Signora libertà e signorina anarchia di Cristina Valenti
Dalla lettura della quasi autobiografia di
Fabrizio De André emergono la figura e il ruolo di uno dei
cantautori che maggiormente ha inciso nella storia della nostra
cultura. Il rapporto profondo con l'anarchismo e gli anarchici,
"santi senza dio".
Fabrizio De André si è raccontato a
Cesare G. Romana, un giornalista amico di vecchia data, ed
ha accettato che il risultato dei loro colloqui diventasse un
libro, Amico fragile. La formula dell'autobiografia
"mediata", di un racconto cioè sollevato in qualche
modo dalla responsabilità diretta della narrazione in prima
persona, farebbe pensare ad una strategia scelta per aggirare il ben
noto riserbo nel quale il cantante ha sempre preferito avvolgere la
sua vita personale, ma anche la sua carriera artistica. Un riserbo
fatto di timidezza, certamente, come si è sempre detto e di
sostanziale disinteresse verso i rituali di accesso e di
consacrazione propri dello star system, ma ha anche sostenuto,
forse, da qualche altra ragione, come proveremo a dire. Il libro
è uscito al termine della tournée estiva di De André
e poco dopo il concerto napoletano organizzato a sostegno della
stampa anarchica (se ne veda il resoconto su "A" n. 186) .
La circostanza ci ha imposto una lettura incrociata. Per molti di
noi le canzoni di De André hanno rappresentato momenti di
presa di coscienza, ci hanno orientato nel labirinto
dell'intemperanza giovanile contribuendo a riempire di contenuti
duraturi quel ribellismo generazionale che negli anni '70 doveva
conoscere tante facce e tanti colori. Alcune sue canzoni sono
diventate vere e proprie bandiere, altre hanno accompagnato
riflessioni più intime, momenti di rivelazione personale. Non
era vero che le nostre poesie scopiazzavano De André, mi
trovai a spiegare da adolescente: le sue canzoni ci facevano
scoprire cose che già pensavamo, senza però che ce ne
fossimo realmente accorti. Confondendo l'entusiasmo dell'adesione
con l'ebrezza della scoperta, in quanti abbiamo trovato in De André
la lingua per tradurre e finalmente esprimere il grammelot
caotico e ribelle del nostro approccio al mondo adulto! A questo
percorso di conoscenza De André si mescolava e si sottraeva.
A differenza di quanti si imponevano anche personalmente come
modelli forti, nella vita, nella militanza, o semplicemente nella
moda e nel costume, De André non trasmetteva altro che
atmosfere musicali e parole in rima. Nessuna ragazza se ne
innamorava da lontano, come sarebbe stato frequente (o lo era già?)
per i divi del rock, o anche della musica leggera o del cinema. La
sua faccia non la si conosceva quasi. C'era una foto che era (o
almeno sembrava) sempre la stessa nelle copertine dei suoi primi
album, una foto di sbieco, il volto quasi indistinguibile dietro un
lungo ciuffo di capelli; più tardi i meglio informati
avrebbero spiegato che nascondeva un occhio dalla palpebra troppo
bassa. Nessuno si è mai vestito al modo di De André né
ha impugnato la chitarra come lui, semplicemente perché del
suo abbigliamento e della sua presenza scenica non c'erano immagini.
E non c'erano mai state. Una vera anomalia, se si pensa che i suoi
primi trentatré giri vendettero centinaia di migliaia di
copie, imponendosi al vertice delle classifiche in un mercato che
vedeva il dominio incontrastato dei quarantacinque giri. Ma
non è di questo che voglio parlare. Non è del modo
anomalo in cui Fabrizio De André conquistò il
mercato (o per meglio dire lo inventò, perché un
mercato della canzone d'autore non esisteva prima di lui in Italia).
L'anomalia che mi interessa è quella con cui si impose alle
persone, agli individui, prima che a un pubblico. Il pubblico è
venuto molto tempo dopo, coi primi (rari) concerti, ed era
costituito da un insieme di individui (non sempre il pubblico è
definibile in questo modo!): dall'insieme delle persone che già
lo conoscevano e si riconoscevano nelle sue canzoni, nel suo mondo
poetico, nei suoi bozzetti umani e sociali.
Da Dostoevskij a Brassens
È questa l'anomalia costitutiva della sua
carriera artistica, l'anomalia di una star senza volto, che non era
"di moda" eppure manteneva anche per più anni a
fila i suoi dischi ai primi posti delle classifiche di vendita, un
cantante che ha accompagnato la ribellione di un'intera generazione
(o di più di una) senza mai porsi come modello per scelte di
vita alternativa, senza mai offrire esempi, spunte, tracce da
seguire. Perché di lui si sapeva poco o nulla. Si parlava
della sua attività di chansonnier sulla scena alternativa
della Borsa di Arlecchino di Genova, e della sua predilezione un po'
randagia e maledetta per le storie di vita vera, popolate di figure
di balordi e di sconfitti: cose che era difficile fare proprie e che
sapevano di esistenzialismo un po' datato in anni in cui le scelte
politiche sembravano imporre ragioni primarie e impegni più
diretti; e d'altro canto i personaggi di cui raccontava non erano
immediatamente riconducibili alla sfera delle esperienze personali,
ma piuttosto si accampavano all'orizzonte di una vicenda umana in
qualche modo universale, e non per niente modellata da de André
a partire dalle suggestioni dei classici sui quali si era formato,
Dostoevskij, Maupassant, Flaubert, Balzac, ai quali aveva coniugato
i temi e le atmosfere di Brassens, di Brel, di Ferré. Allora
come leggere, alla luce di questa anomalia, l'autobiografia
indiretta (che ci aspetteremmo perciò meno fitta di
reticenze) di quello che è stato per decenni un mito
pressoché senza volto? Come dialogare con un fantasma che
finalmente sembra materializzarsi? Il bel libro di Cesare G.
Romana rivela le difficoltà di un'autobiografia né
mediata né indiretta ma piuttosto negata. Leggiamo questo
libro per trovarci le esperienze che hanno fatto da sfondo a
uno straordinario repertorio di canzoni, ma gli elementi più
utili alla comprensione non sono i dettagli di vita quanto piuttosto
i testi delle canzoni stesse, o meglio, gli album che giustamente
Cesare Romana presenta come opere compiute. Il libro ha una
strategia espositiva che si rivela ben presto piuttosto
pretestuosa. Inizia dal dicembre '79: il prigioniero dell'Hotel
Supramonte liberato dai prigionieri della riserva, pastori sardi
ovvero Sioux. Il riaffacciarsi al mondo e il poter ricordare di
nuovo, dopo mesi in cui era stato troppo doloroso farlo. Il racconto
di vita si impone così di procedere per tappe significative,
immagini forti, figure indelebili. E apparentemente non smentisce le
aspettative: la guerra, il padre partigiano, Genova, la
vita "zingara" della fanciullezza, gli studi, la scoperta
del sesso, i compagni di strada, le donne e gli uomini dei
"carruggi", poi la musica, gli amici cantautori, il lavoro
dell'artista e quindi la produzione discografica, i pochi concerti,
fino all'attuale mestiere di agricoltore. Ma il racconto non dà
affatto corpo al fantasma celato dietro le canzoni, piuttosto, sono
ancora le canzoni a gettare bagliori su una vita che, mentre sembra
svelarsi, resta ancor più segreta. E' nelle canzoni che
dobbiamo continuare a cercare il senso dell'esperienza umana, ed è
nelle canzoni che riposa l'ambiguità e insieme la trasparenza
della vita e delle azioni. Se è vero che alla fine della vita
appariranno nitide le immagini che hanno segnato le nostre
principali esperienze, il cammino dell'uomo bianco finalmente
verso la libertà doveva ripercorrere il passato per
sfumarlo nella lontananza e dare corpo al futuro. Così il
racconto procede come sul filo di una sistematica lacerazione: fra
una promessa "strutturale" di profondità (connessa
al modo in cui il libro è concepito) e la sua immancabile
negazione. De André inganna con generosa condiscendenza
l'intervistatore: regala pezzetti di vita piccanti, tratteggia
figure di irregolari, compagni di strada a volte maledetti a volte
semplicemente marginali, amori mercenari e ambigui, mascalzonate fra
il goliardico e il picaresco. Ci presenta personaggi che non
dimenticheremo per tutto quello che non viene detto di loro e che
vorremmo sapere per poterli sottrarre ad una ritrattistica un po'
imbalsamata:. il poeta cieco che muore suicida come i personaggi
della Ballata degli impiccati di cui è coautore,
l'amico Spugna che muore di cirrosi, le battone delle prime
esperienze amorose, da preferire per generosità e umanità
alle ragazze della sua classe sociale. Ma sono ritratti appena
abbozzati, che sembrano rivelare risvolti intimi e segreti, ma in
realtà si fermano sulla soglia della vita reale, dei dolori e
dei sentimenti. Niente di avvicinabile a certe figure delle sue
canzoni: il suonatore Jones, il Pescatore, il soldato Piero, il
carcerato Michè, il Malato di cuore, il Giudice, il Matto,
Bocca di Rosa, Marinella, La fanciulla che conosce l'amore e
l'inganno nella Leggenda di Natale, le puttane di Via del Campo,
Jamin-a, Franziska, il servo pastore, l'amico fragile. . . E
anche quando descrive le vicende e le storie che ha attraversato:
niente di paragonabile alla fierezza, allo sdegno, allo sguardo
raggelante e puro che sa gettare da poeta sul conformismo, sulla
piaggeria, sullo strapotere, sulla corruzione, sulla violenza e
sulla normalizzazione di un mondo in cui non si riconosce, ma che
non cessa per questo di dipingere con poesia, a tratti con alto
lirismo, per proiettarlo al di là dei "litri e litri di
corallo" che lo separano dalla sua Utopia. Quello che non
troviamo è la biografia dell'artista, il segreto e le fonti
della sua vena e delle sue tecniche, la materia di cui si compone il
suo mondo, che non può essere fatto solo di whisky, di
notti insonni, di amicizie marginali. C'è un passaggio che
resta segreto, e che è sovente il grande mistero dei processi
creativi: l'imbuto e la griglia attraverso i quali passano le
esperienze, le letture, le tecniche, le frequentazioni, gli appunti,
il fermento di rabbia, ispirazione, desideri, per farsi opera
d'arte, composizione musicale, poesia. Non è mai l'imbuto di
un alchimista: è tecnica, è lavoro, è tempo, è
fatica, sono condizioni a lungo preparate (con letture, conoscenze,
allenamento della sensibilità) e poi accese e consumate, come
una candela che ardendo consuma, ma trasforma la gravità
della materia nella consistenza lieve dell'arte. A volte il racconto
ci porta appena vicino a questa soglia misteriosa: quando muore
Tenco, e De André compone in una notte Amico fragile;
il periodo passato a comporre con De Gregori in una condizione di
particolare fervore produttivo; l'alternarsi di momenti di
concentrazione e altri di espansione creativa; i mesi passati solo a
lavorare i campi, a leggere nei giornali le notizie del mondo, senza
pensare alla musica, e quindi il momento in cui la scrittura si fa
necessaria. Ma di tutto questo non ci sono che brevi passaggi del
discorso, quasi sviste, fra un episodio e l'altro, nell'inganno di
raccontarci piuttosto i fatti, che sono notoriamente "più
interessanti".
Dove nascono i fiori
E c'è un'altra lacerazione fra quel che è
dichiarato e quel che è negato. I1 serbatoio produttivo di
idee, il mondo degli ideali, l'universo degli autori che lo hanno
ispirato, dai grandi classici della letteratura ai padri fondatori
dell'anarchismo, tutto questo viene esplicitato in più luoghi
[e si veda in particolare il brano "Santi senza Dio", che
pubblichiamo a margine a questo articolo] eppure mai tradotto in
pensiero sistematico: e non basta il vezzo della inorganicità
(dietro il quale l'artista ama celarsi, dopo che l'accusa gli fu
rivolta ai tempi della scuola) giacché in un altro dei rari
momenti in cui si addentra nei modi del processo creativo parla di
idee forti, senza le quali non riesce a comporre, attorno alle quali
deve ruotare e fondarsi ogni suo disco. E i suoi sono effettivamente
"concept album", come egli li definisce: dischi "che
mantengono le singole canzoni del tutto indipendenti l'una
dall'altra, ma le fanno ruotare attorno a [...] un concetto di base,
da sviscerare via via, da un brano all'altro". Dice a
proposito del suo ultimo album, Nuvole, in uno dei brani in
cui parla in prima persona: "Ho cercato di narrare aspetti e
protagonisti delle due realtà, il potere e il popolo,
evitando di raccontare me stesso e cioè trasformandomi in
interprete che sostiene dei ruoli, dà voce a personaggi
diversi. E questa è la novità di questo album che
tuttavia è venuto fuori più duro e teso, io credo,
degli altri, e che ho vissuto, anche nel cantarlo, con un'emozione e
magari un'angoscia diverse". E continua parlando della rabbia
"per questo mondo senza più rabbia" che "si
prepara a essere governato da un'unica potenza mondiale" un
mondo "dove la politica si è impadronita di qualsiasi
espressione umana" e dove "ci siamo noi artisti
- dice - che avremmo dovuto stimolarla di più, questa
protesta". Nuvole è esattamente questo: un album
(e uno spettacolo) pieno di rabbia e anche di emozione; e se ci si
pensa è proprio il connubio di questi due sentimenti che
spiega l'atteggiamento di "interprete" di De André,
il suo sostenere dei "ruoli", come scrive, il dare voce a
"personaggi diversi". Interprete "in senso pieno",
di personaggi da lui stesso creati, ai quali dà voce, per
raccontarne la storia, i sentimenti, i dolori. Ebbene, è
stata questa l'anomalia di tutta la produzione e la carriera
artistica di De André, a nostro parere, quell'anomalia che
abbiamo introdotto in apertura, parlando di una star senza volto:
che il volto non lo nascondeva solo per timidezza, ma per un
senso di coerenza e consapevolezza estreme verso il ruolo
dell'artista nei confronti dei contenuti che trasmette e
dell'orizzonte d'attesa che crea. Della sua "differenza"
costitutiva è De André stesso a fornire la
spiegazione, parlando del suo ultimo lavoro, ma andando in realtà
al cuore di quella che è stata da sempre la sua formula
creativa. In lui il suo pubblico di ieri e di oggi non ha trovato un
personaggio da mitizzare e nel quale annullarsi, ma ha incontrato
dei personaggi e delle storie, e quindi un intero mondo. Un mondo di
esclusi e di reietti, ma anche di eroi, o antieroi, e un universo di
sentimenti semplici e limpidi, di valori alti e nobili da cercare
però in mezzo a quello che la morale borghese chiamerebbe
"letame" e dal quale invece "nascono i fiori".
Gli atti di denuncia, le manifestazioni di rabbia e di disprezzo, ma
anche di calda e dolorosa partecipazione, De André ha saputo
incarnarli anch'essi in personaggi, in storie e in situazioni,
drammatizzandoli, potremmo dire, e per questo esponendoli in maniera
non sentenziosa né retorica, ma rivelandoli sull'onda e
dall'interno di un'esperienza. Così ci sembra di arrivare
a dipanare questo nodo dell'artista che non si è mai posto
come modello eppure ha trasmesso contenuti duraturi alle generazioni
che l'hanno voluto e saputo ascoltare: perché ha preferito
costruire un universo di personaggi ai quali dar voce per parlare
con afflato universale delle cose che intimamente, personalmente gli
premevano di più. Dice una cosa importante, a proposito della
sua vocazione di artista, delle ragioni prime che l'hanno fatto
cantautore impegnato: "ebbi abbastanza chiaro che il mio lavoro
doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale
che ancora non esiste, e l'illusione di poter partecipare, in
qualche modo, a un cambiamento del mondo"; poi subito nega,
almeno in parte - con l'atteggiamento che gli è tipico - la
solennità e l'autorità di questa affermazione: "la
seconda [illusione] si è sbriciolata presto, la prima
rimane". Parlando degli autori anarchici sui quali si è
formato, aveva usato, come abbiamo visto, la definizione di "santi
senza dio"; si riferiva in particolare a Errico Malatesta,
e come non condividere la sua definizione? I "santi senza
dio" dell'anarchismo sono uomini che si sono dedicati
totalmente a una causa, a un ideale, trovando il proprio fine
nell'uomo, nell'emancipazione dell'umanità e dei suoi valori.
Anche al mondo dell'arte l'anarchismo ha regalato santi senza dio.
Uno è stato certamente Julian Beck. Chissà, forse
offenderemo la sua ritrosia nel proporre lui stesso, Fabrizio De
André, come uno dei "santi senza dio"
dell'anarchismo.
Dove le utopie si fanno realtà
In un altro luogo, sempre a proposito della sua
prima vocazione, scrive: "Ma la musica fu anche una
necessità. In casa mia tutti si esprimevano in modo non
truccato, in assoluta coerenza con le scelte di ciascuno:
l'avvocatura, il management, la politica, l'insegnamento. Io non ero
capace di esprimermi a quei livelli, con quel misto di vocazione
genuina , si dice oggi, di professionalità. E così
scelsi la prestidigitazione [...]. E allora scoprii che, se prendevo
la chitarra, la suonavo meglio di tutti, e stupivo gli altri più
che con un tema in classe. Ed ero esonerato dai loro cerimoniali,
perché a un musicista nessuno rimprovera di essere un tipo
ruvido, chiuso in se stesso, o di mangiare con le mani. A un
avvocato o a un insegnante, sì". La musica come
necessità di espressione autentica, non truccata, e l'arte
come luogo in cui è possibile trasformare la realtà
("prestidigitazione") e darsi regole proprie, costruendo
un universo alternativo. E' la lezione dei grandi artisti
rivoluzionari: che partono da necessità personali per
indicare vie praticabili all'uomo e alla società, sognando e
tratteggiando un mondo in cui le utopie possono farsi realtà. E
questo è l'Epilogo, scritto da De André in
prima persona, all'Amico fragile: "Aspetterò
domani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà
e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza
dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza
civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà
del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate
utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così
breve esperienza libertaria di Kronstad, un episodio di fratellanza
e di egualitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor
Trotzki".
Santi senza dio
"Qualche mio collega sostiene che io sia un falso proletario. Proletario io? Né falso, né vero.
A parte che spesso mi sono trovato in bolletta, perché non c'è gusto migliore che spendere i
propri soldi, tutti
i propri soldi, per bagordare e viaggiare con gli amici. E d'altronde quella di proletario è pur sempre
un'etichetta, sicchè la rifiuterei in ogni caso, come tutte le
etichette che via via hanno provato ad appiccicarmi addosso - di comunista, di democristiano, di socialisya, di
borghese, perfino di fascista. Se sono, "più modestamente", un anarchico è perché
l'anarchia, prima ancora che un'appartenenza, è un modo
di essere. Lo ero, del resto, fin da bambino, quando preferivo giocare a biglie e, in anticipo sul mio mestiere
futuro, inventare parolacce, per strada, con una banda di compagni, piuttosto che stare in casa a fare il signorino
di buona famiglia - quale comunque ero, e quale sono rimasto per tanto tempo, vivendo sulla mia pelle la
drammatica schizofrenia di chi abita contemporaneamente da entrambi i lati della barricata Fu grazie a
Brassens che scoprii di essere un anarchico. Furono i suoi personaggi miserandi e marginale a
suscitarmi la voglia di saperne di più. Cominciai a leggere Bakunin, poi da Malatesta imparai che
gli anarchici sono dei santi senza Dio, dei miserabili
che aiutano chi è più miserabile più di loro. Santi senza Dio: partendo da questa
scoperta ho potuto permettermi
il lusso di parlare anche di Gesù Cristo, prima in "Si chiamava Gesù", poi in "La buona
novella", e oggi mi
viene il dubbio che anche lui non fosse che un anarchico convinto di essere Dio; o forse, questa convinzione,
gliel'hanno attribuita altri. Intanto, da Bakunin ero passato a Stirner, e da una visione collettivista ne scoprii
una più individualistica:
dopotutto ci vuole troppo tempo a trovare gente con la quale vivere le mie idee e così, me le vivo da
solo. Con
una sola regola da osservare, e la osservo proprio perché nessuno me l'ha imposta: anarchico non
è un
catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma, è uno stato d'animo, una categoria dello spirito. E
perciò
scandalizzatevi pure, se tante volte ho cantato alle feste dell'Unità, ma di rado sono andato
in televisione, se
firmo contratti discografici che d'altronde non rispetto, e se ho perfino votato per la DC: tra i suoi candidati,
in Sardegna, c'era un mio amico, una persona capace, quindi un pessimo politico. Che infatti non fu
eletto. "De André, il suo tema non è organico", mi diceva sempre, al liceo, il mio insegnante
d'italiano. Allora, ho
cercato di essere organico da adulto, nella coerenza di una ribellione che passa anche attraverso le proprie
viltà
e le proprie contraddizioni. Senza le quali, ecco l'organicità, un uomo non è un uomo, ma un
burocrate, o una
macchina, o un cinghiale laureato in fisica"
(Da Amico fragile. Fabrizio De André si racconta a Cesare G. Romana, Milano,
Sperling & Kupfer Editori,
pagg. 60-61)