Rivista Anarchica Online
Apologia di Irene Pivetti
di Pietro Adamo
Ogni tanto il presidente della Camera si lancia in audaci esternazioni sulle
virtù e le caratteristiche del
cattolicesimo, suscitando regolarmente le ire di buona parte dei suoi correligionari. Gli alfieri del liberalismo
modernista, i seguaci della cosiddetta dottrina sociale della chiesa, i cattocomunisti, coloro che sperano in un
rilancio politico articolato dell'opzione cattolica, si lanciano con veemenza contro Irene Pivetti, colpevole a loro
parere di pervertire progetti e ideali della cultura religiosa che si richiama alla chiesa di Roma e di fornirne
un'immagine estinta e superata, contrapponendole invece una visione "moderna", "tollerante" e "socialmente
responsabile" dello stesso cattolicesimo. Non si può non restare perplessi di fronte a tanta furia, non
solo perché
il presidente della Camera si esprime con una sicurezza fondata su molti anni di attenta presenza alle lezioni
di catechismo, ma perché le sue idee paiono esprimere con accuratezza il pensiero della chiesa; i suoi
avversari,
al contrario, si abbarbicano cocciutamente a improbabili interpretazioni liberal-democratiche delle dottrine
clericali, congetturando pateticamente di non si sa quali peculiarità "moderne" della chiesa del signor
Woytila.
In altre parole, l'impressione è che Pivetti sappia di cosa sta parlando, i suoi contestatori
no.
Pivettiana 1: la politica Le idee del futuro
presidente della Camera hanno ricevuto attenzione nazionale per la prima volta circa un anno
fa, in occasione di un convegno tenuto a Cinisello Balsamo (MI), quando Pivetti, in qualità di
responsabile della
Consulta cattolica della Lega Nord, pronunciò un discorso sui rapporti tra "crisi politica e crisi dei
valori" nel
quale era enucleato un programma di "ricristianizzazione della società". Il progetto era costruito intorno
alla
proposta di dare inizio a una nuova guerra (santa?) contro tutte le religioni concorrenti: "Dobbiamo adoperarci
con tutti i mezzi, naturalmente non violenti, per arrivare a questo fine: il culto cattolico deve essere quello
condiviso da tutti", dichiarò la battagliera Irene. Era ora di finirla con la tolleranza e l'ecumenismo
postconciliare: "un cattolico non può riconoscere sempre e a chiunque il diritto di manifestare la sua
religione.
Le fedi religiose non possono essere messe tutte sullo stesso piano". Convinta della superiorità della
sua fede
su tutte le altre, Pivetti affermò perentoriamente che ""compito del cattolico è redimere,
convertire, liberare
l'uomo dall'errore" (qui fornì anche la sua fonte: "lo dice il catechismo"). "Che cosa ho mai da imparare"
dai
musulmani, dagli ebrei (e, presumibilmente, da buddisti, confuciani, ecc.), si chiedeva? "Solo quella cattolica",
continuava la pasionaria, "è una religione rivelata, per cui", concludeva
provocatoriamente, "non possiamo
sottoscrivere acriticamente l'articolo 18 della dichiarazione dei diritti dell'uomo, quella che sancisce per tutti
piena libertà di credo religioso". Queste considerazioni si concretavano in un progetto di intervento
politico che
rientra pienamente nella tradizione classica del cattolicesimo post-tridentino: impadronirsi dello stato, usare il
suo potere per imporre l'egemonia della chiesa di Roma, privare le altre confessioni del diritto di cittadinanza.
Per raggiungere questo obiettivo bisognerebbe quindi rivedere il Concordato, ha continuato Pivetti, che mostra
"troppe zone d'ombra, troppe contraddizioni. Il rischio è che questo Concordato riconosca
dignità di religione
a sette che coprono gigantesche speculazioni. Sarebbe uno scandalo dar loro sovvenzioni statali". Inoltre, ha
aggiunto, l'adozione di questa politica non significa che i cattolici si oppongono alla "libertà di credere";
essi
sono infatti contrari alla pienalibertà di religione (vedi sopra) ma non, evidentemente, a
una libertà limitata (le
citazioni del discorso sono tratte dalla "Repubblica", 3-4/10/93). Pare di capire che Pivetti distingua tra un
accorto uso degli strumenti statuali per favorire - dal punto di vista
economico, giuridico e culturale - la "vera religione", rendendola l'unica professione di fede legittimata nella
sfera pubblica, e l'esplicita proscrizione per legge delle altre confessioni. In questa prospettiva lo stato non
dovrebbe proibire l'esercizio del culto a ebrei, mussulmani, testimoni di Geova, eccetera: che però questi
non
si aspettino di ricevere fondi pubblici, non sperino in una loro parificazione nell'insegnamento religioso
scolastico, non credano di lanciarsi liberamente in iniziative di carattere culturale che valorizzino la loro fede.
Pivetti, che ha passato una vita nelle associazioni giovanili della Democrazia Cristiana, non ritiene che lo stato
debba essere un arbitro imparziale; non mi pare neanche di aver colto nelle sue parole significative
considerazioni riguardanti problemi di democrazia e rappresentanza, maggioranza e minoranza. Il tutto si risolve
quindi come battaglia politica: occupare lo stato e poi servirsene contro gli avversari. Nel successivo
novembre la leader leghista torna alla ribalta, con un'intervista concessa alla trasmissione
televisiva "Sorgente di vita". Pivetti insiste: "C'è una vera religione, che è la religione cattolica,
e [poi tutte] le
altre, che non lo sono". Ma lo scandalo maggiore viene suscitato da un'altra sua affermazione: gli ebrei sono
"un popolo responsabile di deicidio", perché "hanno chiesto a gran voce che Gesù Cristo fosse
crocefisso"
("Repubblica", 16/4/94). L'affairegiunge ad una svolta nello scorso aprile, quando Pivetti
diviene presidente della Camera. Fioccano le
accuse: intollerante, integralista, fanatica, antisemita, medievale. Irene non desiste: "Sul piano teologico la
libertà religiosa è un'affermazione non condivisibile". Qualche gaffepeggiora la
situazione: Pivetti afferma che
i repubblichini sinceri erano eroi quanto i partigiani ("Repubblica", 16/4/94). Le opposizioni attaccano, i partiti
di governo difendono. Unica eccezione i cosiddetti radicali (con Marco Pannella e Marco Taradash in testa) che,
sconvolti dall'apprendere che non tutti i loro alleati sono convinti esponenti della civiltà liberale,
accusano
l'avversaria di ogni nefandezza, senza riuscire però a evitarne il trionfo. L'ultima grande sortita
risale all'agosto scorso, al Meeting di Rimini, quando l'ormai carismatica Pivetti,
divenuta portavoce dei gruppi revanscisti cattolici, espone nuovamente il suo progetto di egemonizzazione, in
una forma più complessa e articolata, proponendolo come programma di trasformazione complessiva
della
società. "Bisogna governare le regole, bisogna rifare le regole se necessario, per ordinare la
società alla volontà
di Dio", proclama dal palco; qualche giorno prima Marcello Veneziani, maitre à pensée
nuova destra, l'aveva
indicata come ideale presidente del consiglio nell'auspicato (da lui) governo del papa. Irene parla chiaro,
suscitando gli entusiasmi della platea. La parola d'ordine è il ritorno all'attivismo: "un cristiano sa che
ogni
ordinamento sociale, ogni autorità, viene da Dio, ha in lui il suo fondamento. Questa non è
l'opinione dei
cattolici, questo è l'ordine delle cose, per il bene di tutti, i cattolici e i non cattolici" ("Il Giornale",
28/8/94). In
questa considerazione, il progetto di rinascenza cattolica giunge alla formulazione più matura (almeno
per quel
che riguarda Pivetti). Il cattolicesimo non è opinione tra le altre; è invece, molto semplicemente,
l'unica verità
concepibile e, in quanto tale, rispecchia l'ordine del creato. Le sue regole valgono quindi per tutti, non solo per
coloro che aderiscono esplicitamente alle sue dottrine; si tratta infatti di leggi naturali, che regolano le relazioni
tra gli uomini sulla base della loro stretta aderenza alle norme della convivenza civile e non in quanto
espressione di un gruppo minoritario (i cattolici appunto). Facciamo un esempio: nell'ottica pivettiana la
proibizione dell'adulterio non è un mero comandamento religioso di una particolare religione; si tratta
invece
di uno dei costituenti "naturali" della vita associata e, in quanto tale, deve essere rispettato da tutti;
poiché
riguarda la società intera, la scelta di praticarlo o meno dovrebbe ovviamente essere sottratta ai singoli
e regolata
da appositi organi preposti al controllo della popolazione.
Intermezzo
pivettiano Prima di proseguire nell'analisi del pivettismo, è
opportuno chiarire un paio di punti. Il presidente della Camera
pare impiegare senza troppo discriminare i termini "cristiano" e "cattolico"; tuttavia, mi pare che Pivetti, anche
quando usa i termini "cristiano", "religione cristiana", "cristianesimo", si riferisca comunque al magistero
religioso e culturale della chiesa romana. Non mi sembra di rintracciare nelle sue parole la chiara
consapevolezza che il cattolicesimo è solo unadelle confessioni che rientrano nella
più grande famiglia del
cristianesimo. Ma ciò che contraddistingue un "cattolico" non è la sua adesione alle dottrine
cristiane più
generali - Gesù Cristo figlio di Dio, salvezza ultraterrena, fratellanza universale, ecc. - o la sua
accettazione dei
valori condivisi da tutti gli altri cristiani - "fede, speranza e carità", per farla breve. Un "cattolico"
è tale perché
ritiene che fonte dell'autorità ultima sia l'insegnamento della chiesa (di Roma), che il papa sia infallibile
in
questioni dottrinali, che durante la messa mutino gli elementi reali dell'ostia (transustanziazione), eccetera
eccetera. Si tratta a mio parere di un equivoco semantico tangibile, che è peraltro il frutto di
ponderate scelte politico-culturali della chiesa papale. Come è noto, sin dal Concilio di Trento nelle aree
rimaste fedeli a Roma i cristiani
sono stati incoraggiati a privilegiare l'azione pratica e a trascurare le questioni dottrinali anche perché
leggere
le Sacre Scritture sembrava ingenerare endemiche tentazioni protestanti. Per secoli i cattolici sono così
stati
abituati a pensare che gli elementi decisivi dell'esperienza religiosa fossero la presenza alla messa, la condotta
morale, il rispetto dei comandamenti, la carità ai poveri, e via di seguito; nel contempo, sono stati
"invitati" a
lasciar perdere le disquisizioni teologiche e dottrinali. Semplificando un po': con questa strategia, che si
è
prolungata sino a oggi, la chiesa di Roma è stata in grado di costituirsi un'area di consenso fittizia,
appropriandosi - in quanto cattolica- di un'adesione che va, sostanzialmente, ai valori
cristiani. si preparasse
un questionario volto ad appurare la misura di adesione alle idee costitutive del cattolicesimo e lo si proponesse
a coloro che si professano seguaci della chiesa di Roma, non sarebbero pochi, tra questi ultimi, a restare
sbalorditi dalla scoperta di quanto poco condividano degli elementi fondanti della tradizione. Stupisce la
diffusione dell'equivoco, che non riguarda soltanto il "popolino". Facciamo un esempio: nel
novembre scorso, in occasione della pubblicazione dell'opuscolo "Benessere Donna" (in cui non si celava
l'esistenza di mezzi di contraccezione), Bonifacio Honings, teologo della Congregazione vaticana per la dottrina
della fede (il nuovo nome dell'Inquisizione), accusa Maria Pia Garavaglia, ministro democristiano della
sanità
che ha approvato l'opuscolo, di non essere cattolica: "Non può essere cattolico chi nega l'insegnamento
della
chiesa, ribadito dal ministero di Leone XII e Giovanni Paolo II nella recente enciclica Veritas Splendor
("Corriere della Sera", 11-11-94). Il ministro replica sdegnato, sostenendo che, in quanto funzionario
di stato,
ella ha il dovere di rappresentare sia i cattolici che i non cattolici. Non si rende tuttavia conto che con questa
risposta ha dato implicitamente ragione all'avversario; è infatti evidente che, se un cattolico subordina
le ragioni
della politica a quelle della dottrina, si pone fuori dalla chiesa. Si veda invece Pivetti, di gran lunga più
lucida,
rigorosa e consapevole, a proposito della 194: "un cattolico non può firmare quella legge" ("Corriere
della Sera",
28/8/94). Garavaglia, a dimostrazione della sua impreparazione, si spinge anche oltre; in una successiva
intervista giunge quasi all'eresia, affermando che ciò che conta, in ultima analisi, è "la coscienza
individuale"!
Mi conceda, signora Garavaglia, ciò che conta, in ultima analisi, per un cattolico, è il magistero
della chiesa:
non solo lei ha fatto l'apologia di uno dei dogmi protestanti ma, ne sono sicuro, lo ha fatto senza neanche
accorgersene.
Pivettiana 2: l'epistemologia Il
progetto pivettiano è tutt'altro che nuovo. Risale alla creazione della macchina totalitaria creata dal
papato
e dalla curia romana nel tardo cinquecento, modello di ogni totalitarismo successivo. Esso si fonda
sull'elaborazione di un paradigma euristico costruito su una particolare interrelazione dei concetti di
verità,
libertà e coscienza. Semplificando all'eccesso: la verità è una e indiscutibile, essa
è incapsulata
nell'interpretazione della Sacre Scritture fornita dalla chiesa di Roma, l'esercizio della libertà è
inseparabile dal
rispetto di questa verità morale e divina, la coscienza è realmente libera solo e soltanto se
è in grado di
sanzionare i comportamenti fondati sulla verità. A questo punto mi piacerebbe proporvi un'analisi degli
scritti
dei grandi apologeti della Controriforma, di Carafa e Vitoria, Botero e Loyola, Bellarmino e Ribadeneyra, ma
non è necessario passare due settimane in biblioteca per identificare i costituenti di questo progetto;
sarà
sufficiente la Veritas Splendor, l'enciclica del signor Woytila pubblicata l'anno scorso, che li ripropone pari pari.
Mi si conceda una lunga citazione:
In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad
esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la
sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza
o quelle che sono
esplicitamente atee. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del
giudizio morale,
che decide categoricamente ed infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la
propria
coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto
stesso che proviene dalla
coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un
criterio di sincerità, di
autenticità, di "accordo con se stessi", tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente
soggettivista del giudizio
morale. Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione
la crisi intorno alla verità. Persa
l'idea di un verità universale sul bene, conoscibile alla ragione umana, è inevitabilmente
cambiata anche la concezione
della coscienza; [...] ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in
modo autonomo,
i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la
quale
ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri
(Veritas Splendor, EDB, Bologna 1993,
p.28, corsivi nel testo).
Raramente capita di trovarsi di fronte a scritti tanto emblematici e significativi.
Varrebbe la pena commentare
ogni singola frase; mi limiterò però ai corsivi. La crisi intorno alla
verità: il teologo polacco è consapevole che il rapporto tra autorità e
libertà si impernia
infine sulla statuto della verità e che, se si accetta l'idea dell'incertezza della verità ultima, non
conoscibile per
l'uomo, ciò produrrà in primo luogo il discredito di ogni autorità fondata sulla pretesa
di essere depositaria di
verità ultime e, in secondo luogo, il ricorso alle facoltà della coscienza individuale. Ma una
"simile
interpretazione dell'autonomia della ragione umana", dice il signor Woytila, "comporta tesi incompatibili con
la dottrina cattolica" (p. 32). Sua: se i singoli ricorrono alla loro ragione per decidere della
natura morale delle cose, ciò provocherà, date le
differenze tra gli intelletti umani, una moltiplicazione dei modelli di comportamento, causando la crescita di
atteggiamenti che "propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti"; ciò comporterebbe
la
negazione del principio "della dipendenza della libertà dalla verità" (p. 30). Esaltare
la libertà...: l'idea di un "presunto conflitto tra la libertà e la legge" porta ovviamente
a demandare alla
libertà la facoltà di "creare i valori", in modo che "la verità stessa sarebbe considerata
una creazione della
libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente significherebbe
la sua
sovranità assoluta". Invece, la libertà ha dei limiti: "deve arrestarsi" di fronte al giudizio sul
bene e il male,
"essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo". E proprio in questa accettazione
"la libertà
dell'uomo trova la sua piena realizzazione" (pp. 30-31)- La libertà come obbedienza, quindi. In
particolare, come obbedienza alla legge divina. E, poiché
l'interpretazione della legge si fonda sulla "competenza dottrinale specifica da parte della chiesa e del suo
magistero" (p. 32), l'intera costruzione woytiliana si presenta come un progetto di asservimento totale di tutti
i membri della società ai dettami della curia papale, senza eccezione alcuna. Non mi sembra il caso di
soffermarsi troppo sulle elaborazioni del vescovo di Roma, i cui presupposti sono sin troppo espliciti e le cui
tecniche argomentative sono talmente rozze da poter impressionare solo i fedelissimi. L'idea che, per esempio,
in una società laica le determinazioni del bene e del male da parte dei singoli siano "categoriche e
infallibili"
mostra la sostanziale capacità di cogliere la natura dell'individualismo moderno, basato su un progetto
di
crescita intellettuale e mutazione concettuale che trova i suoi fondamenti proprio nel rifiuto di concedere lo
statuto di certezza e infallibilità alla conoscenza di qualunque ente. oppure, possiamo notare come
dall'analisi
manchi completamente la consapevolezza della distinzione tra sfera privata e sfera pubblica (la più
grande
innovazione teorica della civiltà liberale); per il signor Woytila ogni azione sembra configurarsi come
assoluta
(ovvero relazionabile soltanto al comando divino), indipendentemente dall'ambito in cui essa ha luogo; che un
atto produca conseguenze immediate solo sulla persona che lo compie, o solo sulle persone che lo compiono
(consensualmente), non afferisce in alcun modo alla sua natura. Tornando a Pivetti, dovrebbe ora essere
evidente quanto il suo programma rispecchi coerentemente e
lucidamente il pensiero della chiesa. Eliminare gli avversari in nome del proprio possesso esclusivo della
verità,
costruire un regime totalitario fondato sull'universalità del messaggio cristiano, demandare alla chiesa
cattolica
e ai suoi pronunciamenti dottrinali il diritto di decidere della natura morale delle cose: il presidente della
Camera interpreta alla perfezione le direttive fondamentali del progetto.
Pivettiana 3: la
cultura Unica deficienza del pensiero pivettiano m i sembra essere
la scarsa consapevolezza delle matrici culturali in
gioco. Nei pronunciamenti del presidente della Camera sono poste a confronto due civiltà, due nozioni
di
progresso, due ethosetico-politici: da una parte la cultura della libertà, della
responsabilità individuale,
dell'autonomia del singolo, dall'altra la cultura della repressione, dell'uniformità coartata,
dell'autoritarismo
intellettuale. Se Pivetti non è del tutto consapevole, altri lo sono. Nella Veritas Splendor
signor Woytila, in
alcuni punti strategici del testo, rimanda ai decreti tridentini sulla giustificazione, correttamente situando lo
spartiacque nella coscienza europea all'epoca della Riforma protestante. A partire da Lutero e dai suoi seguaci
(si trattasse di ortodossi uomini di chiesa o di eterodossi entusiasti, mistici e libertini), nella teologia morale -
e di là nella filosofia politica, nei modelli intellettuali, negli stili di vita - compare ciò che
maggiormente
paventano il vescovo di Roma e i suoi fedeli: la valorizzazione del giudizio privato contrapposto
all'autorità
della chiesa, dello stato, della società, del partito, dei genitori. Questa è l'idra da sconfiggere,
l'idea da
distruggere: l'individuo che si pronuncia sulla natura delle cose in base ai dettami della sua
coscienza. Questa consapevolezza culturale è facilmente riscontrabile negli scritti del probabile
ministro degli interni del
governo papale auspicato da Marcello Veneziani: il signor Joseph Ratzinger, cardinale prefetto della
Congregazione vaticana per la dottrina della fede (traduzione: capo dell'Inquisizione), tra i più fini
espositori
della dottrina della chiesa. Si legga il passo chiave - dal punto di vista etico-politico - del suo recente documento
sui divorziati:
L'errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un
divorziato risposato, presuppone
normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della
propria
convinzione, dell'esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione. Ma una tale
attribuzione
è inammissibile. Il matrimonio infatti, in quanto immagine dell'unione sponsale tra Cristo e la sua
chiesa, e nucleo di base
e fattore importante nella vita della società civile, è essenzialmente una realtà pubblica
("L'Avvenire").
Tutti gli elementi del modello sono presenti, non escluso il tentativo di trasformare
il privato in pubblico (con
una motivazione palesemente ridicola), pretendendo poi di essere gli unici giudici legittimi in materia. Il signor
Ratzinger è stato tra i protagonisti del revanscismo cattolico; nel 1990, con il suo Rapporto sulla
fede
d'occidente, ha anticipato molte delle idee espresse nella Veritas Splendor, proponendo
ai credenti
un'interpretazione "forte" del ruolo della chiesa: "tutto ciò che esiste è, nella sua origine,
ragionevole, perché
proviene dalla ragione creatrice di Dio". La verità ultima è discernibile, perché il
Signore "rivolge la sua parola
a noi, creature finite". I pericoli provengono da coloro per i quali "la verità viene volentieri sostituita
dai
'valori'"; ben diversa è la "pace universale" auspicata dalla chiesa, fondata sul riconoscimento oggettivo
del
reale, il cui statuto è deciso e determinato dall'autorità ("Il sabato", 31/3/90, pp.
84-85). Qualche mese dopo, un altro intervento del cardinale prefetto indica con maggior precisione
l'avversario.
Lamentando la crisi dell'immagine cattolica del sacerdozio "definita dal Concilio di Trento", ne attribuisce la
causa ai "vecchi argomenti della Riforma del sedicesimo secolo", identificando poi il nocciolo del problema
in un'opposizione concettuale emblematica: nell'ottica della Riforma e dell'"epoca cosiddetta liberale",
Gesù
Cristo "contrappose "a una religione deformata in ritualismo una pura etica, a una religione comunitaria e
collettiva la libertà e la responsabilità del singolo" ("Il Sabato", 13/10/94). Questo è
il nucleo culturale - non esplicitato - del progetto di Irene Pivetti. Anche in questo caso sembra di
rintracciare un comune filo rosso tra le esternazione del presidente della Camera e le elaborazioni dottrinali delle
gerarchie romane: la sottrazione del giudizio privato al singolo, con la conseguente proibizione di modellare
il suo comportamento secondo questo giudizio. A ciò si aggiunge, neppure tanto occultamente, il
programma
totalitario descritto mezzo secolo fa da George Orwell: costringere ognuno ad amare il Grande Fratello (in
questo caso non è difficile identificarlo). Ancora una volta, mentre i suoi correligionari che presumono
di
criticarla fondano i loro cosiddetti argomenti sulla propaganda della chiesa, su dichiarazioni estemporanee di
suoi portavoce, o magari su elaborazioni di persone che non rappresentano in alcun modo il pensiero del
Vaticano, il presidente della Camera costruisce rigorosamente i suoi programmi politici sulla base
dell'insegnamento delle massime autorità cattoliche.
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