Rivista Anarchica Online
Mente e spirito?
Cara redazione, intervengo nella discussione su «mito e sacro» (A 207), sperando di
contribuire a risolvere il
problema. Per quello che ne sappiamo oggi, Platone, per spiegare come avverrebbe la conoscenza, ha proposto
un'anima terrena che noi tutti avremmo e che ci fornirebbe una conoscenza di scarsa affidabilità -
vedremmo
le cose come ombre riflesse sulla parete di una caverna, in cui stiamo volgendo le spalle all'entrata, come dice
nel famoso «mito della caverna». Ciò fatto, ad essa Platone ha potuto affiancare, come guida, una
seconda
anima, proveniente dal mondo degli Dei (Iperuranio) e incarnata, più o meno bene, in noi. La Chiesa
Cattolica -
recuperando anche il contributo di Aristotele, che sostituisce le reminiscenze iperuraniche con una
facoltà non
certo meno misteriosa come è la sua «astrazione» - non ha fatto altro che adottare questa «teoria della
conoscenza». Una teoria che, però, con l'attività scientifica non ha nulla a che fare. Infatti, la
«conoscenza» di
cui parla tale collettivo di pensiero non sarebbe vera o falsa nel comune senso di controllabile, tramite
l'esecuzione delle stesse istruzioni in tempi diversi e il confronto dei rispettivi risultati; ma, bensì, tale
«conoscenza» riguarderebbe un insieme di «copie» esatte («vere»), o malriuscite («false»), di tutto ciò
che
esisterebbe nel mondo «reale». Nel sistema di Platone le copie sono almeno quattro. Una copia «fuori di noi»
che non sarebbe «conoscibile» dalla mente terrena, ma sarebbe conoscibile dallo spirito celeste, che la
confronterebbe con una seconda copia «dentro di noi», anch'essa «non conoscibile» dalla mente
(l'eredità del
divino «mondo Iperuranio»), ottenendo una uguaglianza, e quindi una conoscenza «vera». Vi sarebbe, poi, una
terza copia «fuori di noi e conoscibile» dalla mente; mente che, però, dal confronto con la quarta copia
«dentro
di noi», e «conoscibile», otterrebbe sempre differenze (le famose «ombre»), ed ecco «spiegato» come la
conoscenza nostrana sarebbe scadente e perché ci sarebbe bisogno dell'autorità del
religioso-filosofo. Che, a
parte l'originale collocato nel mondo Iperuranio, le copie da confrontare sarebbero quattro - due che servono
ad ottenere il vero e due il falso -, lo si deduce dai due diversi soggetti di conoscenza ipotizzati; ma, in
verità,
una analisi esauriente dei testi attribuiti a Platone porterebbe a scoprirvi ancora più copie, e più
confronti al cui
risultato viene attribuito un crescente valore di «verità», ed almeno tre anime, o facoltà -
subordinate l'una
all'altra -, che eseguirebbero questi confronti. A me interessa evidenziare come l'intera costruzione, per quanto
ingegnosa, risenta di alcuni difetti di base. Anzitutto, va segnalata la auto-contraddizione di chi pretende di
fornire le istruzioni per conoscere ciò che al tempo stesso definisce come «non conoscibile»;
contraddizione
che può essere sanata solo ricorrendo ad una divinità che garantisca la corrispondenza fra
presunta «copia
esterna» e presunta «copia interna» - e infatti ricorreranno alla religione, grossomodo negli stessi termini, oltre
a Platone anche Cartesio, Leibniz, Berkeley, e molti altri. In secondo luogo, ma non meno importante, manca
in ogni caso l'indispensabile criterio per poter applicare le categorie cruciali della «teoria della conoscenza»,
e cioè «interno» ed «esterno». Come è noto, i problemi che derivano da questa impostazione
sono tanti, e lo
testimonia non solo la storia della filosofia, ma anche la storia di tutte le discipline che si sono poste il problema
dei rapporti tra linguaggio e pensiero - sia perché era inscindibile dall'oggetto di studio, sia in ambito
di mera
riflessione metodologica. Le proteste non si contano. Dobbiamo a Musil, per esempio, l'osservazione secondo
cui i filosofi sono in fin dei conti «dei violenti», che, non disponendo di un esercito, «si impadroniscono del
mondo racchiudendolo in un sistema» (R. Musil, L'uomo senza qualità, ed. it. Torino
1957, p.291). Lo stesso
Musil, tuttavia, finisce poi con l'adottare una distinzione di derivazione chiaramente filosofica, come quella tra
una «sfera razioide» ed una «non razioide» - pur ammettendo di non saper esplicitare un preciso criterio
dirimente - tra cui cerca di ripartire, senza privilegiare troppo né l'una né l'altra «sfera», le
attività mentali
dell'uomo (La conoscenza del poeta, 1918, ed. it. Milano 1978). La discussione sulla
«razionalità» si usa far
risalire a Cartesio, e più in generale alla polemica contro la fisica aristotelica - la cui crisi aveva finito
con
l'investire l'apparato dottrinario della Chiesa Cattolica -, ma già Platone definiva la sua anima
privilegiata
davanti agli Dei come «razionale», in contrapposizione ad una anima «emotiva». Più pessimista
di loro sembrerebbe Kant, che se non sbaglio riconosce nel «noumeno» una entità di cui la
«ragione» non potrebbe mai avere «conoscenza» perché andrebbe oltre un «limite» stabilito da Dio.
Tutto ciò non ha mai riguardato né il buon senso quotidiano né l'attività
scientifica, che da esso non si discosta
affatto. Quando comunemente applichiamo le categorie di «razionale» o «irrazionale», noi parlanti svolgiamo
alcune operazioni mentali. Consideriamo qualcosa in rapporto ad uno scopo che gli attribuiamo e, se questo
rapporto risulta essere di coerenza, parliamo di «razionalità» di quel qualcosa; mentre, se non lo
è, predichiamo
la sua «irrazionalità». Per esempio: è razionale buttarsi dalla finestra se uno vuole suicidarsi;
è irrazionale
buttarsi dalla finestra se uno vuole vivere. Di solito, lo scopo è implicito; il che risponde ad esigenze
di
economia della comunicazione, ma può anche creare dei fraintendimenti. Per esempio, due amici
organizzano
una vacanza, ma uno per approfondire la conoscenza di un luogo, mentre l'altro, invece, per curiosare qui e
là.
Il primo trova razionale viaggiare in treno e sistemarsi in un albergo prenotato, il secondo, invece, trova la
razionalità nell'automobile e in un percorso ricco e articolato. Entrambi, ovviamente, hanno ragione,
e a buon
diritto possono tacciare l'altro di irrazionalità, finché non comprendono la differenza fra i loro
due modi di
costruirsi mentalmente lo scopo di quella «vacanza». Tutto ciò prescinde dalla «teoria della
conoscenza» e dalle
sue distinzioni fra «mente» e «spirito». A quanto ne so, il primo termine sta faticosamente entrando nel lessico
delle cosiddette «scienze cognitive» (non certo affrancate da, né molto intenzionate a fare i conti con
la dovuta
serietà con, la tradizione filosofica), per designare l'insieme delle funzioni del sistema nervoso centrale,
il
secondo, invece, rimane più legato alle tradizioni puramente cristiana (San Paolo distingue tra «spirito»
e
«carne») e filosofica del mondo cristiano (gli idealismi, tedesco e italiano, hanno fatto largo uso del termine).
In conclusione, mi sembra che distinguere le «ragioni della mente» dalle «ragioni dello spirito» significhi
accettare dei presupposti di uno stampo prettamente religioso, chiaramente individuabile nella nostra tradizione
culturale come «cattolico». Se è così, la via laica - quella che conduce a consapevolezza e
controllo dei valori
- conduce altrove.
Francesco Ranci (Milano)
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