Rivista Anarchica Online
Un tram chiamato metafora
di Francesco Ranci
La prima pagina del «Corriere della sera» (11/10/93), a mo' di aggiunta
commentativa delle volubili dimissioni
del Ministro Paolo Savona, proponeva un cautelosamente beneagurante «si cerca ancora di sanare la frattura».
In un altro titolo sulla stessa vicenda, spostando la focalizzazione su un contesto politico più ampio del
triangolo
Savona-Prodi-Ciampi (per la cronaca, tirando in ballo una contrapposizione Lega-Segni, e un fronte DC-PDS
schierato con quest'ultimo in appoggio a Prodi, e riproponendo così la contrapposizione Lega e PRI
contro tutti,
già caldeggiata dal settimanale «The Economist» prima delle elezioni dello scorso aprile evidentemente
in
funzione di un trasferimento di voti al PRI, di cui lo stesso Savona fa parte), riclassificava la vicenda come «una
mina sulla strada di Ciampi». Se la frattura, per essere sanata, esige una pronta ingessatura, la mina
dev'essere disinnescata - e quindi
potremmo dire che in entrambi i casi si richiede una attività specialistica (al di fuori della portata per
la maggior
parte di noi) e da svolgere su un soggetto passivo (ancorché la mina possa fare qualche brutto scherzo)
-, ma
la mina, a differenza della frattura, non fa parte del corpo di cui minaccia l'integrità, per cui basta levarla
di
mezzo. Ecco perché al verbo «sanare» il Corrierone sostituisce la localizzazione «strada», da lasciarsi
alle spalle
- ma assegnata a «Ciampi» (da cui si può sempre prendere le distanze, magari proprio cambiando
strada) -
barcamenandosi fra coerenza e incoerenza, fra detto e non detto, fra freddo sguardo e calda partecipazione.
Orbene, e se la vicenda fosse stata paragonata al classico «granello di sabbia negli ingranaggi del Potere»?
E perché non, invece, al non meno classico «fulmine a ciel sereno»? Dipende, in breve, anzitutto
da dove vuole
andare a parare l'argomentazione di chi parla, poi dalla cultura di cui egli può eventualmente usufruire,
e infine
dalla qualità degli interlocutori che crede di aver di fronte (in base alla quale selezionerà il
rapporto da far loro
istituire per esempio, fra dimissioni di un Ministro, da un lato, e fratture o campi minati dall'altro). A questo
punto, però, ci potremmo chiedere se fra due medici che discutono della sanatura di un osso rotto, o
fra due artificieri alle prese con un ordigno, potrebbe saltar fuori uno che paragoni la situazione al problema
delle dimissioni di un Ministro dell'Industria, o, più genericamente, alla decisione volontaria di
qualcuno. Ci
potremmo chiedere, in altri termini, quali siano i rapporti fra i diversi ambiti di conoscenza. Si tratta del
problema che Charles P. Snow ha battezzato, con il suo famoso saggio del 1959, come problema
delle «due culture», ma che si può ritrovare nella nascita della filosofia (nell'antica Grecia, infatti, al
sapere dei
«phisiologoi» si sovrapposero i più ambiziosi «philosophoi»), così come si ritrova nell'irrisolta
disputa
ottocentesca - viva soprattutto in Germania - fra «scienza naturale» e «scienza culturale»
(«Naturwissenschaften» e «Kultur» o «Geistwissenschaften», da cui nasce, infatti, l'ibrida «psicologia»), e si
ritrova anche nelle presunte differenze di metodo fra discipline naturalistiche come «fisica» e «biologia» (divise
da un preteso quanto misterioso iato fra «vivente» e «non-vivente» filosoficamente attribuito alle
«cose-in-sé»),
problema preso a modello di tutti i teorici della «comunicazione impossibile» fra «specialisti» - per rimanere
al nostro esempio, il problema di sanare una frattura e quello di disinnescare una mina potrebbero sembrare
metodologicamente altrettanto distanti tra loro che con il problema di cosa fare delle dimissioni di un Ministro,
se si rimane nel vago a proposito dei criteri che presiedono alla soluzione dei tre problemi - e non si fa caso al
fatto che nell'ultimo caso bisogna ancora scegliere fra ricontrattazione e scissione, per poi poter ricorrere alle
relative tecniche legittimate per raggiungere lo scopo, come, rispettivamente, si fa negli altri due casi. Se
il tema si ripresenta, vuoi in termini sorprendenti per la loro stupidità (come nell'esempio di poc'anzi:
perché
mai un bravo medico, o un bravo artificiere, dovrebbero chiedere aiuto ad un bravo intrallazzone come Ciampi?
E perché mai, viceversa, la situazione politica dovrebbe risultare chiarita da analogie strampalate e
discordanti
come queste?), vuoi in termini sorprendenti per la loro iper-sclerotica resistenza (siamo davvero sempre
lì, come
asini di Buridano, tra «uomo-mondo», o «mente-corpo», o «mente-cervello», o «scienze sociali-scienze
naturali»? C'è sempre, come diceva Geymonat nella prefazione all'edizione italiana del libro di Snow
(1963)
un «muro di incomprensione» tra culture «letterario-umanistica» e «scientifico-tecnica» di cui «nessuno
può
essere, oggi, così cieco da non rendersi conto», e da considerare ovviamente un «grave motivo di crisi
della
nostra civiltà», perché «più profondo - nonostante fosse un muro (ndr) - e nefasto di
ogni altra suddivisione?»,
è legittimo presumere che ci sia sotto un qualche interesse a non risolverlo. E, come in tanti altri casi,
un
privilegio di qualcuno che ci campa, perché, poi, i «muri» si moltiplicano copiosamente (basta uno
sguardo a
come sono ridotte le cosiddette «Università», e i cosiddetti «Centri di Ricerca», veri e propri labirinti
con porte
che si aprono e si chiudono per scopi da sempre innominabili). Rivediamo, allora, questo problema, e un
timido soccorso può esserci portato da un recente studio di I. Bernard
Cohen (Scienze naturali e scienze sociali, Laterza, 1993), se non altro perché raccoglie
tutta una serie di esempi
di come i risultati delle scienze naturali siano stati, nel corso dei secoli, utilizzati a fini di persuasione politica,
tramite le cosiddette «scienze sociali», e, sempre se non altro, che altro in effetti non vedo, perché ha
il merito
di porsi il problema in termini metodologici: chiedendosi, ad esempio, come distinguere una analogia da una
metafora, quando una analogia può essere considerata utile e quando dannosa. Per esempio, una
metafora può anche nascondere una contraddizione, per esempio, e si tratta di un esempio
decisivo per la nostra argomentazione: come fa notare Richard Rorty, quando si parla della «conoscenza»
considerandola come una collezione di immagini riflesse nella mente, omologandola ad uno specchio, ed
è il
caso di molti filosofi, si dimentica che il riflesso di uno specchio deve essere percepito, come qualsiasi altra
cosa. La contraddizione sta nel fatto che, come ha ben spiegato Silvio Ceccato, per spiegare la percezione di
una qualsiasi cosa si adotta uno schema che prevede già la percezione di almeno due cose; manca,
perciò,
quell'elemento comune di base, fra la situazione presa a modello (l'immagine riflessa nello specchio) e la
situazione da modellare (il guardare qualcosa), che, solo, può legittimare la metafora. E tuttavia,
considerando anche la situazione da modellare degli stessi termini che abbiamo denunciato prima -
e, cioè, non il percepire, ma uno di noi che percepisce, assumendo in perfetta autocontraddizione che
quel
rapporto che noi poniamo fra lui e la tal cosa possa rappresentare la sua attività percettiva, e
implicitamente la
nostra visto che ci consideriamo uguali -, la metafora diventa pienamente legittima, e nasconde ancor meglio
della descrizione in termini propri la nostra contraddizione. Dicevamo dell'importanza di questo esempio:
se l'analisi di Ceccato è corretta, infatti, si può trovare in essa la
miglior spiegazione della dicotomi a fra scienza naturale (che mette in rapporto più cose già
percepite, le ordina
e classifica, appresta strumenti ad hoc) e scienza culturale (che si occupa dei nostri precetti e categorie, e di
come gli diamo una espressione linguistica e corporea). Due modi di studiare, quindi, e non si vede
perché
riservare l'oggetto «uomo» ad una e non all'altra, dato che entrambe possono dare un loro contributo, e che non
solo potrebbero dialogare, ma già lo fanno, dato che ogni scienziato può occuparsi sia di come
percepiamo e
sia di come mettiamo in rapporto le cose (anche se il primo oggetto è ovviamente sacrificato rispetto
al secondo,
perché non ha la stessa utilità pratica ed è assai più difficile da isolare proprio
come oggetto di studio). Da Snow a Cohen, comunque, si nota un bel salto. Come dalla dichiarazione di
aver di fronte un muro all'inizio
della sua demolizione, frase per frase essendo un muro di parole. Lo sviluppo tecnologico ha sicuramente
contribuito al diffondersi di una maggior consapevolezza. Nel momento in cui si è iniziato ad
attribuire ai computer una «memoria» e una «intelligenza», perché si è
riusciti a fargli svolgere attività come le quattro operazioni dell'aritmetica e qualcuna di più,
la correzione
ortografica e qualche correzione grammaticale, si è preso a modello l'uomo, che prima era l'unico a
ottenere quei
risultati. Allora, si è pensato che quelle macchine, per ottenere quei risultati, funzionassero
così come funziona il
cervello, e annessi e connessi, dell'uomo dimenticando che era pur sempre l'uomo a programmare le macchine,
e non certo sulla base di una auto-analisi. Ma di fronte ai tanti smacchi subiti, peraltro ancora oggi, da
coloro che hanno proposto il computer a modello
per comprendere l'uomo, rovesciando l'analogia grazie alla quale li si era chiamati «cervelli elettronici», ci si
è resi conto, da parte di alcuni perlomeno, che allo stesso risultato si può giungere per vie
diverse, e che quindi,
per stabilire analogie fra macchine, animali, e uomini, non basta guardare ai risultati ottenuti, e bisogna
guardare, invece, anche alle vie seguite per ottenerli. Soprattutto, si è compreso che le procedure di
modellizzazione, comprese le eventuali analogie e metafore, possono essere giudicate solo riconducendole ai
criteri e agli scopi che ad esse presiedono. Si potrebbe dire, per concludere, che le due metafore utilizzate
dal Corsera per rappresentare la «protesta» del
Ministro Savona, rispondono allo scopo di mantenere, come si suol dire, il «piede in due scarpe», oltre che allo
scopo di esautorare il lettore da una analisi in termini propri e non metaforici, e infine, allo scopo di imporre
uno schema indebitamente avvalorato dalla credibilità altrui. Ma, ovviamente, nulla vieterebbe analisi
più
raffinate (per esempio, la metafora della «mina» potrebbe rimandare al problema costituito dalla Lega, ma
potrebbe anche segnalare una certa inquietudine per l'atteggiamento incerto di «Mino» Martinazzoli ... e,
soprattutto, la metafora di provenienza bellica fa parte, purtroppo, del repertorio giornalistico più
inveterato -
si potrebbe, infatti, anche obiettare che, ormai, espressioni come «mina» o «frattura» non abbiano in casi come
questo alcun intento metaforico, così come nel linguaggio di tutti i giorni parliamo in modo proprio di
«gambe
della seggiola» o di «piedi della montagna», senza cioè effettuare alcun passaggio mentale, come invece
avviene
in modo praticamente obbligatorio in accostamenti inusuali come «braccia dell'albero» o «cuore
dell'automobile») e analisi più riccamente esemplificate, sempre che a qualcuno interessino i processi
mentali
di chi inventa titoli per i giornali.
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