Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 216
marzo 1995


Rivista Anarchica Online

La legge della comunità
di David Hartley.

Controllo e punizione nel pensiero libertario

La critica che mette in discussione il modo in cui l'anarchismo tratta il problema del comportamento antisociale in una società senza stato deriva da questa tesi: siccome la libertà individuale viene considerata un valore superiore a qualsiasi autorità, ciò comporta «la totale licenza del teppista e del truffatore» (1). Dato che si tratta di una prospettiva poco auspicabile, lo stesso varrebbe per la filosofia che ne sostiene la realizzazione. D'altro canto, un altro critico ritiene che la società anarchica non abbia bisogno di nessun tipo di controllo sociale, dato che gli individui non farebbero che «collaborare con spirito fraterno» (2). Si tratta di due opinioni scarsamente informate sull'anarchismo comunitario, perché, come ha ammesso Petr Kropotkin in uno dei suoi momenti di maggiore realismo, la questione non è l'esistenza o meno delle ingiustizie, ma piuttosto quella di «come sia possibile limitarne il numero» (3).
Tutti i vantaggi sociali e tutte le finalità individuali che l'anarchismo cerca di realizzare presuppongono il raggiungimento di un livello auspicabile di ordine sociale, e si considera che le regole di comportamento dei singoli, verso il conseguimento e la conservazione di quest'ordine in una società anarchica comunitaria, debbano assumere due forme principali (una attiva e una passiva) come avviene in quasi tutte le società. Le forme passive che influenzano la condotta sono quelle che derivano dall'interiorizzazione delle norme generali di comportamento della comunità che, nella misura in cui diventano abituali con la socializzazione, rappresentano norme autosufficienti (4). Anche nelle società statizzate questo processo è forte abbastanza da far sì che quasi tutti si astengano dal compiere azioni antisociali, come la frode, il furto e l'omicidio (5). Dove invece l'interiorizzazione di norme etiche non riesce e l'autocontrollo è insufficiente, è possibile utilizzare le forme attive di controllo sociale nei confronti di coloro le cui azioni antisociali sono talmente gravi da costituire un problema per la comunità.
Il metodo anarchico di controllo attivo presenta tre caratteristiche fondamentali. Prima di tutto, cerca forme di controllo che assicurino la prevenzione contro la recidività, e rifugge così dalle filosofie punitive, tradizionali dello statalismo, che pretendono un castigo per chi commette un reato, mascherandolo sotto la forma di una pena meritata, e senza considerare se questo cambi davvero in meglio il comportamento del singolo. In secondo luogo, gli anarchici favoriscono l'impiego di sanzioni psicologiche e non di coercizioni fisiche per garantire comportamenti adeguati (anche se ci saranno situazioni in cui solo la violenza può essere efficace, se si deve evitare un'ulteriore violenza). Queste sanzioni possono assumere varie forme, a seconda della loro efficacia nel prevenire la recidività del reato. In certi casi possono essere informali (come quando basta un blando rimprovero tra amici che discutono), in altri si può imporre formalmente una temporanea censura della comunità nei confronti di chi ha commesso il reato. Nei casi estremi, nei quali il reato è troppo grave e non si può permettere che si ripeta, può esserci il totale ostracismo dalla comunità, se si valuta che altre sanzioni non raggiungano lo scopo (6).
La terza caratteristica del controllo attivo secondo la teoria anarchica, e la sola sulla quale mi soffermerò qui, facendo riferimento agli scritti di Kropotkin, è l'impiego del termine comunità per indicare una forma di organizzazione sociale che deve prendere il posto di quelle stataliste per regolare i comportamenti (anche se nella variante passiva). Il concetto di comunità è ambiguo e problematico in quest'ambito, perché se ne fa ricorso in altri contesti, nei quali le dimensioni prese in considerazione implicano che la comunità non possa funzionare a un dato livello come l'unità economica di una futura società anarchica e, nello stesso tempo, è la risposta anarchica più appropriata al problema dell'ordine sociale (7). La discrepanza tra i due concetti è evidenziata dalla tesi di Kropotkin, secondo la quale una futura società anarchica non deve regredire e diventare una sorta di forma comunitaria isolazionista e pre-industriale, ma deve saper cogliere i vantaggi tecnologici della modernità attraverso la formazione e la federazione di comuni agroindustriali. Questo sistema organizzativo mira a un concetto di comunità sviluppato a livello comunale, che è diverso, in termini sia quantitativi sia qualitativi, da quello di una comunità intesa come normatrice dei comportamenti antisociali. La comune può funzionare come una delle forme di controllo passivo, ma non come l'unica forma, e non lo si può considerare una forma efficace di controllo attivo (8). Perché lo sia, devono esistere al suo interno comunità più piccole, in grado di assicurare un controllo attivo efficace, il che implica un livello molto più ridotto, al quale deve operare il concetto di comunità. Se la comunità, così come è concepita dagli anarchici, deve funzionare come condizione necessaria al mantenimento di un grado auspicabile di ordine sociale, essa va vista come operante su due livelli: quello di comune per garantire una forma importante di controllo passivo, e uno più piccolo, che potremmo chiamare di quartiere, come idoneo catalizzatore del controllo attivo. Prima di affrontare questo argomento specifico, tuttavia, sarà forse meglio chiarire che il rapporto tra le comunità e il loro ruolo di controllo sociale non sembra affatto rappresentare un problema.

Cooperazione e controllo
Il raggiungimento e la conservazione di un certo grado minimo di ordine sociale è un bene collettivo che gli anarchici desiderano realizzare, ma non è l'unico; inoltre, dipendendo da fattori che riguardano il grado di tolleranza della comunità o i costi richiesti, non va neanche considerato il più importante, perché il livello auspicato di ordine sociale potrebbe presumibilmente essere sempre più alto. La difesa del comunismo economico di Kropotkin presume che un altro di questi vantaggi per la collettività sia la fornitura di beni comunitari (essendo liberamente disponibili al consumo, rappresentano un beneficio per tutti, anche se non tutti partecipano alla produzione) (9). L'idea che le persone non vogliano contribuire in numero sufficiente all'approvvigionamento di questi beni economici è sempre stata una delle tradizionali giustificazioni per l'esistenza dello stato (10). Si è comunque ammesso che le piccole comunità possono coordinare la produzione e la distribuzione di beni economici, in un modo che rispetti il principio distributivo del bisogno e senza ricorrere a un'autorità centrale o a un meccanismo di mercato (11). Si è anche riconosciuto il fatto che questi gruppi sono allo stesso modo in grado di mantenere un certo grado di pace sociale, senza degenerare in quel bellicoso stato di natura descritto da Thomas Hobbes (12). Da un punto di vista empirico M. Taylor ha sostenuto che si può mantenere l'ordine sociale in assenza dello stato se i rapporti interpersonali presentano le tre caratteristiche sostanziali della comunità: comunanza di credenze e di valori, contesto diretto e pluriorientato (cioè non esistono mediazioni di terzi e il tutto avviene in una varietà di contesti), reciprocità attraverso pratiche di mutuo appoggio, di cooperazione e di partecipazione (13).
La conclusione a cui arriva Taylor, secondo il quale per mantenere l'ordine sociale, le comunità devono essere relativamente piccole e stabili (dato che col crescere delle loro dimensioni ogni condizione si stempera, si attenua e si riduce) (14), si ritrova anche in M. Oslon, che sostiene l'importanza delle dimensioni in un contesto di problematiche collettive (15). Il punto essenziale di questa argomentazione è che quanto più piccolo è il gruppo, tanto maggiore dev'essere il contributo dei singoli per il raggiungimento di una finalità comune mentre all'opposto quanto più grande è il gruppo, tanto minore è il contributo richiesto ai singoli, e quindi tanto più facile diventa rinnegare il proprio impegno e tentare di sfruttare gli sforzi altrui. Quando il gruppo è di dimensioni limitate, è più probabile che si realizzi una collaborazione volontaria, ma con il crescere delle sue dimensioni cresce la necessità di costringere i singoli a realizzare l'interesse comune (16).
Fino a questo punto, non sembrano esserci grosse difficoltà nell'evidenziare l'importanza delle dimensioni del gruppo per la realizzazione di due importanti vantaggi collettivi. Come hanno riconosciuto gli anarchici, riprendendo le preoccupazioni di Platone, di Aristotele e di Jean Jacques Rousseau rispetto al problema delle dimensioni, esistono ottime ragioni per ammettere che alle dimensioni di una comunità vada posto un limite massimo, oltre il quale la complessità della vita sociale richiede soluzioni organizzative e produce rapporti interpersonali che divergono da quelli caratteristici della comunità. La questione generale è che, con l'aumento della popolazione, non solo diventa più complesso il coordinamento della vita comunitaria, ma anche per i singoli individui al suo interno diventa più difficile stabilire e conservare rapporti diretti e personali, e si arriva così a una certa diluizione dei rapporti comunitari nel loro insieme (17). Pertanto, solo se un gruppo è relativamente ridotto e presenta le caratteristiche della comunità, l'analisi teorica e le prove empiriche dimostrano più che a sufficienza che si possono realizzare l'ordine sociale e il comunismo economico in assenza dello stato. Per dirla in modo più chiaro: nelle circostanze che gli anarchici cercano di descrivere con il concetto di comunità, le persone possono collaborare al punto da assicurare il raggiungimento del comunismo economico e il mantenimento dell'ordine sociale.
Si potrebbe però obiettare che questa argomentazione è erronea: la cooperazione non garantisce il mantenimento della pace sociale, perché il ragionamento presume due atteggiamenti distinti sotto la voce vantaggio collettivo, e non è certo che lo stesso tipo di attività cooperativa, che (a quanto si sostiene) favorisce l'ordine sociale, possa anche realizzare rapporti economici di tipo comunista. Quando la comunità provvede ai beni collettivi, gli atteggiamenti e i comportamenti dei singoli sono sostanzialmente quelli che richiedono un contributo e una limitazione. Il primo caso riguarda soprattutto quei beni che si realizzano con la partecipazione attiva dei singoli, il secondo quelli che si ottengono e si conservano quando gli individui si autolimitano ed eseguono certe azioni. Così, per esempio, gli individui contribuiscono direttamente, con la propria forza-lavoro, alla realizzazione di un bene economico pubblico, mentre contribuiscono indirettamente al mantenimento dell'ordine sociale, non impegnandosi in attività criminali. Non esiste allora un chiaro legame tra i due comportamenti, il contributo e la limitazione, perché io posso contribuire alla realizzazione di un bene pubblico cooperando con gli altri, ma non ho bisogno della loro collaborazione, come condizione necessaria, per autolimitarmi e per non compiere azioni antisociali. Pertanto il ragionamento non riesce a mostrare come la cooperazione di per sé sia connessa al concetto di limitazione individuale che, come rilevato prima, è in ogni caso possibile soprattutto attraverso la socializzazione passiva ed è la principale ragione che impedisce di commettere reati. Il realizzare la cooperazione per produrre beni economici non è quindi affatto una garanzia del fatto che si realizzi anche un grado auspicabile di ordine sociale.
Gli anarchici possono tentare di controbattere a questa critica sottolineando il fatto che nel loro concetto di comunità la cooperazione svolge davvero un ruolo significativo rispetto alla limitazione dei singoli, almeno in due modi. L'esempio più ovvio riguarda il caso particolare delle conseguenze rovinose di un parassitismo generalizzato. Anche se l'effetto sociale di una mia azione antisociale può non avere conseguenze se preso da solo, sorgerebbero problemi seri e sgradevoli se molti individui compissero la mia stessa azione: questa considerazione può per me essere una ragione sufficiente per impedirmi di compierla. In questo caso c'è un concetto implicito di cooperazione sociale che si può esprimere nella forma della limitazione reciproca: solo se ogni persona o un numero sufficiente di persone si autolimita, si può considerare che il gruppo presenta un comportamento collaborativo, al fine di annullare gli effetti deleteri che ci sarebbero laddove molti individui dovessero eseguire le azioni antisociali in questione.
L'altro modo in cui la cooperazione svolge un ruolo di limitazione del comportamento è quello che passa attraverso il coinvolgimento reciproco dei membri della comunità, al fine di mettere in moto forme attive di controllo sociale. In contrasto con la posizione anarchica, i metodi e le procedure che limitano gli individui nelle società stataliste sono utilizzabili qualsiasi sia il grado di cooperazione sociale: non c'è bisogno della partecipazione dei singoli e della loro collaborazione, per correggere il comportamento antisociale di qualcuno, dato che esistono enti specifici che si sono appropriati di questa funzione e possiedono un certo grado di legittimità pubblica per esercitare i loro poteri di correzione. Però, come dimostrano le riflessioni (18) di Kropotkin sull'argomento, gli anarchici prevedono che il compito di regolare il comportamento antisociale debba ritornare alla comunità nel suo insieme, e dalla sua analisi appare chiaramente che se questo controllo vuol essere un'efficace alternativa allo stato, esso richiede un forte coinvolgimento nella vita comunitaria:
La vita familiare, basata sulla comunità originaria, è scomparsa. Una nuova famiglia, che si fonda sulle aspirazioni della comunità prenderà il suo posto. In questa famiglia tutti saranno obbligati a conoscersi, ad aiutarsi e a contare sul sostegno morale degli altri in qualsiasi circostanza. E questo sostegno reciproco impedirà gran parte di quelle azioni antisociali cui oggi assistiamo ... Non bisogna averne paura in una società di uguali, in mezzo a uomini liberi, che hanno tutti avuto una valida educazione e hanno acquisito l'attitudine all'aiuto reciproco. La maggior parte di queste azioni non avrà più alcuna ragion d'essere. Le altre saranno stroncate sul nascere. Quanto a quegli individui con tendenze perverse, che la società attuale ci lascerà in eredità dopo la rivoluzione, sarà nostro compito impedire che mettano in atto le loro inclinazioni. Questo avviene già con ottimi risultati grazie alla solidarietà di tutti i membri della collettività contro questi aggressori. Se in ogni caso non riuscissimo, l'unico correttivo pratico sarà comunque una cura fraterna e il supporto morale (19).
La manifestazione specifica della mutua limitazione e del mutuo coinvolgimento, come strumenti che regolano la condotta dei singoli, indica in qual misura i metodi di controllo sociale degli anarchici, se vogliono dare risultati, presuppongono un grado significativo di cooperazione volontaria tra i membri di una comunità anarchica. Si è anzi tentati di dire che se una comunità anarchica ha raggiunto un certo grado di coinvolgimento reciproco nella produzione volontaria di beni collettivi, tale da poter tollerare persino qualche forma stabile di parassitismo, ha anche risolto il problema di far sì che i singoli collaborino all'individuazione di certe azioni antisociali, e a stabilire e a mettere in atto le eventuali sanzioni. Come sostiene Taylor:
Il mantenimento del sistema di sanzioni costituisce o presuppone di per sé la soluzione di un altro problema di intervento collettivo. Punire qualcuno che non si è conformato alla norma: punire qualcuno che sfrutta la fatica degli altri, per esempio, è già una cosa di pubblico vantaggio per il gruppo in questione, e chiunque preferirebbe che fosse un altro a fare questo lavoro sgradevole. Così, la "soluzione" ai problemi di questo tipo presuppone di norma la soluzione di un problema collettivo precedente o collegato a questo (20).
Su queste linee gli anarchici sono stati indotti a supporre che avanzando un concetto di comunità che sottolinea la cooperazione sia come impegno reciproco, sia come mutua limitazione, essi avrebbero (in teoria) risolto nello stesso tempo tutti e due i problemi relativi al bene pubblico, quello della produzione comunitaria e quello dell'ordine sociale. La comunità viene vista come qualcosa che facilita la cooperazione e i rapporti cooperativi arrivano a costituire la base di una comunità anarchica. Però, il ragionamento funziona fino a un certo punto, poi diventa, per qualcuna delle ragioni prima indicate, meno valido col crescere delle dimensioni della comunità. Anzi, il problema che si trovano davanti gli anarchici comunitaristi è più complesso di quanto non dica questa relazione, perché ci deve essere una compensazione tra le dimensioni più piccole possibili che la comunità deve avere per avere le più efficaci forme attive di controllo sociale, e quelle più grandi possibili che deve raggiungere per essere un'unità economica autosufficiente e per soddisfare i bisogni previsti dei suoi membri. Il problema di regolare la condotta, in rapporto a una concezione di comunità che esprima il principio centrale di comportamento e di organizzazione di una società anarchica, nasce così dalle diverse considerazioni di scala relative alla produzione di due generi di beni collettivi, che gli anarchici vogliono realizzare. Per prendere coscienza della tensione insita nella realizzazione di questi due obiettivi occorre pertanto avere una nuova concezione dei livelli a cui opera la comunità, un dei quali è la comune.

La comunità e i suoi limiti
Nel quadro che Kropotkin traccia della futura società anarchica, l'unità economica di base, che deve realizzare i principi comunisti, è la comune agro-industriale. Pur avendo dimensioni limitate, si immagina che le comuni siano abbastanza grandi da produrre altri beni oltre a quelli indispensabili a soddisfare bisogni essenziali e semplici (dato che il principio generale stabilisce che, se una comune ha bisogno di certi beni e li può produrre da sola, lo deve fare). Dopo aver garantito la soddisfazione di tutti i bisogni, la comune deve «adoperarsi per soddisfare tutte le manifestazioni della mente umana» (21) e, come esige il «fine supremo» (22) della libertà del tempo, le comuni sapranno procurare beni più raffinati grazie alla rete cooperativa della loro federazione. Kropotkin non indica quali potrebbero essere le dimensioni massime della comune, ma basandosi su una serie di ricerche e di dati, Kirkpatrick Sale ha affermato che queste dimensioni sembrano oscillare tra i cinque e i diecimila (23).
Anche se non riguarda specificatamente l'anarchia, il suo ragionamento è comunque pertinente, perché cerca non solo di quantificare il limite entro il quale la comunità degrada nel modo che abbiamo indicato prima, ma mostra anche come una popolazione di queste dimensioni può armonizzarsi con la visione economica di Kropotkin rispetto alla comune. Sale cita Leopold Kohr, che sostiene che una società di circa quattro o cinquemila persone «sembra in grado di fornire ai suoi membri gran parte delle merci che per noi servono a uno standard di vita elevato, ma anche di dotare ogni persona di uno spazio di tempo libero, senza il quale essa non potrebbe svolgere la sua funzione originale di socializzazione» (24). Ulteriori riflessioni portano Sale a concludere che «una comunità di cinque o diecimila persone garantisce le dimensioni necessarie a una vera indipendenza economica ... [entro le quali] ... l'autosufficienza agricola e i sistemi energetici comunitari sono più economici ed efficienti, e a questo livello la forza-lavoro disponibile per il resto delle attività economiche (rispetto alle attuali percentuali americane) sarebbe tra le due e quattromila persone, più o meno equamente suddivise tra industria e servizi» (25).
Se la popolazione massima di una comune è quindi diecimila persone, le questioni più importanti che il concetto anarchico di comunità deve affrontare sono due. In primo luogo, se gli individui hanno libero accesso ai beni della comune, che cosa li spinge a collaborare volontariamente per garantire la manodopera necessaria alla produzione? In secondo luogo, che cosa si deve fare con coloro che eludono questo impegno e cercano di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro comunitario (26)? Alla prima domanda, basandosi sull'osservazione storica, Kropotkin obietta che i costumi e le istituzioni comuniste produrrebbero una forte identificazione del singolo con la comunità, grazie alla preponderanza dell'aiuto reciproco, cioè di quelle attività che esemplificano la cooperazione tra persone che si sostengono a vicenda, in modo spontaneo o volontario (27). Proprio come nelle società del passato la caratteristica più tipica dell'aiuto reciproco era il lavoro comunitario (28), così lo sarà anche nel futuro. In teoria, la comune raggiungerà un livello superiore di integrazione sociale, rispetto a oggi, e anche di controllo passivo, soprattutto riorganizzando il lavoro secondo quattro linee principali: la comunità dei mezzi di produzione, la soluzione della contraddizione antiegualitaria tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, il rifiuto del principio di retribuzione personale basata sul contributo di lavoro, e la richiesta che tutte le persone capaci con un età tra i 20-22 anni e i 45-50, prendano parte alle attività della comune per quattro o cinque ore al giorno (29).
Tali sono le idee di Kropotkin a proposito della riorganizzazione del lavoro e considera che il suo ruolo in una éducation intégrale crei una fortissima identificazione tra i membri della comune. Il grado in cui la socializzazione abbraccia gli altri rapporti interni alla comune e si esprime abitualmente col principio solidaristico che impone di «trattare gli altri come si vuole essere trattati da loro», dà la misura di come la comune possa funzionare come principale strumento di controllo passivo della condotta individuale. Anche se Michail Bakunin non si spinse così in là come Kropotkin nel sostenere il comunismo economico, accentuò molto l'importanza che un ethos di questo genere può assumere:
La forza del sentimento collettivo o dello spirito pubblico è già oggi una questione molto seria. Gli uomini più disposti a commettere dei reati osano raramente sfidare la legge, affrontarla apertamente. Cercheranno di sfuggirle, ma staranno attenti a non irritarla a meno che non si sentano sostenuti da una minoranza più o meno grande. Nessuno, comunque, per potente che possa sentirsi, avrà mai la forza di sopportare l'unanime riprovazione dei suoi simili; nessuno può vivere senza sentirsi sostenuto dall'approvazione e dalla stima di una parte almeno della società. Un uomo deve sentirsi spinto da un'enorme e sincerissima convinzione per trovare il coraggio di parlare e di agire contro l'opinione di tutti, e non sarà mai un egoista, un depravato e un codardo che avrà questo coraggio (31).
Un modo in cui i singoli possono cercare di ingannare la comunità ci riporta alla seconda questione che gli anarchici devono affrontare rispetto all'approvvigionamento di beni materiali: che cosa si deve fare con chi cerca di sfruttare il lavoro fatto in comune dagli altri? Mancando la costrizione o un incentivo diretto, Kropotkin ammette questa eventualità, per il fatto che il lavoro necessario perché la comune soddisfi i bisogni essenziali è sostanzialmente un lavoro manuale, che chiunque cercherebbe di evitare (32). Lasciando da parte i futuri progressi nella produzione, Kropotkin cerca di sciogliere il difficile nodo tra la motivazione individuale e quella della cooperazione volontaria nella produzione della comune, individuando la prospettiva meno sgradevole tra una serie di eventualità negative: se restasse solo la possibilità che il lavoro necessario non si affronta volontariamente, egli sostiene che sarebbe meglio che tutti ne facessero una parte uguale, se l'alternativa fosse quella di costringere pochi a fare tutto il lavoro. Questo ragionamento, però, non arriva a cogliere il problema reale, cioè che cosa fare con i parassiti, ma riafferma soltanto una delle quattro ragioni illustrate prima, secondo la quale la riorganizzazione del lavoro facilita il controllo passivo a un livello più alto e, per estensione, spiega perché il problema del parassitismo può non essere un problema così grave come qualcuno pensa. L'ambiguità con cui gli anarchici impiegano il termine «comunità» nelle due accezioni fin qui individuate dovrebbe oramai essere chiara. Da un lato la comunità viene intesa come operante a livello della comune, allo scopo di svolgere una serie di funzioni economiche, e anche in questo caso esiste una tensione tra le dimensioni massime che la comune dovrebbe avere per essere un'unità economica praticabile e quelle minime per ridurre il più possibile le tendenze all'organizzazione che possono produrre lo statalismo. Ma dall'altro lato la comunità viene evocata come la risposta appropriata e attiva per regolare i comportamenti antisociali (come il parassitismo). Il problema che sta davanti agli anarchici che immaginano una «comunità» al livello economico della comune è questo: se il controllo passivo non è riuscito del tutto a funzionare e la comunità si trova a dover trattare con individui che commettono azioni antisociali, che cosa ci si aspetta che facciano diecimila persone? La risposta più immediata a questa domanda è che con una comunità di queste dimensioni non possono fare niente. Per ragioni che vanno al di là della preoccupazione di mobilitare soltanto le forme attive di controllo sociale, la comune deve comprendere in sé strutture efficaci di partecipazione, che in ultima analisi sono quelle che la costituiscono. Il che ci porta a un concetto di comunità operante su scala più ridotta, qualcosa di simile a quello che Kropotkin chiama rione. Come per la comune, ci sono buone ragioni per credere che anche il rione abbia un limite massimo, ma a differenza di essa, sembra la forma organizzativa idonea ove la comunità possa operare in modo da garantire una regolazione attiva del comportamento.
Kropotkin non si pronuncia riguardo al modo in cui la comune dovrebbe organizzarsi al suo interno per raggiungere i suoi scopi, ma è chiaro, dai suoi ragionamenti contro il governo rappresentativo, che non vuole nessun tipo di assemblea deliberante diretta di dimensioni intorno alle diecimila persone (33). Per Kropotkin il compito per il futuro era quello di rimodellare i rapporti a livelli territoriali e funzionali appropriati:
... da quelli che esistono oggi tra ogni persona e l'amministratore della sua parrocchia o il capostazione, a quelli che esistono tra le categorie, i villaggi, le città e le regioni. In ogni strada, in ogni borgo, in ogni gruppo di uomini riuniti attorno a una fabbrica o lungo una ferrovia, si deve risvegliare lo spirito creativo, costruttivo, organizzatore, per ricostruire l'intera esistenza nella fabbrica, sulla ferrovia, nel villaggio, nei magazzini, nel provvedere ai rifornimenti, alla produzione, alla distribuzione (34).

La comunità e i limiti massimi del rione
Nella sua analisi storica delle città e delle libere comunità del Medio Evo, Kropotkin vide che le corporazioni erano costituite in modo da rispecchiare gli interessi degli individui in quanto tali, mentre, in quanto membri della comunità, essi «si univano in piccole unità territoriali: la strada, la parrocchia, la sezione» (35). Queste unità territoriali, pur federandosi tra loro, mantenevano ciò nondimeno la propria indipendenza e organizzavano i propri affari in assemblee, consulte e tribunali popolari (36). Proprio come le corporazioni fornirono a Kropotkin il modello di federazione di persone che si associano per perseguire i propri scopi individuali, così le unità territoriali gli indicano l'importanza di forme organizzative di piccole dimensioni, che garantiscano una significativa partecipazione dei singoli alle decisioni che più influenzano la loro esistenza di membri della comunità. Il comunismo anarchico, concludeva, non potrebbe esistere se la sua organizzazione non crea e rispecchia «la vita locale, indipendente delle piccole unità: l'isolato di abitazioni, la strada, il rione, la comune» (37).
Se il concetto di rione viene considerato come livello più semplice di partecipazione formale alla comunità, esistono dimensioni massime relative a questa dimensione comunitaria che assicurino anche il pubblico vantaggio dell'ordine sociale attraverso forme attive di regolamento della condotta? Sale ci viene ancora in aiuto, indicandoci, principalmente per ragioni antropologiche, ma anche trovando una convalida nelle attuali realizzazioni di strutture comunitarie come i kibbutz, che il limite massimo della comunità in questo contesto è di 500 persone (38). Il punto essenziale che sta alla base di questa cifra sembra che sia l'importanza di quella che si definisce la società «faccia a faccia», le dimensioni massime per cui, secondo le parole di un urbanista, «ciascuno conosce la faccia, la voce e il nome di tutti gli altri» (39). L'importanza di questa intimità interpersonale, cosa difficilmente possibile da ritrovare al livello superiore della comune, risulta evidente se si tiene presente che gli anarchici propongono di utilizzare la pressione psicologica in una forma che funziona soltanto se chi non rispetta le regole attribuisce una certa importanza alle opinioni dei suoi compagni: le sanzioni sono più efficaci se sono imposte da chi è emotivamente vicino. In un'opera recente, John Braithwaite ha sviluppato le implicazioni psicologiche di questo principio per costruire una teoria generale e aggiornata sul controllo del crimine. Secondo la sua teoria della «riprovazione-reintegrazione», si può controllare il crimine nel miglior modo «quando i membri della comunità sono i principali controllori, partecipando attivamente a far sentire la loro disapprovazione nei confronti di chi si è reso colpevole di qualcosa e, fatto questo, dando un contributo attivo alla sua reintegrazione nella comunità» (40). Anche se, per Sale come per Braithwaite, la prima preoccupazione non è l'anarchia, la sua teoria sostiene una forma di comunitarismo importante per l'anarchismo in generale e in particolare per le riflessioni sulle dimensioni della comunità qui delineate. In primo luogo, questa teoria va nel senso di molte riflessioni che riguardano il modo in cui una comunità anarchica possa funzionare per regolare in modo passivo i comportamenti (41). Le condizioni della società che Braithwaite considera essenziali, perché il processo riprovazione-reintegrazione abbia successo, sono due e sono le stesse che presenterebbe anche una società anarchica: il comunitarismo e l'interdipendenza. Gli individui che sono inseriti in una rete di rapporti multipli di interdipendenza sono più facilmente soggetti a un'attività di riprovazione nei loro confronti, e le società con maggiori legami comunitari sono più in grado di far sentire vergogna ai loro membri (42). Perché esistano entrambe le condizioni, le interdipendenze non possono basarsi su calcoli di convenienza personale, frutto della filosofia dell'individualismo. Devono invece fondarsi, sulla scorta del concetto kropotkiniano di aiuto reciproco, su un contesto comunitario di lealtà di gruppo, di mutuo impegno e di rapporti di fiducia (43).
Di importanza ancora più grande per la teoria anarchica è la tesi di Braithwaite che collega le forme attive di controllo alle considerazioni di scala. All'opposto di molte opinioni oggi prevalenti, l'evidenza indica che il principale deterrente collegato alla possibilità di essere scoperto è la paura di essere svergognato davanti agli occhi dei propri intimi e non quella di una punizione formale (44).
... al nocciolo il deterrente non sta nella gravità della sanzione ma nell'inserimento sociale: la riprovazione è un deterrente più forte quando è manifestata da persone che sono sempre importanti per noi; quando siamo emarginati, possiamo rifiutare chi ci rifiuta e la riprovazione non ci importa più ... gli studi sui deterrenti sostengono l'opinione per cui la gravità delle sanzioni è un indicatore scadente dell'efficacia del controllo sociale, mentre come indicatore è più importante l'inserimento sociale delle sanzioni... Sembrerebbe che le sanzioni imposte da parenti, amici o da una collettività importante per la persona abbiano maggiore effetto sul comportamento criminale di quanto non abbiano quelle imposte da una remota autorità legale ... perché la reputazione agli occhi delle persone che si conoscono da vicino importa di più delle opinioni o degli interventi dei funzionari che amministrano la giustizia penale» (45).
Il ragionamento di Braithwaite, quindi, porta a un'idea di comunità cui la comune mal si adatta, per realizzare una regolazione attiva del comportamento. Anche se fosse una cosa auspicabile, non è comunque possibile che dieci migliaia di persone possano rapportarsi in modo interpersonale, con la stessa intimità delle relazioni familiari o amicali. Si può verificare in termini concreti e obiettivi l'interdipendenza materiale tra i componenti della comune, ma al di là di questo essa è un'entità relativamente astratta. Il grado complessivo di intimità non coincide mai con quello che si ritrova nelle esperienze più personali di individui che abbiano rapporti diretti, continui e diversificati tra loro. Nella misura in cui tali esperienze costituiscono e arrivano a personificare i rapporti comunitari, per arrivare a riunire diecimila persone possono al massimo essere pensate soggettivamente, ma senza avere la forza di esperienze vissute direttamente. La comune può senz'altro essere una «collettività importante», ma non può mai essere quella personale e, per quanto i suoi membri condividano finalità, prospettive e tratti del carattere, che ricordano quelli di intimità e di affetto dell'amicizia, realisticamente non arriveranno mai a tanto e, in un senso importante, tutti resteranno degli estranei per la maggioranza (46).
Il concetto di rione o di piccola comunità di zona, d'altro canto, sembra rispondere bene alle condizioni indispensabili dell'interdipendenza e del comunitarismo che servono a far davvero funzionare il meccanismo di riprovazione-reintegrazione (47). Queste condizioni possono certamente non essere abbastanza efficaci a questo livello, per il semplice fatto che la vicinanza fisica non produce necessariamente relazioni di vicinato, come la pura esistenza di un ambito territoriale non garantisce di per sé la funzione di controllo dei comportamenti antisociali. Ma ci sono valide ragioni per ritenere che si vada davvero in questo senso, dato che, con un limite massimo di cinquecento persone, i problemi che ostacolano il raggiungimento di un grado indispensabile di intimità interpersonale sono molto meno gravi di quelli che si hanno alle dimensioni massime della comune. Barclay, per esempio, ha affermato che per far prevalere rapporti «faccia a faccia» e perché ci sia l'effetto voluto di sanzioni diffuse, come il pettegolezzo o l'emarginazione, il controllo ha la massima efficacia entro un limite massimo di 200 persone (48). Questa conclusione di tipo antropologico trova un supporto di prove nell'ambito di moderni contesti urbani nei quali il pettegolezzo influenza il comportamento dei singoli quando si verifica all'interno di reti a maglie strette (ma questo riguarda meno chi ha una certa mobilità o resta appartato dai suoi vicini) (49). Assicurando un'identificazione nella comunità più immediata, concreta e quindi più significativa, di quanto non faccia la comune, il rione facilita inoltre di più l'attivazione, informale di metodi che regolano la condotta, che a loro volta hanno importanti e benefici effetti:
Ascoltando e partecipando ai pettegolezzi sugli altri, noi impariamo in quali circostanze si può perdere la reputazione con le chiacchiere. Così, quando ci comportiamo in un certo modo, sappiamo che gli altri sparleranno di noi, anche se non li sentiamo direttamente. Abbiamo appreso la cultura ... perché la riprovazione è una forma particolare di controllo sociale, al cui confronto la sanzione ufficiale è più professionalizzata ma meno partecipava, e forma la coscienza rendendo i cittadini insieme oggetti e strumenti del controllo sociale. La partecipazione alle manifestazioni di avversione nei confronti delle azioni criminali è una parte di quello che rende il crimine una scelta ripugnante per noi» (50).
Certamente non è probabile che il pettegolezzo sia una forma efficace di regolazione del comportamento in tutti i casi, perciò occorrono alla piccola comunità di zona altri tipi di sanzione psicologica. Quale possa essere l'esatta natura e il contenuto di queste sanzioni in ogni e qualsiasi caso, se si debbano applicare in modo ufficiale o informale, per quanto tempo, sono tutte questioni che non si possono decidere in anticipo. Quelle che sono sanzioni appropriate ed efficaci per alcuni possono non esserlo per altri (51). Nel caso dei parassiti, allora, l'immaginare sanzioni specifiche rispecchierà la situazione, considerandone l'efficacia sulla persona coinvolta, se si tratta di un fatto isolato o di un problema persistente, se l'interessato ha sfruttato le ricchezze della comune, del rione o di un'altra associazione (nel qual caso sarà l'associazione stessa l'ente idoneo a stabilire la sanzione). D'altro canto, bisogna rendersi conto che le comunità possono non essere sempre corrette nel denunciare un comportamento colpevole, e l'innocente può trovarsi in particolari difficoltà quando deve difendersi in un clima di sanzioni informali. Ma come la piccola comunità di zona può, operando come ente costituito, emettere sanzioni ufficiali, può anche costituire il tribunale nel quale l'accusato è in grado di controbattere agli accusatori. Così pone la questione Braithwaite, concludendo l'esposizione delle sue tesi:
La soluzione, suppongo, consiste nel sostenere una vigorosa moralizzazione rispetto alla colpa, all'illecito e alla responsabilità, ispirata alla teoria della riprovazione-reintegrazione, laddove l'autore dell'illecito si trova davanti al risentimento della comunità e viene definitivamente invitato a trovare un accordo con essa. Il clima di moralizzazione deve essere tale da mettere l'accusato in una situazione in cui egli deve tentare di convincere la comunità della sua innocenza, oppure dimostrare che la sua è una diversità non dannosa e che va tollerata, o ancora esprimere rimorso e cercare di riparare al danno compiuto. Deve essere una società nella quale finire in un universo di esclusione è una cosa difficile da accettare sia per l'accusato che per gli accusatori (52).
Perché sia credibile l'affermazione che una comunità anarchica può trattare con efficacia un comportamento antisociale, il concetto di comunità va inteso nel suo duplice senso: quello che riguarda alcuni connotati relazionali tra persone (fraternità, solidarietà, aiuto reciproco e così via), e quello che denota alcune forme organizzative (come la comune, i sindacati e i quartieri). Il fatto che la comunità sia vista come operante a vari livelli organizzativi (poiché non tutte le decisioni si affrontano meglio a un solo livello) solleva la questione relativa agli attributi relazionali che la comunità presenta ai vari livelli. Le prove e le argomentazioni qui esposte ci dicono che essa non può avere gli stessi attribuiti a tutti i livelli.
Kropotkin considera che l'interdipendenza della produzione della comune contribuisce a formare un forte senso etico di identità comunitaria tra gli individui. Quanto più esso si manifesta, tanto più la comune riesce a focalizzare le coscienze e quindi a realizzare un controllo passivo sui comportamenti. Essa non può, tuttavia, alle dimensioni previste, essere considerata una forma praticabile di controllo attivo (imponendo sanzioni ufficiali o informali). Un conto è sentirmi dire che sfruttando il lavoro della comune io sfrutto la fatica di diecimila persone, un altro è il fatto che tutte queste persone siano una realtà concreta, importante, che mi tocchi emotivamente, ed è un fatto che io non mi troverò mai davanti a tutte e diecimila che insieme mi fissano negli occhi. È vero che questa garanzia non è offerta nemmeno dal rione. Essendo circa venti volte più piccolo della comune, ha però maggiori capacità di mobilitare sanzioni attive (53). L'efficacia di queste sanzioni dipende, però, dal fatto che l'opinione dei miei vicini sia importante per me. Se lo è davvero, il rione funziona come la comune e regola passivamente il mio comportamento, superando la necessità di basarsi esclusivamente su forme attive di controllo. Le piccole comunità locali possono così garantire un'identificazione con un grado molto più alto di interazione di quello della comune, e possono favorire quella interdipendenza pluriorientata che non nasce solo dall'attività economica. I rioni vivono su una scala dimensionale che, grazie alla prossimità territoriale e alla partecipazione alla vita locale (ufficiale e informale), può catalizzare un processo in grado di formare questi rapporti, che sono comunque indispensabili per far funzionare il meccanismo riprovazione-reintegrazione. I rioni possono inoltre svolgere un importante ruolo di mediazione, gettando un ponte tra l'esempio paradigmatico della riprovazione-reintegrazione, quale avviene nell'ambito affettivo delle famiglie, e le interrelazioni più ampie e meno intense della comune. Quando diventano indispensabili forme attive di controllo, possono essere i rioni a sollecitarle, con quel grado di flessibilità che rispecchia un giudizio informale sulla personalità del singolo; cosa ben difficile da realizzare in uno stato, in cui i giudici, talvolta e in modo paradossale, fanno valutazioni sul carattere di uno sconosciuto (l'accusato), basandosi sui giudizi di altri sconosciuti (i testimoni). In situazioni in cui tutto il quartiere fosse contro di me, e io considerassi comunque il giudizio dei miei vicini sbagliato, io posso, eventualmente, affrontarli nell'assemblea locale, faccia a faccia, proprio come faccio, come ho sempre fatto tra i miei amici, i miei parenti, tra tutti coloro che stimo.
Gli anarchici comunitaristi hanno sempre cercato di organizzare i propri più vasti ideali in una filosofia che si affida prevalentemente a strutture dirette di partecipazione: l'idea per cui «è meglio e più giusto affidarsi alla decisione di chi più è coinvolto» (55). Questo atteggiamento vale anche quando si affronta il problema dell'ordine sociale, integrandolo con le analisi che derivano dalla critica generale dello stato. Dato che il concetto di comunità ha un posto così centrale nel pensiero degli anarchici, si comprenderà come mai essi hanno cercato di affrontare tante questioni e hanno dedicato tanta attenzione a questo aspetto. Anche se questo ha portato a un'ambiguità di interpretazione, una scarsa chiarezza concettuale non è una buona ragione per scartarlo del tutto. Bisogna piuttosto vedere quali implicazioni abbia il fatto che, realizzando due soli beni comuni tra i molti, la comunità anarchica che è più capace di trattare i comportamenti antisociali non è, dal punto di vista qualitativo e da quello quantitativo, identica alla comune.
(traduzione di Stefano Viviani)


1) C. Rhodes,on C. Rhodes (a cura di), Authority in a Changing Society (Londra 1969), p. 15.

2) D.D. Raphael, «Liberty and Authority» in A.P. Griffiths (a cura di) «Of Liberty» (Cambridge 1983), p.4 sg.

3) P. Kropotkin, The Conquest of Bread (New York 1968), p. 110.

4) Kropotkin notò che le abitudini inconsce svolgevano una funzione «potente» nelle faccende umane, rappresentando tre quarti dei nostri rapporti con gli altri. Egli affermò che si fa coscientemente ricorso al principio di solidarietà (trattare gli altri come si vuoi essere trattati dagli altri) solo in momenti di dubbio: novantanove casi su cento è solo un atteggiamento inconscio. Vedi Kropotkin, Ethics (New York 1968), p. 34, e R.N. Baldwin (a cura di), Kropotkin's Revolutionary Pamphlets (New York, 1970). p. 101 f.

5) J. Braithwaite e P. Pettit, Not just Deserts (Oxford 1990), p. 82.

6) Come ha notato A. Ritter, Anarchism, A Theoretical Analysis (Cambridge 1980), p. 71, anche se gli anarchici comunitaristi vedono nell'imposizione dell'autorità una barriera alle deliberazioni relazionali e una minaccia al loro ideale normativo, essi riconoscono anche che certe forme di controllo del comportamento (come la socializzazione e la persuasione attraverso la discussione) non sempre sono sufficienti. Con la minaccia di ostracismo, e attraverso il timore delle conseguenze del mancato rispetto delle regole, si utilizza la coercizione, ma come risorsa estrema e non applicata mai del tutto, come ha indicato qualcuno (vedi, per es. W.R. Mc Kercher, Freedom and Authority (MontreaI1989), p. 262 sgg., e R.P. Hiskes, Community Without Coercion (Newark 1921). Ma non si può negare che Kropotkin si contraddica, riguardo all'eventuale utilizzo della coercizione. Da una parte lo si può considerare contrario a essa, quando nota che «tutto quello che possiamo fare è consigliare ... negando recisamente il diritto della società a punire chiunque e in qualsiasi modo, per qualunque azione antisociale che egli abbia compiuto» (Revolutionary Pamphlets, p. 102). Dall'altra egli ammette che una strategia di persuasione non sempre può essere efficace e che alla fine l'ostracismo può essere una sanzione inevitabile da applicare contro i parassiti (The Conquest o[ Bread, p. 204). L'ostracismo, inteso come il bandire qualcuno da una data comunità per un dato periodo di tempo, non parrebbe essere una risposta idonea a un comportamento psicopatico, perché metterebbe le altre comunità a rischio. Kropotkin non affronta direttamente la questione, pur escludendo in linea di principio la pena capitale. E' pensabile che ritenga che gli psicopatici, essendo malati di mente, debbano essete trattati come tali. Una segregazione permanente in un ospedale psichiatrico è quindi una possibilità e una forma di ostracismo, in quanto l'individuo viene bandito, non per punizione, ma per proteggere la comunità. L'evidenza indica che la pena, in ogni caso, è «un supporto estremo molto efficace con le persone che si sono formate sfuggendo alle tecniche di controllo che funzionavano quand'erano bambini» (J. Braithwaite, Crime, Shame and Reintegration [Cambridge 1989], p.73).

7) Kropotkin, per esempio, parla di comunità che vanno dalle dimensioni di «qualche milione» (Fields, Factories and Workshop [New York 1968], p. 392) a quelle della strada o della parrocchia (The State: Its Historic Role [Londra 1911 l, p. 15 sgg.).

8) Se si possa considerare la comune lo strumento principale di controllo passivo è una questione che qui va lasciata aperta.

9) La distribuzione secondo i bisogni è l'ideale, ma il principio ben definito diventa: «nessuna restrizione o nessun limite a ciò che la comunità possiede in abbondanza, ma equa distribuzione e divisione di quei beni che sono scarsi o che tendono a scarseggiare» (The Conquest of Bread, p. 82).

l0) Cfr. M. Taylor, The Possibility of Cooperation (Cambridge 1987), p. 1. Considerando una serie di posizioni, non ultima quella degli anarchici stessi, si può sostenere che la domanda pertinente non sia tanto: «Perché le persone dovrebbero cooperare?», quanto «Perché non cooperano più?». Gli studiosi di antropologia politica, impegnati nelle ricerche sull'evoluzione degli stati preistorici, hanno fornito una base etnologica alle tesi più aggiornate che vedono come il grado di collaborazione sociale si sia ridotto, rispetto a un secolo fa, con la scomparsa delle comunità e la disgregazione dei loro valori (Cfr. Taylor, ibid. p. 168 sgg., che sostiene che «le forme positive di altruismo e i comportamenti di cooperazione volontaria si atrofizzano in presenza dello stato e si sviluppano in sua assenza»). Una chiara manifestazione di questo assunto è il sorgere del welfare state per surrogare quelle funzioni che un tempo erano di competenza delle comunità.

11) Con riferimento specifico alla validità della posizione di Kropotkin in questo senso, vedi D. Miller, Social Justice (Oxford 1976), p. 334. Per una rassegna storico-antropologica complessiva, vedi, rispettivamente, Kropotkin, Mutual Aid (Boston 1956), e H. Barclay, People Without Government (Londra 1982).

12) Cioè «l'esistenza umana, solitaria, povera, dura, brutale e breve» (T. Hobbes, Leviathan [Cambridge 1911]. p. 89).

13) M. Taylor, Community, Anarchy and Liberty (Cambridge 1982), p. 2.

14) ibid. p. 32 sg.

15) M. Olson, The Logic of Collective Action (Cambridge 1965).

16) Cfr. la discussione di Taylor della tesi di Olson in Community, Anarchy and Liberty, p. 53.

17) Gli antropologi sostengono che storicamente si sarebbe verificato uno di questi due eventi: la società ha subito una fissione per conservare lo status quo ante, oppure ha creato forme organizzative più complesse che, retrospettivamente, non erano in grado di conservare le caratteristiche interpersonali della comunità. Le società diventavano stati o presentavano caratteri statalisti nella struttura organizzativa, per esempio nella concentrazione del potere in una élite e nel sorgere di un modus operandi gerarchico. Questo si correlava non solo alla riduzione di forme organizzative egualitarie e di relazioni comunitarie, ma anche all'emergere di rapporti autoritari spersonalizzati che concretizzavano e riproducevano, grazie alla propria istituzionalizzazione, quelle diseguaglianze sociali che gli anarchici hanno tante volte denunciato come nemiche della comunità.

18) Vedi, per es., i saggi di Kropotkin su «Legge e autorità» e «Le opinioni e la loro influenza morale sui prigionieri», in Revolutionary Pamphlets.

19) ibid. pp. 233-235.

20) The Possibility of Cooperation, p. 30.

21) Kropotkin, The Conquest of Bread, p. 136

22) ibid., p. 134.

23) K. Sale, Human Scale (New York 1980), p. 188 sg. In seguito agli ammonimenti che vengono da molti di coloro che affrontano lo spinoso problema di come stabilire quali siano le dimensioni massime in cui un gruppo o un'organizzazione funziona, bisogna sottolineare quanto segue. Un limite massimo di 10.000 è solo un'approssimazione, che si basa sulle prove (per quante ce ne sono) disponibili, e non va considerata come cifra assoluta, che implicherebbe che una comunità di 12.000 persone non sia ipso facto anarchica (così come una comunità, per esempio, di 8.000 persone non necessariamente non presenterebbe gli stessi problemi di comunità più popolose). Il punto fondamentale, quando si vogliono quantificare le dimensioni massime della comune, sta nel tener presente tutti i limiti che ci sono nell'impiego di un concetto onnicomprensivo come quello di comunità, quando lo si riferisce a considerazioni di scala, nelle varie accezioni in cui la usano gli anarchici. Sale rileva l'importanza di questo punto quando scrive che «non può esistere un "interesse comunitario" tra 200 milioni di persone, né tra 20 milioni e nemmeno tra 2 milioni, perchè non c'è modo per il cuore umano, con tutti i suoi limiti, di percepire le interconnessioni di tutte quelle esistenze e la loro importanza per la sua singola vita; noi evadiamo la nostra tassa sui redditi, guidiamo oltre i limiti di velocità, ignoriamo i mendicanti sulla strada, perchè non percepiamo nessuna comunità alle dimensioni entro le quali viviamo» (ibid. p. 334 sg.).

24) ibid. p. 188 sg.

25) ibid. p. 398 sg.

26) Kropotkin, The Conquest of Bread, p. 190, pone così la questione: «Se l'esistenza di ognuno fosse assicurata e se la necessità di guadagnarsi un salario non spingesse gli uomini al lavoro, nessuno lavorerebbe. Ogni uomo scaricherebbe il peso della sua fatica su di un altro, se non fosse costratto a lavorare personalmente»

27) Kropotkin sosteneva che un'importante legge generale, desumibile dalla natura all'inizio dell'evoluzione umana, riguardava l'interdipendenza tra individuo e gruppo, che dava origine al principio di solidarietà, nonché al concetto di limitazione della propria volontà per rispetto di quella altrui. Nel primo caso, l'identificazione dell'individuo col gruppo viene di conseguenza considerata come «l'origine di tutte le etiche, il germe da cui si svilupparono tutte le successive concezioni di giustizia e le ancor più alte concezioni di moralità» (vedi Ethics, p.60 sg.)

28) Kropotkin, Mutual Aid, p. 54

29) Kropotkin, The Conquest of Bread, p. 131, 137. Per un utile riassunto, vedi D. Miller, «Kropotkin», in Government and Opposition, 18(3), 1983, p. 325

30) Kropotkin sostiene una forma comunitaria di educazione che combini la formazione intellettuale e quella manuale, che non fornisce soltanto maggiori possibilità agli individui di saggiare le proprie preferenze personali, di definire ed esprimere la propria creatività ma, sostenendo l'integrazione delle due forme, comporta anche certi vantaggi sociali. Ai bambini che preferissero il lavoro intellettuale a quello manuale si mostrerebbe almeno in questa situazione quanto la base materiale della loro esistenza dipenda dal lavoro e il suo ruolo pedagogico facilitando la promozione di sentimenti comunitari come la cooperazione, la solidarietà e l'aiuto reciproco; anche se la trasmissione di questi valori non è assicurata, si fa comprendere almeno il concetto di interdipendenza e si fanno aprire gli occhi sul fatto che il desiderio personale di perseguire il proprio interesse dipende comunque dal fatto che gli altri membri della comune soddisfano ai reciproci bisogni (vedi Kropotkin, The Conquest of Bread, p. 160 sg.).

31) M. Bakunin, God and the State (Londra 1910), p.29.

32) The Conquest of Bread, p.196.

33) Cfr. Ritter, op. cit., p. 63.

34) Kropotkin, The State: Its Historic Role, p. 40 sg.

35) Kropotkin, Mutual Aid, p.181.

36) ibd., p. 15 sg.

37) Kropotkin, Revolutionary Pamphlets, p. 140.

38) Sale, pp. 182-184, 388 sg., 488 sg. In Strong Democracy (Berkley 1984), p. 269, Benjamin Barber afferma che le assemblee di rione non dovrebbero comprendere meno di 5.000 persone e non dovrebbero superare le 25.000. Non solo egli non offre nessuna prova a sostegno della sua affermazione, secondo la quale le assemblee di queste dimensioni potrebbero garantire una partecipazione efficace, ma non cita in realtà che un autore che avrebbe «opinioni simili», anche se l'autore in questione nota solo che nelle comunità di «diverse centinaia» di persone si verifica un'ampia partecipazione dei cittadini (vedi D. Yates, Neighbourhood Democracy (Lexington 1973), p. 159.

39) H. Blumfeld, cit. da Sale, op. cit., p. 183. Per uno schizzo di psicologia descrittiva esemplificato da una società «faccia a faccia» vedi P. Laslett, «The Face to face Sociey», in P. Laslett (a c. di), Philosophy, Politics and Society, first series (Oxford 1956).

40) Braithwaite, op. cit., p. 8. Braithwaite con la sua tesi è in contrasto con il tipo di stigmatizzazione che si produce con le attuali forme disintegrative di pena. La riprovazione-reintegrazione comporta espressioni di disapprovazione della comunità (per esempio un rimprovero non aspro ed eventuali cerimonie di degradazione) che sono alla fine seguite da gesti di riaccettazione al suo interno (gesti che vanno da un semplice sorriso di perdono a cerimonie ufficiali che tolgono al colpevole l'etichetta di deviante). Invece, la stigmatizzazione tende a dividere la comunità creando una categoria di reietti. Mentre ci si impegna molto nel creare categorie di devianza, poco o niente si fa per il processo inverso, fornendo i segnali di perdono e di reintegrazione che indicano che l'etichetta di deviante è passeggera e si riferisce al comportamento più che alla persona, che viene considerata come sostanzialmente buona.

41) La riprovazione può funzionare, per esempio, come deterrente per il fatto che l'approvazione sociale di persone importanti per noi è qualcosa che non vorremmo perdere, oltre a impedire un comportamento criminale, socializzando le coscienze, anche quando una specifica riprovazione esterna è assente (ibd. p.75).

42) ibid. pp. 14,84. «La riprovazione di persone per noi importanti dovrebbe essere più potente di quella di uno stato impersonale. Alla maggior parte di noi importa meno quello che pensa un giudice (che incontreremo una sola volta nella vita), della stima nella quale siamo tenuti da un vicino che incontriamo tutti i giorni. Per giunta, anche se la riprovazione dello stato, essendo più autoritaria, è più potente, essa sarà meno efficace di quella della comunità, a causa della sua imposizione regolare. Io sarei costretto a sopportare lo sguardo gelido del mio vicino ogni giorno, mentre il giudice avrebbe una sola occasione di fissarmi freddamente negli occhi» (ibd. p.87).

43) ibd., p. 86. Cfr. l'analogia dei concetti di Braithwaite rispetto all'indipendenza e al comunitarismo e di quelli di Taylor, che conclude la sua analisi antropologica sostenendo che «l'efficacia dei due più importanti strumenti di controllo sociale, utilizzati per mantenere l'ordine nelle società senza stato (quelli basati sulla reciprocità e sull'approvazione-disapprovazione), dipende sempre dalla comunità» (Community, Anarchy and Liberty, p.129).
44) Brathwaite, op. cit., p.81.

45) ibid. pp. 55, 69.

46) Seppur riferita a un contesto diverso, questa obiezione di carattere generale è stata sollevata criticamente nei confronti della concezione di comunità di Kropotkin da parte di Caroline McCulloch in «The Problem of Fellowship in Communitarian Theory: William Morris and Peter Kropotkin», in Political Studies, 32, 1984, pp. 437-450.

47) In ogni modo, dalla logica della mia argomentazione consegue che il rione non dev'essere l'unico o, per meglio dire, il più semplice livello comunitario nel quale funzionino le strategie della riprovazione-reintegrazione. Le eventuali corporazioni o le altre associazioni volontarie potrebbero benissimo svolgere questa funzione nei casi in cui, per esempio, esse sarebbero più efficaci se per i singoli fosse importante la stima al loro interno, più che nel quartiere, oppure in quelli in cui l'azione antisociale toccasse gli interessi di tali associazioni, senza essere così grave da dover coinvolgere la comunità più ampia. Questa associazioni sussidiarie vanno viste come complementari al ruolo del rione e non come sostitutive. Per le ragioni illustrate, è improbabile che questi gruppi possano svolgere il più ampio compito comunitario che tocca al rione, e in ogni caso il concentrarsi sul rione si riferisce alle riflessioni fatte precedentemente, riguardo alla necessità che la comune abbia strutture orientate in senso comunitario, che devono affrontare una varietà di questioni e non devono solo regolare il comportamento dei membri.

48) People Without Governmento, p. 109 sg. Taylor non indica cifre al proposito, ma la sua opinione riecheggia quella di Barclay, quando nota che «nelle piccole comunità delle società primitive e agricole, ognuno tiene in gran conto la propria reputazione e la stima di cui gode presso la comunità; cosi, la capacità che gli altri hanno (e che possono esercitare facilmente) di ridurre la sua reputazione col pettegolezzo e lo scherzo, qualora egli si comporti in un modo ritenuto antisociale, dà a loro un certo potere su di lui ... » (Community, Anarchy and Liberty, p. 19).

49) Braithwaite, op. cit., p.l09.

50) ibd., p. 82. Un altro compito importante che un'assemblea di rione potrebbe dover svolgere, nella sua funzione di riprovazione-reintegrazione, è quello di far sapere ufficialmente che un ex-colpevole è di nuovo membro a tutti gli effetti della comunità. Braithwaite sostiene che il pettegolezzo e altre forme di riprovazione sono particolarmente efficaci quando chi ne è fatto oggetto non deve affrontare direttamente la riprovazione, ma deve trovarsi davanti a gesti appropriati di perdono e di reintegrazione: «I cittadini che hanno appreso la cultura, non devono essere svergognati personalmente per sapere di essere oggetto dei pettegolezzi, ma possono aver bisogno di gesti di accettazione per essere sicuri di essere stati riaccolti in grembo alla comunità ... » (ibd., p. 83). .

51) Un importante aspetto della critica anarchica del diritto, dopo tutto, è quello che afferma che la legge tende a trattare le questioni sociali in modo astratto, inflessibile e generico. Si tende a trattare gli individui come un gruppo relativamente omogeneo, le sanzioni sono affatto indiscriminate, soprattutto nei casi in cui esse sono ben più severe del necessario nel prevenire il recidivismo (vedi Ritter, op. cit.,p.17 gg.).

52) Braithwaite, op. cit., p.156.

53) Questo contrasto di scala va sottolineato, perché si considerano spesso le 5.000 unità come le dimensioni ottimali di una comune, e questa purtroppo viene spesso indicata anche come la dimensione ottimale di un rione (vedi P. & P. Goodman, Communitas [New York 1990J, p. 74).

54) Braithwaite, op. cit., p.56sg.

55) Kropotkin, The Conquest of Bread, p. 110.