Rivista Anarchica Online
Nel campo di Anghiari
di Alfonso Failla
Nella testimonianza (tratta da «L'Agitazione del Sud», settembre 1966) di uno dei protagonisti delle lotte nelle
isole di confino e nelle carceri fasciste, la storia del campo di concentramento di Renicci d'Anghiari. Nel 1943.
Dopo il 25 luglio 1943 - data della caduta del fascismo - la liberazione dei
confinati politici che si trovavano
in quella data nell'isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio,
rifacendosi alle tradizioni dell'Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti
incominciando, nell'ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare
tradizionale, noi anarchici, esclusi dalla liberazione - di fronte al progressivo avanzare nel Sud degli eserciti
anglo-americani - fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di
Arezzo. Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti iugoslavi e albanesi ed alcuni
antifascisti
italiani. C'imbarcarono intorno al 20 d'agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio
di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal
porticciolo di
Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti
prigioniero nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano. Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i
primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli
e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da
carabinieri
ed agenti della P.S. Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i quali i fratelli
Girolimetti, Giorlando
ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale
contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all'altra, si disse per
proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani
e le
nostre proteste per la nostra mancata liberazione. Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio
compagno Arturo Messinese fallito per un casuale
incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati
temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il
fascismo incontrarono lo stupore e l'indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica
comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo
per l'ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna
ed ospite, con noi, nell'isola di Ventotene durante la seconda guerra mondiale.
«Sparate vigliacchi!» Alla partenza da Ventotene,
di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c'era stato promesso che
saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di Arezzo si
rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere. Dopo,
durante la
resistenza, sarà fucilato dai nazi-fascisti nel poligono di Reggio Emilia. Arrivati, sull'imbrunire,
alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai
quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l'ordine di caricare le armi. Protestammo
energicamente. In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni
Marcello Bianconi e
Arturo Messinese gridarono: «Sparate vigliacchi!». Perciò furono immediatamente condotti in cella
di sicurezza.
Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento. Questo
era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani
jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre
più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano morti a causa del
pessimo
trattamento. In cambio la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e
carabinieri, richiamati, quest'ultimi, dalle regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore
Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proibito che gli internati
delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare
reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le
minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l'arresto dei compagni
Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercé.
Costituivamo,
insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell'esilio in Spagna, l'aggruppamento più provato
dalle lotte
che in carcere e al confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari,
oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia
e della
polizia fasciste. E l'odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro
gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di
comunicazione tra
i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato
da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo
alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone, decise di togliere il divieto
di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era
costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non
sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e
dissenteria. I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che
all'appello
mattutino noi si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di capo-reparto, ci avesse contati
e presentati all'ufficiale di ispezione.
Solidarietà internazionale Continuammo
per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra gli ufficiali specialmente, era al parossismo.
Il compagno Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all'urto, intervenne. Ci pregò di non formalizzarci
e si
assunse egli l'ingrato compito. Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro accettarono
il
compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel presentarci senza formalità all'ufficiale lo
superavano in
altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla «incoerenza» di Emilio Canzi che allora aveva già nella
mente la
costituzione dei primi nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul finire della guerra, costituivano
un insieme di circa diecimila uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il campo, comunisti
o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati
da
profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero formalmente osservanti della disciplina al punto
che nel presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse truppe che li tenevano prigionieri. La
nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi non richiesta, impresse uno spirito nuovo
nel loro
comportamento e l'Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la patria del fascismo che li
opprimeva
ma anche di uomini militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei popoli. Questo spirito
internazionalista risorto dall'azione nei cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due prigionieri, uno slavo
e un anarchico italiano, la sera del 9 settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con l'aiuto
di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini nell'Italia centro-settentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i
preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che ripresero il sopravvento sulla parte moderata del
comando. In tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi vedevamo ogni mattina allinearsi
disciplinatamente si rivelarono formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in tutte le
sezioni
chiesero al comando militare le armi per marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola vibrante
Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che dividevano con noi l'internamento a Ventotene. In quel
momento udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto armato, di corsa. Non dubitai che esso
si sarebbe diretto prima che altrove alla nostra sezione per l'odio che i fascisti risentivano contro noi anarchici,
ultimi arrivati. Mi diressi perciò all'entrata per osservare ciò che stava per accadere, in tempo
per udire
chiaramente l'ordine dato dal maggiore Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di sparare
subito dopo avere intimato seccamente agli internati l'ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni.
Non tutti gli internati ebbero il tempo di rendersi conto di ciò che accadeva. Subito dopo i primi spari
di fucileria
del picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente
sulle torrette di guardia che cingevano il campo.
Silenzio apparentemente disarmato
Premeditazione o paura? Le salve furono soverchiate dai sibili dei
proiettili. Sul terreno restarono feriti un
internato jugoslavo ed il compagno Aldeghiari, di Verona, colpito allo stesso braccio in cui era stato ferito in
Spagna nella guerra contro Franco. Un'ondata di violenza terroristica si scatenò contro di noi
all'interno dei dormitori. All'entrata, nel nostro
camerone del tenente Panzacchi, in testa ai suoi soldati e carabinieri, un giovane jugoslavo gridò:
vigliacchi!
Pochi minuti prima io avevo insistito ad accompagnare Aldeghiari fuori dalla porta del camerone, che ci
imponevano di non oltrepassare in quel momento, affinché lo medicassero senza perdere tempo, cosa
che era
stata fatta ma che aggiungeva contro di me altri motivi di risentimento a quelli che avevamo dati nei giorni
passati. Il tenente Panzacchi mi disse a bruciapelo: «Siete stato voi a gridare vigliacchi»! Risposi: «Non sono
stato io ma, certamente, non siete degli eroi»! Con me nel camerone erano centinaia di compagni. Il silenzio
apparentemente disarmato di quegli uomini era
più forte delle centinaia di uomini armati. Ancora una volta lo spirito indomito della nostra resistenza
disarmò
coloro che ci tenevano sotto il controllo a vista delle loro armi. Ne uscii soltanto con un colpo di baionetta ad
una tempia che però ricevetti dalla parte piatta per essermi tempestivamente abbassato. Era il regalo
- non
andato a segno - di un brigadiere dei carabinieri che aveva tolto il fucile con l'arma innestata ad un suo
subalterno. Nei giorni che seguirono alcuni anarchici italiani, evasi dal campo di Renicci insieme ad albanesi
ed jugoslavi, costituirono i primi gruppi partigiani che operarono nella zona tosco-marchigiana. Altri si diressero
in tutte le direzioni.
In direzioni diverse Prima di chiudere questo
modesto ricordo dei numerosi compagni che poi lasciarono la vita nella lotta contro
il nazifascismo o negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle isole di confino del regime fascista,
voglio rievocare la grandezza umana di un ufficiale di comando di Renicci di Anghiari. Aveva in consegna una
quarantina di noi per condurci alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere liberati. In viaggio
gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci
là equivaleva a portarci alla morte. Quell'ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo
dimostrava idealità fasciste però era alieno da atti
arbitrarii come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega. Alle nostre insistenze, arrivati in
località
S. Firenze pochi chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e, chiamati in disparte chi scrive e
Mario Perelli, ci consegnò l'elenco del nostro gruppo dicendomi: «Voi siete responsabili di questi
uomini!»
Quindi fece girare il camion e ritornò con i soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep,
fiorentino, veniva
dagli alpini. lo e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si sciolse e ciascuno si
avviò in direzioni diverse
verso tutte le strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia vera della lotta per la libertà.
Storia
che deve sempre essere «fatta» prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e sistemano arbitrariamente i
fatti della storia, possano scrivere la «storia» che non hanno «fatta». E questo è un discorso che
può anche essere valido in relazione agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri
che restano da ricordare.
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