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Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 209
maggio 1994


Rivista Anarchica Online

Mente e spirito?

Cara redazione, intervengo nella discussione su «mito e sacro» (A 207), sperando di contribuire a risolvere il problema. Per quello che ne sappiamo oggi, Platone, per spiegare come avverrebbe la conoscenza, ha proposto un'anima terrena che noi tutti avremmo e che ci fornirebbe una conoscenza di scarsa affidabilità - vedremmo le cose come ombre riflesse sulla parete di una caverna, in cui stiamo volgendo le spalle all'entrata, come dice nel famoso «mito della caverna». Ciò fatto, ad essa Platone ha potuto affiancare, come guida, una seconda anima, proveniente dal mondo degli Dei (Iperuranio) e incarnata, più o meno bene, in noi. La Chiesa Cattolica - recuperando anche il contributo di Aristotele, che sostituisce le reminiscenze iperuraniche con una facoltà non certo meno misteriosa come è la sua «astrazione» - non ha fatto altro che adottare questa «teoria della conoscenza». Una teoria che, però, con l'attività scientifica non ha nulla a che fare. Infatti, la «conoscenza» di cui parla tale collettivo di pensiero non sarebbe vera o falsa nel comune senso di controllabile, tramite l'esecuzione delle stesse istruzioni in tempi diversi e il confronto dei rispettivi risultati; ma, bensì, tale «conoscenza» riguarderebbe un insieme di «copie» esatte («vere»), o malriuscite («false»), di tutto ciò che esisterebbe nel mondo «reale». Nel sistema di Platone le copie sono almeno quattro. Una copia «fuori di noi» che non sarebbe «conoscibile» dalla mente terrena, ma sarebbe conoscibile dallo spirito celeste, che la confronterebbe con una seconda copia «dentro di noi», anch'essa «non conoscibile» dalla mente (l'eredità del divino «mondo Iperuranio»), ottenendo una uguaglianza, e quindi una conoscenza «vera». Vi sarebbe, poi, una terza copia «fuori di noi e conoscibile» dalla mente; mente che, però, dal confronto con la quarta copia «dentro di noi», e «conoscibile», otterrebbe sempre differenze (le famose «ombre»), ed ecco «spiegato» come la conoscenza nostrana sarebbe scadente e perché ci sarebbe bisogno dell'autorità del religioso-filosofo. Che, a parte l'originale collocato nel mondo Iperuranio, le copie da confrontare sarebbero quattro - due che servono ad ottenere il vero e due il falso -, lo si deduce dai due diversi soggetti di conoscenza ipotizzati; ma, in verità, una analisi esauriente dei testi attribuiti a Platone porterebbe a scoprirvi ancora più copie, e più confronti al cui risultato viene attribuito un crescente valore di «verità», ed almeno tre anime, o facoltà - subordinate l'una all'altra -, che eseguirebbero questi confronti. A me interessa evidenziare come l'intera costruzione, per quanto ingegnosa, risenta di alcuni difetti di base. Anzitutto, va segnalata la auto-contraddizione di chi pretende di fornire le istruzioni per conoscere ciò che al tempo stesso definisce come «non conoscibile»; contraddizione che può essere sanata solo ricorrendo ad una divinità che garantisca la corrispondenza fra presunta «copia esterna» e presunta «copia interna» - e infatti ricorreranno alla religione, grossomodo negli stessi termini, oltre a Platone anche Cartesio, Leibniz, Berkeley, e molti altri. In secondo luogo, ma non meno importante, manca in ogni caso l'indispensabile criterio per poter applicare le categorie cruciali della «teoria della conoscenza», e cioè «interno» ed «esterno». Come è noto, i problemi che derivano da questa impostazione sono tanti, e lo testimonia non solo la storia della filosofia, ma anche la storia di tutte le discipline che si sono poste il problema dei rapporti tra linguaggio e pensiero - sia perché era inscindibile dall'oggetto di studio, sia in ambito di mera riflessione metodologica. Le proteste non si contano. Dobbiamo a Musil, per esempio, l'osservazione secondo cui i filosofi sono in fin dei conti «dei violenti», che, non disponendo di un esercito, «si impadroniscono del mondo racchiudendolo in un sistema» (R. Musil, L'uomo senza qualità, ed. it. Torino 1957, p.291). Lo stesso Musil, tuttavia, finisce poi con l'adottare una distinzione di derivazione chiaramente filosofica, come quella tra una «sfera razioide» ed una «non razioide» - pur ammettendo di non saper esplicitare un preciso criterio dirimente - tra cui cerca di ripartire, senza privilegiare troppo né l'una né l'altra «sfera», le attività mentali dell'uomo (La conoscenza del poeta, 1918, ed. it. Milano 1978). La discussione sulla «razionalità» si usa far risalire a Cartesio, e più in generale alla polemica contro la fisica aristotelica - la cui crisi aveva finito con l'investire l'apparato dottrinario della Chiesa Cattolica -, ma già Platone definiva la sua anima privilegiata davanti agli Dei come «razionale», in contrapposizione ad una anima «emotiva».
Più pessimista di loro sembrerebbe Kant, che se non sbaglio riconosce nel «noumeno» una entità di cui la «ragione» non potrebbe mai avere «conoscenza» perché andrebbe oltre un «limite» stabilito da Dio.
Tutto ciò non ha mai riguardato né il buon senso quotidiano né l'attività scientifica, che da esso non si discosta affatto. Quando comunemente applichiamo le categorie di «razionale» o «irrazionale», noi parlanti svolgiamo alcune operazioni mentali. Consideriamo qualcosa in rapporto ad uno scopo che gli attribuiamo e, se questo rapporto risulta essere di coerenza, parliamo di «razionalità» di quel qualcosa; mentre, se non lo è, predichiamo la sua «irrazionalità». Per esempio: è razionale buttarsi dalla finestra se uno vuole suicidarsi; è irrazionale buttarsi dalla finestra se uno vuole vivere. Di solito, lo scopo è implicito; il che risponde ad esigenze di economia della comunicazione, ma può anche creare dei fraintendimenti. Per esempio, due amici organizzano una vacanza, ma uno per approfondire la conoscenza di un luogo, mentre l'altro, invece, per curiosare qui e là. Il primo trova razionale viaggiare in treno e sistemarsi in un albergo prenotato, il secondo, invece, trova la razionalità nell'automobile e in un percorso ricco e articolato. Entrambi, ovviamente, hanno ragione, e a buon diritto possono tacciare l'altro di irrazionalità, finché non comprendono la differenza fra i loro due modi di costruirsi mentalmente lo scopo di quella «vacanza». Tutto ciò prescinde dalla «teoria della conoscenza» e dalle sue distinzioni fra «mente» e «spirito». A quanto ne so, il primo termine sta faticosamente entrando nel lessico delle cosiddette «scienze cognitive» (non certo affrancate da, né molto intenzionate a fare i conti con la dovuta serietà con, la tradizione filosofica), per designare l'insieme delle funzioni del sistema nervoso centrale, il secondo, invece, rimane più legato alle tradizioni puramente cristiana (San Paolo distingue tra «spirito» e «carne») e filosofica del mondo cristiano (gli idealismi, tedesco e italiano, hanno fatto largo uso del termine). In conclusione, mi sembra che distinguere le «ragioni della mente» dalle «ragioni dello spirito» significhi accettare dei presupposti di uno stampo prettamente religioso, chiaramente individuabile nella nostra tradizione culturale come «cattolico». Se è così, la via laica - quella che conduce a consapevolezza e controllo dei valori - conduce altrove.

Francesco Ranci (Milano)