Rivista Anarchica Online
Dopo il 18 aprile
Il significato di un «referendum», come di ogni altra forma di competizione elettorale nella
società
contemporanea, si riduce a quello di una forma particolare di «sondaggio di opinione», finalizzato a valutare
il livello di acquiescienza collettiva e della disponibilità ad assecondare un progetto di
autoristrutturazione del
potere, o ad una richiesta di complicità volta all'ottenimento di un avallo istituzionalizzante ad una
trasformazione voluta e, di fatto, già realizzata. Stando agli altisonanti titoli dei grandi quotidiani,
al tono enfaticamente compiaciuto dei commenti ed agli
accenti trionfalistici di tanti politicanti, il 18 aprile 1993 si configura come la data storica di una vittoriosa
«rivoluzione», attraverso la quale, per dirla col direttore di «Repubblica»: Il paese ha ritrovato in un voto
quasi
plebiscitario le ragioni della sua unità; il «si» ha superato tutti gli steccati, quelli geografici, quelli
sociali e
quelli di fedeltà ai partiti; esso è diventato l'elemento fondante di una nuova
nazione. Ci sarebbe di che ridere; se non fosse che, dietro tanta retorica, c'è un pizzico di,
poco rassicurante, verità e
l'esito referendario può venire considerato come la consacrazione plebiscitaria del punto di arrivo di
quel
fenomeno di appiattimento delle coscienze e di omologazione delle mentalità, dei comportamenti e delle
aspirazioni in cui, già vent'anni fa, la sensibilità di un poeta e scrittore, Pier Paolo Pasolini,
vedeva il trionfo
della «prima, vera rivoluzione di destra». È un fatto che il solo quesito dove l'esito
sia stato fino all'ultimo incerto è stato quello relativo ad una, seppur
modesta, attenuazione del fanatismo punitivistico nei confronti dei consumatori di droghe. Mentre calorosi
consensi ed una quasi unanimità ha ottenuto la risibile tesi secondo cui la via maestra per
cambiare in meglio la realtà italiana consisterebbe nell'adozione di una legge elettorale che assicuri un
più
agevole esercizio del potere ai governanti. Se considerato come una verifica dell'attuale atteggiamento
psicologico di massa, l'esito referendario è
estremamente sconsolante. Esso, infatti, è sintomatico di una, ampiamente diffusa, disposizione
a desiderare di assoggettarsi a forme ancor
più autoritarie di esercizio del potere, in nome dell'aspirazione ad una illusoria maggiore
stabilità e sicurezza,
nonché di un preteso recupero di moralità, che deriverebbero da un regime politico di
«alternanza nella
continuità». Sul piano pratico delle conseguenze dell'esito referendario nella determinazione del
futuro scenario socio-politico in Italia, invece, esse potrebbero anche rivelarsi potenzialmente positive e
contribuire alla comparsa
di condizioni molto propizie ad un efficace rilancio del pensiero libertario, la sua diffusione e la rivitalizzazione
di un Movimento anarchico in grado di esercitare una autentica influenza nella realtà sociale. Pur
non potendosi, allo stato attuale, escludere altre ipotesi (compresa quella, meno oggettivamente assurda oggi
di quando, anni fa, veniva data per una minaccia incombente, di tentazioni dittatoriali in chiave militar-golpista)
la previsione più attendibile è quella che si vada verso un sistema politico mutuato dal modello
nordamericano.
In pratica, secondo la definizione datane da Noam Chomsky, ad «un sistema a partito
unico, diviso in due
fazioni controllate da segmenti diversi e mutevoli del potere economico». La prima
conseguenza logica non potrebbe essere che la progressiva estinzione dei partiti tradizionali a base
ideologica e la loro metamorfosi in componenti, intercambiabili e fluttuanti, di coalizioni contingenti, contrattate
in funzione dei periodici allestimenti di «showgames» elettorali, affidati alla gestione di esperti professionali
delle tecniche pubblicitarie e delle regole dello spettacolo mediale. Quanto al destino riservato ai resti di
decomposizione dei partiti minoritari più ideologicizzati, frustrati nella
loro ambizione di poter arrivare ad esercitare un ruolo di mediazione istituzionale in ambito parlamentare, non
potrà che essere quello di frantumarsi ulteriormente, fino a ridursi a piccole «sette esoteriche» di fedeli
custodi
del «fuoco sacro» dell'ortodossia verso ideologie diventate obsolete. È
verosimilmente lecito prevedere che si assisterà ad una sempre maggiore diffusione di atteggiamenti
qualunquistici e di disinteresse per tutto ciò che sa di politica. Ma anche che la caduta di ogni illusione
elettoralistica e il crollo del mito della rappresentatività e della delega parlamentare spingeranno le
minoranze
dissidenti, emarginate o sottogarantite (la somma di diverse «minoranze» può essere una
«maggioranza» della
popolazione), i disoccupati o sottocupati, tutti coloro che sono o saranno penalizzati dalle leggi del profitto, del
«mercato», della speculazione e dello sfruttamento, verso la scoperta di forme di autonomia organizzativa,
metodi di azione diretta, pratiche di associazione temporanea per affrontare e risolvere specifici problemi e
particolari situazioni, che escono dagli schemi e dalla logica istituzionali, per riallacciarsi, magari
inconsapevolmente, alla tradizione storica delle idee e dei movimenti libertari. La più convincente
prova della inesauribile vitalità dell'anarchismo non va cercata nella «longevità» di qualche
giornale o nella perseveranza con cui dei militanti tenaci riescono, anche nei momenti più bui, a far
sopravvivere
dei «gruppi», dei «circoli» o delle «federazioni», quanto nella puntuale riapparizione spontanea di indirizzi
e
metodi di azione intrinsecamente libertari, non appena compaiono situazioni storico-sociali idonee a far
emergere l'esigenza di soluzioni antiautoritarie alle contraddizioni della società costituita. Molti fattori
contribuiscono oggi a determinare le precondizioni perchè tali situazioni possano molto presto
ripresentarsi. E,
se una ipotesi del genere dovesse rivelarsi fondata, si pone per gli anarchici l'esigenza di non esserne impreparati
al punto di non accorgersene neppure (o di essere tra gli ultimi a cornprenderlo) perché troppo impegnati
in
annose e stantie polemiche intestine per diatribe che hanno fatto il loro tempo o a discettare, in chiave
dietrologica e con «sagacia» degna di miglior causa, attorno a pseudoproblemi rniticizzati dai «media» come
«Mafia», «Gladio», «P2» o «Tangentopoli».
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
|