Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 206
febbraio 1994


Rivista Anarchica Online

L'utopia del signor Vitali
di Maria Matteo

Nella pubblicità si sa, la gente è sempre allegra, felice e sana e non potrebbe essere altrimenti, perché abita in case ampie, soleggiate e ben arredate, viaggia su auto lussuose, va in vacanza in qualche isola tropicale e mangia a sazietà cibi gustosi.
La gente vera, quella che vive in appartamenti di due stanze, non ha un bell'aspetto e si arrabatta alla meno peggio per sbarcare il lunario, non vi compare mai. Guerra, fame, disoccupazione non esistono in questi paradisi eretti a maggior gloria della merce. O, forse, sarebbe meglio dire che non esistevano finché nei nostri televisori non è giunto il signor Vitali. Tipo comune, sulla trentina, simpatico con un bel sorriso tutto denti, il signor Vitali è uomo con una certa coscienza sociale e vive a disagio in un'epoca dominata dalla violenza, dalla sopraffazione e dal razzismo. Onesto e progressista il nostro Vitali non può che essere colpito favorevolmente dal clima di cortesia, solidarietà ed armonia della Coop, al punto che decide di non andarsene più. Il buon Vitali va a vivere nel supermercato dove si sposa ed alleva i propri figli. La pubblicità di sinistra riesce così a raggiungere effetti involontariamente comici e al contempo desolanti del tutto sconosciuti nel mondo patinato della reclame. L'immagine pubblicitaria in genere vive e costruisce un mondo separato che non pretende di descrivere o criticare la realtà ma semplicemente di sovrapporsi immaginariamente ad essa. Il signor Vitali introduce un elemento nuovo, una vaga pretesa moraleggiante che mira a conferire uno statuto etico al messaggio promozionale. Così l'ordinato universo della merce si candida al ruolo di lieta alternativa ai conflitti ed alle ingiustizie della vita sociale. D'altra parte forse il nostro Vitali non ha poi tutti i torti, poiché di fronte ai fallimenti della politica e all'affievolirsi dei legami sociali, i luoghi in cui maggiormente si possono rinvenire simulacri di vita comunitaria oltre agli stadi ed ai concerti rock sono indubbiamente i supermercati. Le piazze delle città, luoghi per eccellenza dell'incontro e dello scambio, sono ormai ridotte al rango di parcheggi per le auto o, più nobilmente, di vetrine per i turisti. La polis è stata irrimediabilmente fagocitata dalla metropoli la cui lunga ombra si proietta fin sugli spazi non urbanizzati il cui status residuo è di periferia, di margine privo d'autonomia. L'agorà, posto simbolico e concreto in cui ethos comunitario e civile si riproducono e creano, cede il passo all'ignobile farsa della politica-spettacolo che trova il suo apice nei circhi della tv-spazzatura. Certo non mancano momenti di resistenza, isole di controcultura, nuclei di opposizione esistenziale e politica in cui il senso di appartenenza e la valorizzazione di sé cercano nuovi ambiti di definizione e differenti occasioni d'espressione. Ma la fine delle grandi narrazioni, che sarebbe oltremodo arduo nonché stolto rimpiangere, ha determinato un vuoto progettuale difficile da riempire.

Uno spazio politico
La lenta marea sotterranea di centri sociali, cooperative autogestite, gruppi di solidarietà con il terzomondo, autoproduttori di dischi, patate, libri, giornali, servizi si barcamena tra due opposte ma irte sponde: il fuoco di una ribellione senza sbocco e le ceneri della almeno parziale rinuncia ai propri obiettivi. Forse nessuno può permettersi oggi di criticare troppo aspramente una sperimentazione che, sia pure in modo non sempre chiaro, mira a creare spazi di libertà e autogestione. Questi spazi tuttavia sono isole che non sanno e forse neppure vogliono farsi arcipelago, piccoli buchi in una tela di ragno incapaci a loro volta di tessere solide reti. Chi tira sassi alla polizia dal tetto di una casa occupata raramente intreccia contatti con chi si occupa di commercio equo e solidale, il quale a sua volta difficilmente ha relazioni con chi fa autoproduzione di libri e dischi. E così via. La frammentazione e la specializzazione che sono state distintive degli anni '80 tendono a riproporsi in questo primo scorcio dell'ultimo decennio del secolo. Negli anni '60 e '70 la controcultura, i movimenti autogestionari e comunitari avevano accompagnato, sostenuto ed alimentato la tensione verso una trasformazione sociale di segno radicalmente egualitario e libertario che appariva non solo possibile ma persino imminente. La volontà di destrutturare i meccanismi economici, sociali e politici che reggevano gli apparati democratico-capitalistici non seppe tutavia trovare altro sbocco che l'esumazione di miti e ideologie rivoluzionarie che, specie nelle varie versioni marxiste, finirono con il soffocare lo slancio, la vitalità ed il bisogno di concretezza della controcultura. Così ad un decennio che pensava la rivoluzione auspicabile e vicina è seguito un periodo in cui la ricerca di alternative globali è stata sostituita da un agire più circoscritto e limitato volto al perseguimento di obiettivi tangibili. Il luogo della politica è divenuto un qui ed ora sostanzialmente svincolato da ogni tensione utopica, da ogni ipoteca il futuro potesse vantare sul presente. Il referente non è più la società civile nel suo complesso o la classe ma tutti coloro che in qualche modo sono avvertiti come simili. Vi è un netto rifiuto della dimensione progettuale, della propaganda, del proselitismo, cui si contrappone un fare che pone al centro bisogni ed aspirazioni individuali all'interno di piccoli gruppi di affini. Sebbene tali gruppi abbiano contribuito non poco a vivacizzare il panorama sociale degli ultimi anni - si pensi soltanto al fenomeno dei centri sociali -, il loro sacrosanto rigetto della dimensione ideologica della politica ha tuttavia finito col tradursi in ripudio della politica in quanto tale. Molte delle esperienze sorte negli anni '80 hanno fatto della marginalità una virtù da coltivare, non una necessità non voluta. D'altro canto non sono mancati coloro, che dopo aver sperimentato le durezze di una vita improntata su principi comunitari, ecologici e non gerarchici, hanno dismesso ogni virtù e si sono buttati nell'eco-business. Gli uni e gli altri, i ribelli senza macchia e quelli più disponibili ai compromessi sono stati incapaci di tracciare uno spazio politico che, pur mirando ad un'effettualità nel qui ed ora, non rinunciasse al ruolo di catalizzatore d'una trasformazione sociale di più ampia portata.

L'approccio di Bookchin
Una trasformazione che troppo a lungo è stata connessa alla necessità d'un evento rivoluzionario risolutore, un punto di non ritorno cui sacrificare ogni energia, cui dedicare ogni sforzo, rimandando ad un domani post-rivoluzionario il lavoro di costruzione di uno spazio sociale libero e giusto. La rivoluzione in tale prospettiva non era semplice mezzo, ma fine ed assumeva pertanto una funzione salvifica, quasi religiosa di palingenesi universale, di momento epocale atto a chiudere un'era ed aprire le porte a tempi nuovi. La centralità della rivoluzione, specie nell'approccio anarchico, era direttamente connessa alla presunzione che la società civile, liberata dalle pastoie del dominio, sarebbe stata capace di autoregolarsi, senza più alcun bisogno d'un ambito di regolazione dei conflitti, ossia d'un ambito politico. Naturalmente sarebbe inesatto ridurre l'anarchismo ad una visione tanto banalmente ed ingenuamente armonicista, perché il pensiero anarchico è stato ben più ricco ed articolato, è tuttavia innegabile che l'immaginario dei militanti ne sia stato a lungo pervaso. Da quanto detto sinora emerge chiara la necessità di ripensare una dimensione del politico che, pur mantenendo la propria autonomia rispetto al sociale, non lo sovradetermini. Abbiamo visto come la grande ambizione anarchica di dissolvere la politica nell'etica, abbia finito con il demonizzare il politico, santificando il sociale. Questa concezione non è solo semplicistica ed ineffettuale, ma anche pericolosa, poiché potrebbe funzionare solo in presenza di valori socialmente condivisi fortissimamente pervasivi. Pensare l'autonomia di uno spazio politico non-statuale è non solo possibile ma necessario. Il recente, vivace dibattito apertosi in Italia sul municipalismo libertario è sintomo inequivocabile del bisogno di aprire un confronto su questi temi. Grande interesse riveste la distinzione bookchiniana tra politico e statuale e la conseguente individuazione della città quale punto di convergenza d'un agire politico che si oppone, destrutturandola, alla politica come esercizio del dominio. L'approccio di Bookchin, pur attraversato da intuizioni notevoli, pone tuttavia sul tappeto più problemi di quanti non ne risolva. La città di cui parla Bookchin, il cui modello egli rinviene nella polis greca e nel comune medievale, se mai è esistita certo non ha lasciato che deboli tracce nel mondo contemporaneo. Bookchin, tentando di conferire legittimità alle proprie teorie, sviluppa un'analisi storica ed antropologica che nel migliore dei casi si potrebbe definire un po' azzardata. Il passaggio dalle società organiche ed egualitarie a quelle gerarchiche ed infine la nascita dello stato e della società divisa in classi non trova alcun supporto nell'antropologia scientifica contemporanea. La città, come spazio politico autonomo capace di opporsi allo stato, non ha esistenza né al presente né al passato, ma si configura altresì come ipotesi teorica, che necessita di un grosso lavoro di sperimentazione e ricerca per tradursi in proposta concreta, dotata della linfa necessaria ad un corpo vivo. Lo sviluppo di una comunità cittadina che sappia creare una sfera pubblica che avochi a sé, strappandole allo stato, le facoltà decisionali non può prodursi da un giorno all'altro. E non può neppure crescere se non si consolida un humus culturale di chiaro segno libertario. Una comunità non è data dalla somma degli individui che la costituiscono e non vive soltanto in uno spazio pubblico, foss'anche quello dell'agorà, ma è fatta anche di rapporti economici e sociali. Il sorgere di attività produttive in cui la logica della cooperazione e dello scambio egualitario sostituiscano quella del profitto, il moltiplicarsi di occasioni di socialità non mercificata consolidano il terreno in cui possono attecchire i movimenti comunalisti. Altrimenti si rischia di cadere in una sorta di leghismo di sinistra, forse meno metropolitano e più rurale, meno competitivo e più cooperativo, vaccinato da una doverosa iniezione ecologica, ma nondimeno privo di quella spinta radicalmente sovversiva che solo lo sviluppo di nuclei di controsocietà può consentire. La crescente anomia che caratterizza il panorama politico nella nostra penisola induce taluni a credere che sia venuto il momento di premere il pedale dell'accelleratore di un movimento comunalista che, almeno in Italia, pare ancora molto esile. L'esistenza di alcuni gruppi impegnati in ambito municipalista è certo incoraggiante ma insufficiente, affinché sia possibile ritenere superata la fase sperimentale. Sono peraltro ancora troppi i nodi teorici da sciogliere prima che l'ipotesi municipalista possa tradursi in effettivo progetto politico.

Senza fretta
La principale questione da affrontare è quella relativa alle modalità dell'intervento comunalista: costituire organismi municipalisti di base che riescano a delegittimare le istituzioni statuali periferiche è ben altra cosa dal tentare di trasformare i municipi dall'interno, partecipando alle elezioni. Nel primo caso lo spazio politico è elemento di garanzia d'un ambito di mediazione dei conflitti che nei limiti del possibile consenta lo sviluppo di opzioni differenti, valorizzando l'autonomia dei soggetti sociali. Strutture municipaliste alternative permettono di attuare un processo graduale che le porti a sostituire di fatto i governi delle città, erodendone a poco a poco l'autorità. Una trasformazione sociale radicalmente libertaria non può essere un mero fatto formale ma necessita d'una più ampia mutazione culturale, che non può sicuramente essere improvvisa e superficiale, né limitarsi alla sfera politica. Non è poi così difficile immaginare un'assemblea di paese o di rione decidere liberamente, al di fuori di ogni meccanismo di delega, la cacciata dei lavoratori stranieri o la riduzione delle spese per l'assistenza agli handicappati. Essere liberi non implica necessariamente l'agire da libertari. Il gradualismo necessario ad una trasformazione profonda mal si confà ad un'ipotesi di municipalismo in chiave elettoralista. Destrutturare dall'interno le istituzioni, anche mettendo momentaneamente da parte le più che legittime critiche anarchiche ad ogni meccanismo di delega incontrollabile ed irreversibile, non può fare a meno d'una grossa maggioranza elettorale per avere qualche possibilità di successo. Una tale prospettiva non solo è decisamente poco realistica, ma anche pericolosa, poiché riduce a pura questione formale la costruzione di una società libertaria. Abbiamo visto come negli anni '80 siano sorte una miriade di esperienze volte a costruire un'alternativa vivibile nel qui ed ora, ma prive d'una dimensione progettuale. L'ipotesi comunalista permette di pensare una sfera pubblica non-statuale che dia parola alle varie voci del piccolo ma tenace arcipelago dell'autogestione. Occorre tuttavia non aver fretta e ricercare pazientemente occasioni di incontro e dialogo in cui cominciare ad elaborare quel lessico comune, indispensabile alla crescita della città dei cittadini oltre il caos della metropoli. Altrimenti non si potrà che continuare a rifugiarsi nelle tane dell'underground o, per chi lo preferisce, andare a far compagnia al signor Vitali nel suo supermercato.