare indietro" nel
progresso e nell'economia?
Il pensiero urbanistico più
recente sembra
proprio aver riscoperto i principi del villaggio gandhiano:
opponendosi alla gerarchizzazione determinata dall'economia, va
teorizzando e sperimentando la riorganizzazione delle città
sulla base di unità rionali, ciascuna delle quali
tendenzialmente autosufficiente per i bisogni fondamentali (cibo ,
acqua, energia, rifiuti...). Le funzioni superiori devono invece
essere suddivise tra i diversi rioni o villaggi, senza privilegiare
le zone centrali, come ora. La rete dei collegamenti congiunge
esternamente i villaggi, i quali dovrebbero restare prevalentemente
pedonali, dotati di verde e di servizi che garantiscano l'incontro
della gente, l'integrazione dei piccoli e degli anziani. Anche nel
pensiero urbanistico rimangono quindi gli eterni valori della vita e
le profonde esigenze dell'uomo, indicati già da Gandhi.
Nonostante lo sviluppo e il progresso, "forse la funzione
primaria della città è ancora oggi quella di
subordinare la tecnologia ai fini dell'uomo, riducendo la velocità,
l'energia e la massificazione a valori che siano umanamente
assimilabili e valutabili". (L. MUMFORD, I1 futuro della città,
Il saggiatore, Milano 197l, p. 175).
1) L'Assefa (Associazione delle
fattorie Sarva Seva) è un'associazione che, dal 1969, opera
per lo sviluppo delle zone agricole ispirandosi al Sarvodaya. Alcuni
gruppi di sostegno sono presenti anche in Italia. La sede principale
è a Sanremo, in via Roma 104 (tel. 0184/501459).
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