Rivista Anarchica Online
La fattoria degli animali
di Cristina Valenti
Il Teatro Due Mondi, con la regia di Alberto Grilli, rivisita il classico di Orwell. E ci regala nuove emozioni
Il manifesto dello spettacolo mostra tre figure in tight nero, panciotto bianco e
papillon, con eloquenti teste di
maiale impiantate sui colletti inamidati. Uno stringe un calice in mano, un altro rivolge gli occhi affilati davanti
a sé e alza una mano con l'indice puntato. Sullo sfondo, le pareti di un salone di rappresentanza, con arazzi
dalle
cornici dorate e profili di stucco. Ce l'immaginiamo così, l'epilogo della storia raccontata da Orwell:
gli animali della fattoria spiano attraverso
la finestra della casa colonica e vedono Napoleon e gli altri maiali che brindano ai nuovi rapporti di amicizia con
gli uomini delle fattorie vicine. E, mentre fissano la scena, sembra loro che qualcosa di strano stia accadendo.
Che
cosa c'era di mutato nei visi dei porci?... Che cos'era che sembrava dissolversi e trasformarsi?... Le creature
di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro
impossibile distinguere fra i due. La «breve estate» della Fattoria degli Animali si concludeva in quel
brindisi, con il quale anche l'ultimo dei
«comandamenti» rivoluzionari veniva infranto. L'«Animalismo», il grande sistema di idee che aveva
sostenuto la rivolta contro il signor Jones e sul quale avrebbe
dovuto sorgere la nuova società dell'uguaglianza e della solidarietà, era stato ormai stravolto e
riscritto in ogni
suo punto dalla classe dei burocrati suini. Napoleon e gli altri maiali, sostenuti e protetti da un esercito di cani,
non avevano esitato a reprimere nel sangue le voci di dissenso, contravvenendo al «comandamento» secondo il
quale un animale non avrebbe mai ucciso un altro animale; e quindi si erano installati nella casa padronale usando
i letti come giacigli, esattamente come i nemici uomini, e avevano adottato anche la posizione eretta e gli abiti
di questi, fino a convertirsi persino al consumo degli alcolici. L'apologo è fin troppo chiaro: il nuovo
ordine
imposto dai maiali, ai quali era stato affidato il lavoro di propaganda e organizzazione della rivoluzione, ha
progressivamente ricostruito una struttura autoritaria e gerarchica che riproduce in tutto e per tutto il vecchio
sistema di disuguaglianze e privilegi. Al capitalismo privato del signor Jones si sostituisce il capitalismo di stato:
il sogno autogestionario è infranto e la Fattoria degli Animali torna a chiamarsi, per decisione di
Napoleon,
Fattoria Padronale. Lo spettacolo del Teatro Due Mondi, per raccontare tutto quello che c'è stato in
quel tempo di mezzo, fra
l'abbattimento della vecchia Fattoria Padronale e il ricostituirsi della nuova, si propone come una pausa, uno
spazio sottratto alla cancellazione operata da vecchi e nuovi strumenti di persuasione, un luogo di resistenza
contro i vari tentativi di falsificazione della storia, un momento in cui riappropriarsi della memoria
rintracciandone le radici, scavandone i reperti, risvegliandone le voci, le parole, le canzoni. Perché la
storia della
Fattoria degli Animali è quella di un sogno infranto, fra una fattoria padronale e l'altra, ma
è anche il racconto
di un'impresa straordinaria. Un pugno di animali si sottrae allo sfruttamento dell'uomo, lo sconfigge e lo scaccia
nell'eroica e ìmpari battaglia del Chiuso delle Vacche, poi distrugge fruste, cavezze e catene e inaugura
una nuova
forma di organizzazione fondata sui principi dell'«Animalismo», dimostrando di saper gestire equamente le
risorse disponibili, sottraendo i ritmi produttivi alla logica del profitto, progettando la costruzione di un grande
mulino a vento che avrebbe garantito ritmi di lavoro più accettabili e maggiore prosperità per tutti,
e affidando
ogni decisione all'assemblea degli animali, finché... Il teatro è di per sé un momento
di pausa. Chiede agli spettatori una sospensione delle normali logiche di
verosimiglianza e costruisce universi metaforici dove sogni, memorie, visioni possono trasformarsi in azioni e
gesti concreti e, reciprocamente, interi mondi possono essere allusi ed evocati attraverso un'immagine, un suono,
un dettaglio. Così il teatro può aspirare ad essere per eccellenza luogo dell'anti-nostalgia, per
usare l'espressione
di un grande attore rivoluzionario del passato: nostalgia, cioè, per quello che non è stato, e che
avrebbe potuto
andare diversamente. All'anti-nostalgia, coltivata come imperativo della memoria e come monito per l'avvenire,
Orwell ha dedicato la sua opera: Omaggio alla Catalogna, 1984 e La fattoria
degli animali, libri che possono
essere letti, in questo senso, come una sorta di trittico. L'imperativo e il monito di Orwell sono presenti nello
spettacolo dei Due Mondi che, per questo, non è
rappresentazione di una vicenda fantastica, o di un sogno, ma è evocazione di una storia. La cosa
è anche
dichiarata, all'inizio e alla fine. Un attore si rivolge agli spettatori tracciando la cornice del racconto:
all'umanità
non sono valsi i milioni di libri e la vasta opera degli artisti, dei filosofi e dei poeti, se è vero che esistono
ancora
le guerre e l'odio fra la gente. Per trarre profitto dalla propria storia occorre ascoltare e cercare di
ricordare. Un
velo bianco, trasparente e prezioso, si abbassa quando il rito di evocazione ha inizio, per poi rialzarsi alla fine,
con un nuovo messaggio impresso, così che il racconto continui il suo ciclo, e chi è stato chiamato
ad ascoltare
conservi e tramandi un pezzo di memoria. Chiamati in scena (e congedati in fine) dal
personaggio-cornice, gli attori attraversano la platea cantando una
vecchia ninna nanna abruzzese, Dollidina, che introduce al tempo sospeso del sonno, ad immagini
fragili e vaghe
come chimere, che possono però avere la forza inarrestabile e travolgente dell'idea se sognate
collettivamente.
Gli attori si tolgono le scarpe e parte degli abiti per restare con succinti indumenti neri che valgono da costumi
neutri e sottolineano il lavoro di evocazione anziché di interpretazione realistica. Dietro al velo, posate
su un
tavolo, sono allineate le bianche riproduzioni degli animali. Qualcosa fra i modelli anatomici e i plastici di un
museo naturalista. Ogni attore prende in mano un animale e il concerto delle voci ha inizio. Come sfogliando un
vecchio album di ritratti, gli attori ci mostrano quelle sembianze, ce le avvicinano, danno loro voce e ci chiedono
di ascoltare. Come i volti impressi in certe raccolte di foto o le figure disegnate sulle tavole dei cantastorie,
così
le sagome degli animali reclamano che la loro storia sia raccontata. Il cantastorie se ne sta su un palchetto laterale
a commentare, descrivere, sottolineare le vicende evocate attraverso la narrazione parallela delle sue canzoni.
Canzoni della tradizione popolare e politica, alcune delle quali arrangiate e riscritte per adattarsi alla storia degli
animali. Quella di apertura è composta sull'aria di Sante Caserio di Pietro Gori, che
è servita da base a tutto il
repertorio tradizionale dei cantastorie. Seguono due canzoni socialiste di inizio secolo, Il feroce monarchico
Bava
e Son cieco e mi vedete, la prima riarrangiata per chiamare a raccolta gli animali e spronarli alla
conquista della
fattoria, la seconda eseguita nella versione originale quando, ridotti alla fame, gli animali decidono
definitivamente di rivoltarsi. Ad Animali d'Inghilterra, l'inno della fattoria, corrispondono nello
spettacolo due
canzoni, composte sulle musiche di Susanna mett'in vesta, la versione romagnola di un canto delle
mondine, e
Siam del popolo gli arditi, canzone anarchica degli anni venti. È con l'inserimento di
queste canzoni della tradizione anarchica e socialista che lo spettacolo ricorda la rivolta
degli animali per collocarla nella vicenda storica delle lotte sociali: una vicenda che ha affidato la sua epopea
all'ampia narrazione poetica dei canzonieri, e quindi alla trasmissione orale della memoria. Al mondo del
cantastorie si contrappone la Televisione degli Animali, voluta da Napoleone come strumento di costruzione del
consenso: in apposite fasce orarie vengono mandate in onda le telefonate degli animali, che si pronunciano in toni
apologetici sulla vita nella Fattoria. L'informazione di regime contraddice quello che gli animali sanno, vivono
e ricordano, finché il ricordo dubita di se stesso e gli animali dubitano della propria esperienza e delle
proprie
conoscenze. Le manifestazioni celebrative si moltiplicano con «dimostrazioni spontanee», parate, declamazioni
di poesie e gare di bandiere che devono servire a far dimenticare agli animali le privazioni e la fame. Allora,
cosa resta della Fattoria degli Animali, ora che non ha neppure più questo nome? Tutto sembra tornato
come prima della gloriosa rivoluzione, ma tutto è diverso in realtà, e lo sarà
finché gli animali ricorderanno e
finché qualcuno farà in modo che la cancellazione e la dimenticanza non abbiano il sopravvento.
La memoria
resta, effimera ma viva, nel tempo sospeso dello spettacolo, e parla attraverso le azioni che gli attori prestano agli
animali evocandone le imprese. Gli attori mostrano, in termini teatrali, il funzionamento della società
nuova. Il
loro corpo dà spessore e forza collettiva alla vicenda degli animali. Per tutto lo spettacolo, anche quando
le cose
si mettono al peggio e si profila, molto chiaramente, la sconfitta del modello autogestionario e l'avvento della
tirannia suina, continua il concerto di voci e canzoni degli animali e continua la loro danza libera e selvaggia
epperò perfettamente accordata e rigorosamente scolpita nelle complesse figurazioni d'insieme. Le azioni
degli
attori hanno la forza e la bellezza, la levità e l'impatto della creazione collettiva e non possono non
ricordare il
precedente più illustre al proposito: il corpo teatrale del Living Theatre. Un gruppo di attori capaci di dar
vita a
un corpo collettivo attraverso le libere interpretazioni individuali. Allo stesso modo si integra e si armonizza sulla
scena il lavoro creativo degli attori dei Due Mondi: voci differenti che si fanno coro; abilità e
caratteristiche del
tutto personali che si fanno corpo. La comunità degli animali ha acquistato una vita teatrale, dimostrando
di poter
funzionare come collettivo. Inoltre, rinunciando all'interpretazione naturalistica, gli attori non riproducono le
movenze dei vari animali, ma inventano piuttosto una sorta di linguaggio universale, attraverso il quale è
l'intero
popolo degli animali che si esprime e ritrova la voce dei suoi antenati, liberi dal giogo dell'uomo. Gli attori
mostrano le effigi degli animali domestici e prestano loro un corpo, ne liberano la forza primigenia - che l'uomo
credeva di aver soffocato in secoli di schiavitù - e la dotano di ali: la fanno librare in volute e ritmi liberi,
sensuali
e ribelli, e la alzano in canzoni, in suoni, in voci che dalla fattoria rispondono al richiamo della foresta. Gli
animali hanno cancellato la differenza fra scena e platea, si sono avvicinati agli spettatori e li hanno chiamati
a testimoni facendoli entrare nel cerchio rituale dell'evocazione. Di tutto questo, qualche cosa resterà,
anche se
Napoleone si appresta a brindare alla nuova amicizia con gli uomini, nella casa padronale. Infatti, proprio nello
stesso momento, la canzone del cantastorie racconta di un sogno che la dittatura suina non è stata in grado
di
estirpare: quando sventolano le bandiere e viene sparato in aria un colpo di fucile non è ai trionfi di
Napoleone
che pensano gli animali: a riempire i loro cuori è ancora il vecchio sogno, la grande idea di un
mondo nuovo e
tutti uguali, nella repubblica degli animali (la musica è quella della canzone anarchica delle
Quattro stagioni). Forse stanno scrutando questa minaccia, gli occhi aguzzi del maiale, nella
sala del brindisi, forse quel dito puntato
indica qualcosa di pericoloso che si prepara, là all'orizzonte... Così la storia continua: la
trasmissione del ricordo è affidata agli spettatori, gli attori attraversano un'altra volta
la platea cantando Dollidina e sul palco si è alzato un nuovo velo, con la scritta ABBASSO
NAPOLEONE /
TUTTI GLI ANIMALI SONO UGUALI / VIVA LA RIVOLUZIONE. I contenuti sono passati di là dal
velo del
sogno infranto e aspettano nuovi eredi.
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