Rivista Anarchica Online
Autogestione nella scuola
La prospettiva di intervento libertario nella realizzazione di spazi autogestiti, che
prefigurino una organizzazione
del sociale «non statuale», acquista nel dibattito sul «municipalismo libertario» una dimensione quanto mai
concreta e non priva di sollecitudini per chiunque operi nel «sociale» da tempo. Chi, come lo scrivente,
dagli anni del sessantotto al movimento del '77 ha partecipato della grande fase di
rinnovamento, soprattutto ideologica e rivoluzionaria, non può non essere passato indenne da un certo
sfrondamento di miti e rituali della «sinistra», che hanno finito per mettere in ombra la reale carica
rivoluzionaria e autogestionaria che quegli anni hanno comunicato. Né quel movimento poteva in
assoluto collocarsi sul «politico», né tanto meno sul sindacale, o tanto più sul
«pedagogico», sebbene proprio sul finire degli anni settanta abbiamo visto il maturarsi di una serie di esperienze
cooperative che saltavano a piè pari i movimenti politici organizzati e la pura azione sindacale, in cui
s'andavano
cimentando gli ex-rivoluzionari. Per un libertario, ovvero per chi ha maturato una certa tradizione
anarchica, lo scetticismo verso l'azione politica
organizzata è stata pur sempre una costante, così come la militanza esclusiva nel sindacato.
Per molti tuttavia non è stato facile comprendere che l'azione libertaria potesse svilupparsi al di
là dei movimenti
politici, sia pure federali o decentrati. Ma non è scopo di questo articolo entrare nel merito della
militanza
politica o meno, anche alla luce della situazione più generale delle vicende elettorali; più utile
mi pare porre
l'accento sulle più recenti iniziative di «azione diretta», dalla conquista di spazi di autogestione, alla
realizzazione ex-novo di servizi sociali, alla esperienza di cooperative di autoproduzione e commercio, per dare
un contributo al dibattito sul «municipalismo libertario» . C'è da rilevare in effetti una costante,
sia nelle lotte condotte per i servizi sociali autogestiti che per le pratiche
di «autogestione» nella scuola. Laddove l'azione libertaria si è impadronita di spazi che lo stato
«sociale» ha
abbandonato o snobbato, la partecipazione e l'impegno libertario hanno trasformato questi spazi in autentiche
forme di autogoverno, sebbene, ripetiamo, trattavasi di speranze condotte in «pezzi» dello stato sociale andati
a male ... Inviterei a una franca e serena riflessione su questo aspetto dell'azione libertaria: quanto più
lo stato
assistenziale abbandona i suoi spazi di «garanzia», tanto più c'è la possibilità per i
libertari di appropriarsi di
realtà che aspettano un totale capovolgimento di relazioni e finalità. Asili nido, case di riposo,
centri sociali,
ambulatori, corsi di formazione, patronati, consultori, comitati di quartiere, e così via per una sequenza
ininterrotta di strutture fatiscenti dello «stato sociale» in declino, che né la sinistra tradizionale è
in grado di
sostenere per le note vicissitudini del mercato, né tanto meno la destra berlusconiana o revanscista
hanno
interesse a tutelare. Questa opportunità, che non è né nuova né
sorprendente per chi opera nel sociale, mi permette di approfondire
un aspetto di questa prassi che si ricollega direttamente a un tipo di attività non direttamente né
politica né
sindacale. Mi riferisco a una attività che presenta più i connotati di «pedagogia permanente»
o di volontariato
(cooperativo), che però non va identificato o sovrapposto con quello cattolico. Il settore
dell'educazione, la scuola, offre spazi di autogestione fino ad oggi rimasti nell'ombra, considerato che
per un rivoluzionario l'istituzione scuola è stata pur sempre fenomeno di indottrinamento e servizio reso
allo
Stato, tout court. Se tuttavia osserviamo la fatiscenza e la degradazione sempre più costante cui
vengono sottoposte le istituzioni
culturali, seppure configurate nella logica dello Stato, ci accorgiamo che non solo l'edificio scolastico e i sussidi
su cui esso si regge stanno facendo una brutta fine, ma una serie di «agenzie educative» nate per sorreggere lo
«stato sociale» stanno per essere chiuse o trasformate in strutture di tipo «produttivo». Mi riferisco a
realtà quali
teatri, musei, biblioteche, archivi, laboratori culturali, corsi professionali, distretti scolastici, sedi di comitati
di quartieri ed altre che di per sé possono costituire una formidabile leva educativa e «cooperativa»,
se
opportunamente utilizzate da chi crede nell'azione educativa di base. Ad esempio i musei. Quasi tutte le
città d'Italia, dove esistono musei di una certa importanza, si stanno dotando
delle cosiddette «sezioni didattiche» o laboratori di sperimentazione didattica, vere e proprie realtà
scolastiche decentrate sul territorio: i bambini imparano a fare scuola a diretto contatto con il territorio e
gli oggetti concreti,
fatto pedagogico meritorio di per sé - si dirà - ma direi anche rivoluzionario, se si considera che
l'impegno in
questo tipo di agenzie educative non è coercitivo ma liberamente scelto dagli insegnanti che provano
a fare
scuola in modo diverso. Il discorso vale pure per le biblioteche, per le associazioni culturali che operano nel
quartiere, verso cui si indirizzano numerosi presidi o direttori didattici, con la stipula di convenzioni o
prestazioni temporanee d'opera. Il discorso non sembri eccessivamente «riformista»: le istituzioni non sono
pronte a una didattica «alternativa» sul territorio, gli insegnanti sì! Lo sono fin da quando sui banchi
di scuola
erano loro i primi ad annoiarsi per una didattica che li induceva a fantasticare anziché a mettere in
pratica ciò
che studiavano. Per gli anarchici l'integrazione di attività intellettuale e verifica nel sociale (manuale)
è stato
uno dei canoni pedagogici di base! Il punto è che istituzioni come i musei, le biblioteche, le
associazioni culturali di quartiere sono realtà di
potenziale orientamento, formazione professionale e apprendistato, nelle versioni migliori, ovviamente, in cui
lo «stato sociale» le ha prefigurate (laboratori di restauro, aule didattiche ecc.). Questa è una
provocazione che lancio, un modo di collegare le istanze libertarie di educazione con le istanze
rivoluzionarie di orientamento professionale e «mobilità parallela». Ovviamente l'educazione cui noi
miriamo
è quella che punta all'autogestione delle risorse economiche e culturali del territorio; ma non è
forse dai beni
culturali e ambientali che può partire questa scommessa? Il municipalismo libertario oggi non coinvolge
forse
i servizi sociali, le strutture educative, la formazione «permanente» del cittadino?
Claudio Paterna (Palermo)
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