Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 188
febbraio 1992


Rivista Anarchica Online

Signora libertà e signorina anarchia
di Cristina Valenti

Dalla lettura della quasi autobiografia di Fabrizio De André emergono la figura e il ruolo di uno dei cantautori che maggiormente ha inciso nella storia della nostra cultura.
Il rapporto profondo con l'anarchismo e gli anarchici, "santi senza dio".

Fabrizio De André si è raccontato a Cesare G. Romana, un giornalista amico di vecchia data, ed ha accettato che il risultato dei loro colloqui diventasse un libro, Amico fragile. La formula dell'autobiografia "mediata", di un racconto cioè sollevato in qualche modo dalla responsabilità diretta della narrazione in prima persona, farebbe pensare ad una strategia scelta per aggirare il ben noto riserbo nel quale il cantante ha sempre preferito avvolgere la sua vita personale, ma anche la sua carriera artistica. Un riserbo fatto di timidezza, certamente, come si è sempre detto e di sostanziale disinteresse verso i rituali di accesso e di consacrazione propri dello star system, ma ha anche sostenuto, forse, da qualche altra ragione, come proveremo a dire.
Il libro è uscito al termine della tournée estiva di De André e poco dopo il concerto napoletano organizzato a sostegno della stampa anarchica (se ne veda il resoconto su "A" n. 186) . La circostanza ci ha imposto una lettura incrociata.
Per molti di noi le canzoni di De André hanno rappresentato momenti di presa di coscienza, ci hanno orientato nel labirinto dell'intemperanza giovanile contribuendo a riempire di contenuti duraturi quel ribellismo generazionale che negli anni '70 doveva conoscere tante facce e tanti colori. Alcune sue canzoni sono diventate vere e proprie bandiere, altre hanno accompagnato riflessioni più intime, momenti di rivelazione personale. Non era vero che le nostre poesie scopiazzavano De André, mi trovai a spiegare da adolescente: le sue canzoni ci facevano scoprire cose che già pensavamo, senza però che ce ne fossimo realmente accorti. Confondendo l'entusiasmo dell'adesione con l'ebrezza della scoperta, in quanti abbiamo trovato in De André la lingua per tradurre e finalmente esprimere il grammelot caotico e ribelle del nostro approccio al mondo adulto!
A questo percorso di conoscenza De André si mescolava e si sottraeva. A differenza di quanti si imponevano anche personalmente come modelli forti, nella vita, nella militanza, o semplicemente nella moda e nel costume, De André non trasmetteva altro che atmosfere musicali e parole in rima. Nessuna ragazza se ne innamorava da lontano, come sarebbe stato frequente (o lo era già?) per i divi del rock, o anche della musica leggera o del cinema. La sua faccia non la si conosceva quasi. C'era una foto che era (o almeno sembrava) sempre la stessa nelle copertine dei suoi primi album, una foto di sbieco, il volto quasi indistinguibile dietro un lungo ciuffo di capelli; più tardi i meglio informati avrebbero spiegato che nascondeva un occhio dalla palpebra troppo bassa. Nessuno si è mai vestito al modo di De André né ha impugnato la chitarra come lui, semplicemente perché del suo abbigliamento e della sua presenza scenica non c'erano immagini. E non c'erano mai state. Una vera anomalia, se si pensa che i suoi primi trentatré giri vendettero centinaia di migliaia di copie, imponendosi al vertice delle classifiche in un mercato che vedeva il dominio incontrastato dei quarantacinque giri.
Ma non è di questo che voglio parlare. Non è del modo anomalo in cui Fabrizio De André conquistò il mercato (o per meglio dire lo inventò, perché un mercato della canzone d'autore non esisteva prima di lui in Italia). L'anomalia che mi interessa è quella con cui si impose alle persone, agli individui, prima che a un pubblico. Il pubblico è venuto molto tempo dopo, coi primi (rari) concerti, ed era costituito da un insieme di individui (non sempre il pubblico è definibile in questo modo!): dall'insieme delle persone che già lo conoscevano e si riconoscevano nelle sue canzoni, nel suo mondo poetico, nei suoi bozzetti umani e sociali.


Da Dostoevskij a Brassens

È questa l'anomalia costitutiva della sua carriera artistica, l'anomalia di una star senza volto, che non era "di moda" eppure manteneva anche per più anni a fila i suoi dischi ai primi posti delle classifiche di vendita, un cantante che ha accompagnato la ribellione di un'intera generazione (o di più di una) senza mai porsi come modello per scelte di vita alternativa, senza mai offrire esempi, spunte, tracce da seguire. Perché di lui si sapeva poco o nulla. Si parlava della sua attività di chansonnier sulla scena alternativa della Borsa di Arlecchino di Genova, e della sua predilezione un po' randagia e maledetta per le storie di vita vera, popolate di figure di balordi e di sconfitti: cose che era difficile fare proprie e che sapevano di esistenzialismo un po' datato in anni in cui le scelte politiche sembravano imporre ragioni primarie e impegni più diretti; e d'altro canto i personaggi di cui raccontava non erano immediatamente riconducibili alla sfera delle esperienze personali, ma piuttosto si accampavano all'orizzonte di una vicenda umana in qualche modo universale, e non per niente modellata da de André a partire dalle suggestioni dei classici sui quali si era formato, Dostoevskij, Maupassant, Flaubert, Balzac, ai quali aveva coniugato i temi e le atmosfere di Brassens, di Brel, di Ferré.
Allora come leggere, alla luce di questa anomalia, l'autobiografia indiretta (che ci aspetteremmo perciò meno fitta di reticenze) di quello che è stato per decenni un mito pressoché senza volto? Come dialogare con un fantasma che finalmente sembra materializzarsi?
Il bel libro di Cesare G. Romana rivela le difficoltà di un'autobiografia né mediata né indiretta ma piuttosto negata. Leggiamo questo libro per trovarci le esperienze che hanno fatto da sfondo a uno straordinario repertorio di canzoni, ma gli elementi più utili alla comprensione non sono i dettagli di vita quanto piuttosto i testi delle canzoni stesse, o meglio, gli album che giustamente Cesare Romana presenta come opere compiute. Il libro ha una strategia espositiva che si rivela ben presto piuttosto pretestuosa.
Inizia dal dicembre '79: il prigioniero dell'Hotel Supramonte liberato dai prigionieri della riserva, pastori sardi ovvero Sioux. Il riaffacciarsi al mondo e il poter ricordare di nuovo, dopo mesi in cui era stato troppo doloroso farlo. Il racconto di vita si impone così di procedere per tappe significative, immagini forti, figure indelebili. E apparentemente non smentisce le aspettative: la guerra, il padre partigiano, Genova, la vita "zingara" della fanciullezza, gli studi, la scoperta del sesso, i compagni di strada, le donne e gli uomini dei "carruggi", poi la musica, gli amici cantautori, il lavoro dell'artista e quindi la produzione discografica, i pochi concerti, fino all'attuale mestiere di agricoltore. Ma il racconto non dà affatto corpo al fantasma celato dietro le canzoni, piuttosto, sono ancora le canzoni a gettare bagliori su una vita che, mentre sembra svelarsi, resta ancor più segreta. E' nelle canzoni che dobbiamo continuare a cercare il senso dell'esperienza umana, ed è nelle canzoni che riposa l'ambiguità e insieme la trasparenza della vita e delle azioni. Se è vero che alla fine della vita appariranno nitide le immagini che hanno segnato le nostre principali esperienze, il cammino dell'uomo bianco finalmente verso la libertà doveva ripercorrere il passato per sfumarlo nella lontananza e dare corpo al futuro. Così il racconto procede come sul filo di una sistematica lacerazione: fra una promessa "strutturale" di profondità (connessa al modo in cui il libro è concepito) e la sua immancabile negazione. De André inganna con generosa condiscendenza l'intervistatore: regala pezzetti di vita piccanti, tratteggia figure di irregolari, compagni di strada a volte maledetti a volte semplicemente marginali, amori mercenari e ambigui, mascalzonate fra il goliardico e il picaresco. Ci presenta personaggi che non dimenticheremo per tutto quello che non viene detto di loro e che vorremmo sapere per poterli sottrarre ad una ritrattistica un po' imbalsamata:. il poeta cieco che muore suicida come i personaggi della Ballata degli impiccati di cui è coautore, l'amico Spugna che muore di cirrosi, le battone delle prime esperienze amorose, da preferire per generosità e umanità alle ragazze della sua classe sociale. Ma sono ritratti appena abbozzati, che sembrano rivelare risvolti intimi e segreti, ma in realtà si fermano sulla soglia della vita reale, dei dolori e dei sentimenti. Niente di avvicinabile a certe figure delle sue canzoni: il suonatore Jones, il Pescatore, il soldato Piero, il carcerato Michè, il Malato di cuore, il Giudice, il Matto, Bocca di Rosa, Marinella, La fanciulla che conosce l'amore e l'inganno nella Leggenda di Natale, le puttane di Via del Campo, Jamin-a, Franziska, il servo pastore, l'amico fragile. . .
E anche quando descrive le vicende e le storie che ha attraversato: niente di paragonabile alla fierezza, allo sdegno, allo sguardo raggelante e puro che sa gettare da poeta sul conformismo, sulla piaggeria, sullo strapotere, sulla corruzione, sulla violenza e sulla normalizzazione di un mondo in cui non si riconosce, ma che non cessa per questo di dipingere con poesia, a tratti con alto lirismo, per proiettarlo al di là dei "litri e litri di corallo" che lo separano dalla sua Utopia.
Quello che non troviamo è la biografia dell'artista, il segreto e le fonti della sua vena e delle sue tecniche, la materia di cui si compone il suo mondo, che non può essere fatto solo di whisky, di notti insonni, di amicizie marginali. C'è un passaggio che resta segreto, e che è sovente il grande mistero dei processi creativi: l'imbuto e la griglia attraverso i quali passano le esperienze, le letture, le tecniche, le frequentazioni, gli appunti, il fermento di rabbia, ispirazione, desideri, per farsi opera d'arte, composizione musicale, poesia. Non è mai l'imbuto di un alchimista: è tecnica, è lavoro, è tempo, è fatica, sono condizioni a lungo preparate (con letture, conoscenze, allenamento della sensibilità) e poi accese e consumate, come una candela che ardendo consuma, ma trasforma la gravità della materia nella consistenza lieve dell'arte. A volte il racconto ci porta appena vicino a questa soglia misteriosa: quando muore Tenco, e De André compone in una notte Amico fragile; il periodo passato a comporre con De Gregori in una condizione di particolare fervore produttivo; l'alternarsi di momenti di concentrazione e altri di espansione creativa; i mesi passati solo a lavorare i campi, a leggere nei giornali le notizie del mondo, senza pensare alla musica, e quindi il momento in cui la scrittura si fa necessaria. Ma di tutto questo non ci sono che brevi passaggi del discorso, quasi sviste, fra un episodio e l'altro, nell'inganno di raccontarci piuttosto i fatti, che sono notoriamente "più interessanti".

Dove nascono i fiori

E c'è un'altra lacerazione fra quel che è dichiarato e quel che è negato. I1 serbatoio produttivo di idee, il mondo degli ideali, l'universo degli autori che lo hanno ispirato, dai grandi classici della letteratura ai padri fondatori dell'anarchismo, tutto questo viene esplicitato in più luoghi [e si veda in particolare il brano "Santi senza Dio", che pubblichiamo a margine a questo articolo] eppure mai tradotto in pensiero sistematico: e non basta il vezzo della inorganicità (dietro il quale l'artista ama celarsi, dopo che l'accusa gli fu rivolta ai tempi della scuola) giacché in un altro dei rari momenti in cui si addentra nei modi del processo creativo parla di idee forti, senza le quali non riesce a comporre, attorno alle quali deve ruotare e fondarsi ogni suo disco. E i suoi sono effettivamente "concept album", come egli li definisce: dischi "che mantengono le singole canzoni del tutto indipendenti l'una dall'altra, ma le fanno ruotare attorno a [...] un concetto di base, da sviscerare via via, da un brano all'altro".
Dice a proposito del suo ultimo album, Nuvole, in uno dei brani in cui parla in prima persona: "Ho cercato di narrare aspetti e protagonisti delle due realtà, il potere e il popolo, evitando di raccontare me stesso e cioè trasformandomi in interprete che sostiene dei ruoli, dà voce a personaggi diversi. E questa è la novità di questo album che tuttavia è venuto fuori più duro e teso, io credo, degli altri, e che ho vissuto, anche nel cantarlo, con un'emozione e magari un'angoscia diverse". E continua parlando della rabbia "per questo mondo senza più rabbia" che "si prepara a essere governato da un'unica potenza mondiale" un mondo "dove la politica si è impadronita di qualsiasi espressione umana" e dove "ci siamo noi artisti - dice - che avremmo dovuto stimolarla di più, questa protesta". Nuvole è esattamente questo: un album (e uno spettacolo) pieno di rabbia e anche di emozione; e se ci si pensa è proprio il connubio di questi due sentimenti che spiega l'atteggiamento di "interprete" di De André, il suo sostenere dei "ruoli", come scrive, il dare voce a "personaggi diversi". Interprete "in senso pieno", di personaggi da lui stesso creati, ai quali dà voce, per raccontarne la storia, i sentimenti, i dolori.
Ebbene, è stata questa l'anomalia di tutta la produzione e la carriera artistica di De André, a nostro parere, quell'anomalia che abbiamo introdotto in apertura, parlando di una star senza volto: che il volto non lo nascondeva solo per timidezza, ma per un senso di coerenza e consapevolezza estreme verso il ruolo dell'artista nei confronti dei contenuti che trasmette e dell'orizzonte d'attesa che crea.
Della sua "differenza" costitutiva è De André stesso a fornire la spiegazione, parlando del suo ultimo lavoro, ma andando in realtà al cuore di quella che è stata da sempre la sua formula creativa. In lui il suo pubblico di ieri e di oggi non ha trovato un personaggio da mitizzare e nel quale annullarsi, ma ha incontrato dei personaggi e delle storie, e quindi un intero mondo. Un mondo di esclusi e di reietti, ma anche di eroi, o antieroi, e un universo di sentimenti semplici e limpidi, di valori alti e nobili da cercare però in mezzo a quello che la morale borghese chiamerebbe "letame" e dal quale invece "nascono i fiori". Gli atti di denuncia, le manifestazioni di rabbia e di disprezzo, ma anche di calda e dolorosa partecipazione, De André ha saputo incarnarli anch'essi in personaggi, in storie e in situazioni, drammatizzandoli, potremmo dire, e per questo esponendoli in maniera non sentenziosa né retorica, ma rivelandoli sull'onda e dall'interno di un'esperienza.
Così ci sembra di arrivare a dipanare questo nodo dell'artista che non si è mai posto come modello eppure ha trasmesso contenuti duraturi alle generazioni che l'hanno voluto e saputo ascoltare: perché ha preferito costruire un universo di personaggi ai quali dar voce per parlare con afflato universale delle cose che intimamente, personalmente gli premevano di più. Dice una cosa importante, a proposito della sua vocazione di artista, delle ragioni prime che l'hanno fatto cantautore impegnato: "ebbi abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo"; poi subito nega, almeno in parte - con l'atteggiamento che gli è tipico - la solennità e l'autorità di questa affermazione: "la seconda [illusione] si è sbriciolata presto, la prima rimane". Parlando degli autori anarchici sui quali si è formato, aveva usato, come abbiamo visto, la definizione di "santi senza dio"; si riferiva in particolare a Errico Malatesta, e come non condividere la sua definizione? I "santi senza dio" dell'anarchismo sono uomini che si sono dedicati totalmente a una causa, a un ideale, trovando il proprio fine nell'uomo, nell'emancipazione dell'umanità e dei suoi valori. Anche al mondo dell'arte l'anarchismo ha regalato santi senza dio. Uno è stato certamente Julian Beck. Chissà, forse offenderemo la sua ritrosia nel proporre lui stesso, Fabrizio De André, come uno dei "santi senza dio" dell'anarchismo.

Dove le utopie si fanno realtà

In un altro luogo, sempre a proposito della sua prima vocazione, scrive: "Ma la musica fu anche una necessità. In casa mia tutti si esprimevano in modo non truccato, in assoluta coerenza con le scelte di ciascuno: l'avvocatura, il management, la politica, l'insegnamento. Io non ero capace di esprimermi a quei livelli, con quel misto di vocazione genuina , si dice oggi, di professionalità. E così scelsi la prestidigitazione [...]. E allora scoprii che, se prendevo la chitarra, la suonavo meglio di tutti, e stupivo gli altri più che con un tema in classe. Ed ero esonerato dai loro cerimoniali, perché a un musicista nessuno rimprovera di essere un tipo ruvido, chiuso in se stesso, o di mangiare con le mani. A un avvocato o a un insegnante, sì". La musica come necessità di espressione autentica, non truccata, e l'arte come luogo in cui è possibile trasformare la realtà ("prestidigitazione") e darsi regole proprie, costruendo un universo alternativo. E' la lezione dei grandi artisti rivoluzionari: che partono da necessità personali per indicare vie praticabili all'uomo e alla società, sognando e tratteggiando un mondo in cui le utopie possono farsi realtà.
E questo è l'Epilogo, scritto da De André in prima persona, all'Amico fragile: "Aspetterò domani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così breve esperienza libertaria di Kronstad, un episodio di fratellanza e di egualitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor Trotzki".

 

Santi senza dio

"Qualche mio collega sostiene che io sia un falso proletario. Proletario io? Né falso, né vero. A parte che spesso mi sono trovato in bolletta, perché non c'è gusto migliore che spendere i propri soldi, tutti i propri soldi, per bagordare e viaggiare con gli amici.
E d'altronde quella di proletario è pur sempre un'etichetta, sicchè la rifiuterei in ogni caso, come tutte le etichette che via via hanno provato ad appiccicarmi addosso - di comunista, di democristiano, di socialisya, di borghese, perfino di fascista.
Se sono, "più modestamente", un anarchico è perché l'anarchia, prima ancora che un'appartenenza, è un modo di essere. Lo ero, del resto, fin da bambino, quando preferivo giocare a biglie e, in anticipo sul mio mestiere futuro, inventare parolacce, per strada, con una banda di compagni, piuttosto che stare in casa a fare il signorino di buona famiglia - quale comunque ero, e quale sono rimasto per tanto tempo, vivendo sulla mia pelle la drammatica schizofrenia di chi abita contemporaneamente da entrambi i lati della barricata
Fu grazie a Brassens che scoprii di essere un anarchico. Furono i suoi personaggi miserandi e marginale a suscitarmi la voglia di saperne di più.
Cominciai a leggere Bakunin, poi da Malatesta imparai che gli anarchici sono dei santi senza Dio, dei miserabili che aiutano chi è più miserabile più di loro. Santi senza Dio: partendo da questa scoperta ho potuto permettermi il lusso di parlare anche di Gesù Cristo, prima in "Si chiamava Gesù", poi in "La buona novella", e oggi mi viene il dubbio che anche lui non fosse che un anarchico convinto di essere Dio; o forse, questa convinzione, gliel'hanno attribuita altri.
Intanto, da Bakunin ero passato a Stirner, e da una visione collettivista ne scoprii una più individualistica: dopotutto ci vuole troppo tempo a trovare gente con la quale vivere le mie idee e così, me le vivo da solo. Con una sola regola da osservare, e la osservo proprio perché nessuno me l'ha imposta: anarchico non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma, è uno stato d'animo, una categoria dello spirito. E perciò scandalizzatevi pure, se tante volte ho cantato alle feste dell'Unità, ma di rado sono andato in televisione, se firmo contratti discografici che d'altronde non rispetto, e se ho perfino votato per la DC: tra i suoi candidati, in Sardegna, c'era un mio amico, una persona capace, quindi un pessimo politico. Che infatti non fu eletto.
"De André, il suo tema non è organico", mi diceva sempre, al liceo, il mio insegnante d'italiano. Allora, ho cercato di essere organico da adulto, nella coerenza di una ribellione che passa anche attraverso le proprie viltà e le proprie contraddizioni. Senza le quali, ecco l'organicità, un uomo non è un uomo, ma un burocrate, o una macchina, o un cinghiale laureato in fisica"

(Da Amico fragile. Fabrizio De André si racconta a Cesare G. Romana, Milano, Sperling & Kupfer Editori, pagg. 60-61)