Rivista Anarchica Online
Il corpo della passione
di Ariela Overflight
Qual è la riconoscenza dovuta ad un romanzo verso cui si sente di avere
un debito? Essersi nutriti di un
pensiero. Leggendo o pensando «La passione secondo G. H.» (1) rimpiango la vita
dell'amica e mi rammarico
per la sua morte. Con lei avrei diviso, accrescendola, la voluttà di questa lettura che se, come a me
accade, non
si può condividere, si esperisce a metà. Il romanzo di Clarice Lispector costruisce
il senso nella restituzione a
qualcuna. E lì lei, l'amica, lo avrebbe arricchito, lo avrebbe ampliato: «Tento di capire. Tento
di dare a qualcuno
ciò che ho vissuto e non so neppure a chi, ma non voglio tenere per me ciò che ho vissuto...».
Simone Weil insegnava alle sue alunne al Liceo di Roanne a ricondurre le affezioni più
complesse ad elementi
semplici: voleva educarle a guardare i propri pensieri costruendo un ordine separato dall'io che le aveva agite
o patite (2). La lieve raccomandazione introduttiva di Lispector sembra proprio marcare la bellezza di avere
un linguaggio
le cui modulazioni non coincidono affatto con le astrazioni funzionali alla soggettività impantanata su
se stessa.
È piuttosto lo sguardo delle cose ad illuminare lo sguardo di chi si avventura lungo il buio cammino
del vedere
e del capire (3): «Questo libro è un libro come un altro, ma avrei piacere fosse letto solo da
persone dall'anima
già formata. Quelle persone sanno come l'avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza
e
passando talvolta attraverso l'opposto di ciò che è la meta. Quelle persone e solo loro capiranno
passo per
passo che questo libro non toglie nulla a nessuno. A me, per esempio, il personaggio di G. H. ha dato a poco
a poco una gioia difficile, eppure il suo nome è gioia». Realismo e idealismo, termini presi
a prestito da un linguaggio inadeguato, convergono in un romanzo «extra-filosofico» come amano definirlo le
filosofe della comunità «Diotima» presso l'Università di Verona (4). Non
c'è esempio nella storia della filosofia di un tale equilibrato superamento. Il pensiero teoretico ha
proceduto
inevitabilmente sulla fluttuazione di queste due varianti, optando, di volta in volta, per l'uno o per l'altro,
secondo un bizzarro movimento che sostiene la coazione del moto autistico. È proprio
l'extrafilosoficità del
romanzo a farne un testo unico e un contesto condivisibile se è vero che l'approccio comune alla lettura
diventa
necessario quanto difficile. Perciò non mi sazio mai di rovistare tra i commenti, le citazioni e le rare
testimonianze biografiche di Lispector e della sua opera. Il debito può essere assolto soltanto
riconoscendolo
come un non debito: la gratuità di un pensiero d'amore. Il filo narrativo si avvolge su se stesso quasi
a
ricomporre l'origine che è poi la struttura di «La passione secondo G. H.». La scena primordiale
è l'essere al
mondo, in un giorno qualunque della vita quotidiana di una donna. Messe a tacere le convalide soggettive
dell'io, G. H. entra nel mondo dove è sempre stata ma in modo artefatto, fatto in modo che le potesse
dare
sicurezza. Nella messa al mondo del mondo (5) trova «il tessuto proibito della vita». «Ho preso una cosa
che
mi era essenziale e che non lo è già più. Non mi è necessaria, così come
se avessi perduto una terza gamba che
finora mi impediva di camminare, ma che faceva di me uno stabile treppiedi. Quella terza gamba ho perduto.
E sono tornata ad essere una persona che non sono mai stata. Sono tornata ad avere quanto non ho mai avuto:
null'altro che due gambe. E so che soltanto con due gambe io posso camminare». L'avventura
è un tale immediato da poter essere resa solamente con la mistica dell'estasi. Non a caso si parla
di «passione». Passione nel senso etimologico del verbo latino «pati» sentire con, il, e a causa del corpo. Ma
anche «passione» da «passus» cammino astratto di «patere» - essere aperto - e a sua volta radice di «passivus»
che subisce. Un lessico generatore di movimento e quindi di spazio-tempo, con la teoria inflazionistica
dell'universo in base a cui è la materia a creare tempo e spazio. Per Lispector il cammino è la
disponibilità fisica
del corpo. L'accaduto è una tale indicibile concretezza da essere nominata «una cosa». «Cosa» da
«res», da qui
«realtà». La cosa è la realtà. Essa non è il riflesso dell'io, ma il suo opposto,
l'estasi, l'uscire da sé, lo star fuori
da ogni logica precostituita e perfino da qualsiasi attività del pensiero logico e volontaristico. È
un sapere per
nescienza: «Non comprendo ciò che ho visto. E non so neppure se ho visto, giacché i
miei occhi hanno finito
col confondersi con la cosa vista... La sottile morte che mi ha fatto toccare con mano il tessuto proibito della
vita... È forse stata una comprensione la cosa che mi è accaduta e, perché io sia
autentica, devo continuare a
non esserne all'altezza, devo continuare a non capirla. Ogni repentina comprensione somiglia parecchio a
un'acuta incomprensione. No! Ogni repentina comprensione è finalmente la rivelazione di un'acuta
incomprensione... Mi è forse accaduto una comprensione totale quanto un'ignoranza e dalla quale io
uscirò
intatta e innocente come prima..». G. H. è una donna accreditata, benestante, vive a Rio de
Janeiro in un appartamento-attico reso, fino al momento
dell'evento, un luogo con luci ed ombre che rispecchiano la sua personalità. Ma quanto le accade
comincia a
svelarsi proprio dallo spazio fisico che sempre ha abitato pur non avendolo mai visto, con la stessa spontanea
certezza che la fa essere se stessa nelle cifre - G.H. - impresse sulle valigie. Priva del consueto aiuto domestico,
può dedicarsi a riordinare la casa. Un'attività a lei molto consona, paragonabile all'hobby della
scultura. G. H. pratica quest'arte quale modo di dar forma al caos: una creazione insomma e quindi la
manifestazione di
un segreto. La scrittura scalfisce la pagina nell'ordine della narrazione - «la scrittura è un
pensiero raccontato» -
come la forma è l'esistenza di un limite nell'ordine dell'infinito. Tra Ingeborg Bachmann e Clarice
Lispector ci
sono differenze molto somiglianti. Quando la scrittrice austriaca distingue la rappresentazione dalla
presentazione, ovvero la descrizione del processo storico ed esistenziale nel suo decorso temporale dallo
spalancarsi di una dimensione verticale al di fuori dello spazio-tempo, registra un tempo della poesia, intesa
come atteggiamento di riverenza di fronte alle cose che vengono restituite al loro significato originario e
autentico. Quando la scrittrice brasiliana racconta, come fa in «La passione secondo G.H.», il precedere
dell'indicibile, il rumore del silenzio, lo fa sullo sconfinato abisso dell'eternità: «Non ho parole
da dire. Perché non taccio, allora? Ma se io non forzerò la parola, la mutezza
mi sommergerà per sempre nelle sue onde. La
parola e la forma saranno la tavola su cui galleggerò sopra marosi di mutezza». L'appartamento
da riordinare
le si presenta come un pozzo percorribile orizzontalmente sopra i tredici piani di un edificio bianco, quasi la
miniatura della maestosità di un panorama di gole e canyon. Il tutto, pieno di risorse da cui attingere:
«Tutto era di una ricchezza inanimata che rammentava quella della natura: anche
lì si sarebbe potuto cercare uranio
e da lì avrebbe potuto scaturire petrolio». Ma l'inaspettato accade proprio nel locale della
domestica. Convinta
di trovare nei «bassifondi» della sua casa una stanza odorante di muffa, colma di tenebre e di
sporcizia, resta
invece accecata dalla luce di un assoluto pulito in un quadrilatero investito dal sole con un ordine calmo e
spoglio, dominante sull'intero edificio come un minareto sulla collina. Dopo l'esplosione di luce lo sguardo si
imbatte su un primitivo disegno alla parete: un uomo, una donna e un cagnetto stilizzati fino al punto di essere
rivestiti dalla nudità «che risultava solamente dall'essenza di tutto quel che copre: erano i
contorni di una
nudità vuota». Contro il muro, accatastate, le valigie con le cifre G.H. Al grafema dell'origine
- il disegno - si
aggiunge il grafema della nominazione - il segno che rende oggettivata la soggettività dell'io. A
compimento
della scena, dal profondo dell'armadio, quasi il vuoto da cui può scaturire il pieno, procede lenta ma
inesorabile
lungo l'anta, una blatta: «Allora prima di capire, il mio cuore è diventato bianco,
come bianchi diventano i
capelli». Cadere nell'interpretazione simbolica e metaforica della blatta è far torto allo splendore
di avere un
linguaggio su cui ho indugiato inizialmente, sembrandomi essere la peculiarità della storia e della
verità. Di
quella storia e di quella verità che Lispector racconta con lo sguardo e percepisce con il delirio:
«Il mio metodo
visivo era del tutto imparziale: io lavoravo direttamente con le evidenze della visione, e senza consentire a
impressioni estranee alla visione di predeterminare le mie conclusioni: io ero interamente preparata a
sorprendere me stessa. Questo anche se le evidenze venivano a contraddire quanto in me era già stabilito
dal
mio tranquillissimo delirio». La presenza della blatta cancella tutti i reiterati confini tra fisica e
metafisica, e
la realtà si fa più trasparente e corposa. La blatta è lì, da sempre e per sempre,
testimone muto dell'origine, «da
trecentocinquanta milioni di anni si ripetevano senza mutazioni biologiche»; con l'indifferenza di chi
vive,
perché il processo stesso della vita è il movimento dell'attenzione, l'attenzione di vivere: un
neutro divino
proprio della materia. Il frutto proibito è l'immondo. Ciò che si cela dietro la fobia dell'immondo
è il rimosso
divino che è pura e semplice materia. Inevitabilmente G. H., nella sua passione per arrivare al tutto che
è il nulla
«vivo e umido», mangia la materia bianca e pastosa di cui è fatta la blatta, spezzata a
metà e ancora così piena
di vita perché in procinto di morte. È il segreto della blatta, il segreto di una risposta che attende
la domanda:
«Mi avevano dato tutto e guarda un po' che cos'è quel tutto! È una blatta che è
viva e che è in procinto di
morire. Sapevo che l'errore di base della vita era quello di avere disgusto di una blatta. Avere disgusto nel
baciare il lebbroso significa ancora e sempre che io sbagliavo la mia prima vita in me - provare disgusto mi
contraddice, contraddice in me la mia materia. Il fatto è che la redenzione doveva essere nella cosa
stessa. E
la redenzione nella cosa stessa sarebbe stato mettermi in bocca la pasta bianca della blatta... Ho cercato di
riflettere sul mio disgusto. Perché mai io dovrei aver disgusto della pasta che usciva dalla blatta? Non
avevo
forse bevuto del bianco latte che è liquida pasta materna? E all'atto di bere la cosa di cui era fatta mia
madre
non l'avevo forse chiamata, senza nome, amore?...». Nell'atto di mettersi in bocca la materia della blatta,
G. H.
sente di poter attuare la grande opera di trasmutazione da sé in se stessa e che in tal modo si sarebbe
avvicinata
al divino-reale: «La vita preumana divina è così immediata che brucia». Il
ripetuto uso di citazioni è una necessità alla quale non posso sottrarmi per testimoniare la
singolare e
indefinibile atmosfera di questo romanzo. Almeno per come l'ho vissuto io. «La passione secondo G. H.»
è
un'opera da leggere cominciando in qualsivoglia punto, senza che la lettura si smarrisca; si può andare
avanti
e tornare indietro, soffermarci su una pagina e riprendere da un'altra. La scrittura non subisce scompensi di
significazione, come i punti di una circonferenza, tutti equidistanti dal centro. Di fatto il romanzo si inscrive
in una cornice circolare, sia per la forma di orazione discorsiva di cui si serve G. H. nel raccontare l'indicibile,
sia per l'affascinante stratagemma di marcare le pause del racconto con la ripresa di quanto detto poco prima.
È la materia lispectoriana di tessere i trentatré pseudocapitoli di cui è fatta «La passione
secondo G. H.». Le
raffinatezze stilistiche dell'oralità formulaica sempre in cerca di dicibilità e memoria attraverso
la persistenza
tonale, fanno della metrica del testo un'eco di fondo. La passione di G. H., questa personalissima «via crucis»,
prende corpo in un momento, in qualcosa che non ha né prima né dopo. La fine è l'inizio
e l'inizio comincia alla
fine. Sulla linea immaginaria del loro coincidere scorre il vuoto creato dalle parole. È un viaggio alla
velocità
della luce e alla scoperta dell'universo. Fatalmente l'avanzare nello spazio è un indietreggiare nel
tempo. Lispector naviga su questa lunghezza d'onda
con una scrittura lenta ma immediata, scandendo il ritmo con un vibrante e pacato susseguirsi di ossimori: la
figura retorica per eccellenza della visione e del linguaggio mistico. Ossimoro, sorta di antitesi in cui si
accostano parole di senso opposto che sembrano escludersi l'un l'altra, recita nel lemma greco - oxymoros -
«acuto sotto un'apparenza di stupidità». L'ossimoro di Lispector, espediente stilistico su un pensiero
sconfinato,
è l'icona della realtà che, incommensurabile rispetto al grande e al piccolo, riesce a misurarsi
sui raggi della
magia poetica: «E' proprio tramite l'afasia che si udrà per la prima volta la mutezza propria e
quella degli altri
e quella delle cose, e la si accetterà come il possibile linguaggio».
1) Clarice Lispector: «La passione secondo G. H.». Ed.
La Rosa 1982 Torino Traduzione di Adelina Aletti con una nota di Angelo
Morino. 2) L'osservazione è di Elisabetta Zamarchi: «E' un
procedere arduo» in AA.VV.: «Diotima - Il cielo stellato dentro di noi» La
tartaruga Edizioni 1992 Milano. 3) Devo questo spunto di riflessione al
perspicace saggio di Hélène Cixous: «L'approche de Clarice Lispector - Se laisser lire (par)
C. L.» Université de Paris VIII 4) A questo proposito ricordo, fra
le altre, Luisa Muraro: «Commento alla passione secondo G. H.» nella rivista DWF N° 15 ed.
Utopia Roma; Luisa Muraro: «La nostra comune capacità di infinito», tema di un seminario di filosofia
all'Università di Verona,
inserito successivamente in AA.VV.: «Diotima - Mettere al mondo il mondo» La tartaruga 1990 Milano;
Adriana Cavarero:
«Nonostante Platone - Figure femminili nella filosofia antica» Editori Riuniti 1991 Roma.
5) Il secondo volume di «Diotima», la comunità filosofica
femminile presso l'Università di Verona, è dedicato al tema del realismo
femminile con una serie di saggi, racconti, appunto, sotto il titolo di «Mettere al mondo il mondo - Oggetto e
oggettività alla luce della
differenza sessuale» op. citata.
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