Rivista Anarchica Online
In groppa al toro
di Carlo Oliva
"Andare in Europa", lo dicono tutti, è un nostro dovere, guai se si mancasse l'obiettivo. Ma è
proprio così?
Raccontano i poeti che la giovane Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, stava
giocando sulla spiaggia con certe
amiche quando Zeus, colpito dal suo fascino, le si presentò sotto forma di un bellissimo toro: tanto bello,
in effetti,
che la fanciulla non resistette alla tentazione di salirgli in groppa, con l'ovvio risultato di essere trascinata oltre
il mare, verso occidente, fino all'isola di Creta, dove il dio la fece, come pudicamente si dice, sua sposa. Il mito
non è di facilissima interpretazione: può ricordare chissà quali antichi rapporti tra Creta
e la costa siriaca o lo si
può ricondurre, più banalmente, a un'ennesima riproposizione eziologica di fenomeni astronomici
(la luna, si sa,
sorge a oriente e tramonta a occidente). O magari vi si può vedere, con un po' di buona volontà,
un'anticipazione
dell'interesse che la futura Unione Europea avrebbe dimostrato per la conservazione del patrimonio zootecnico.
Quello che è certo, mitologicamente parlando, è che da quel rapimento ebbe origine la famiglia
reale cretese, i
cui esponenti, com'è noto, furono i primi a cercare di ricondurre a una qualche unità, sotto il loro
scettro, quelle
terre occidentali cui la loro progenitrice aveva dato il nome. Non ci sarebbero riusciti, perché i soliti
Ateniesi, gli
stessi che ai giorni nostri non riescono neanche a rientrare nei parametri di Maastricht, ritennero troppo gravosi
i sacrifici richiesti a tal fine (le dodici fanciulle e i dodici giovinetti da immolare annualmente al Minotauro,
un'altra delle inquietanti ipostasi taurine che allignano nelle storie cretesi), ma avrebbero inaugurato una tendenza
di lungo periodo, visto che sulla necessità di unificare l'Europa, con o senza tori, e sui sacrifici relativi
continuiamo a discutere anche noi. Ma forse anche quest'ultima affermazione è un mito. In fondo,
se sui sacrifici, ogni tanto, qualche (magro)
dibattito si sviluppa, sul problema di fondo dell'unità europea non si discute affatto, non più di
quanto la mitica
principessa fenicia abbia discusso con le amiche l'opportunità di saltare in groppa al divino quadrupede.
Quella
di «andare in Europa» è una necessità affermata da tutto il sistema delle comunicazioni pubbliche
in modo così
perentorio che a nessuno, nemmeno a un cattivaccio istituzionale come Bertinotti, è concesso di porla in
dubbio.
Anche oggi, quando il problema è stato accuratamente deprivato di tutte le sue componenti storiche,
culturali e
sociali e si riduce a una serie di operazioni bancarie, cioé a un programma complesso quanto si vuole, ma
inquadrabile in un sistema di coordinate abbastanza coerenti, non è facile imbattersi in qualche seria
agomentazione pro e contro. Siamo tutti d'accordo sul fatto che aderire all'unione monetaria, naturalmente nel
gruppo dei «paesi di testa», è una necessità imprescindibile, ma sappiamo dire ben poco sui
motivi di questa
imprescindibilità. Al massimo si può sentir bofonchiare qualcosa sui tassi d'interesse e sul fatto
che in caso
contrario la nostra valuta cadrebbe nell'abisso, che non è certo una preoccupazione da poco, ma che si
scontra
con quella, che pure circola abbastanza tranquillamente, per cui lutti e rovine di ogni genere potrebbero
sopravvenire qualora la stessa valuta salisse troppo in alto. Personalmente, come credo di aver già
confidato ai lettori di questa rivista, sento parlare di Europa unita da
quarant'anni, e mi sono sempre stupito della pochezza con cui se ne suole argomentare la necessità.
Nessuno
rimpiange il nazionalismo, figuriamoci, ma non è chiarissimo perché mai si dovrebbe unificare
l'Europa e non
l'Eurasia, l'Eurafrica, l'Eurasiafrica, l'emisfero boreale, o, visto che ci siamo, il mondo intero. Per motivi storici?
La storia d'Europa, lo sappiamo tutti, è una storia di contrapposizioni violente e di guerre continue,
l'ultima delle
quali si è spenta solo da pochi mesi (e se ci si vuole limitare alla parte occidentale del continente, la pace
che vi
regna non supera il mezzo secolo d'età). Nè a questa sequela di reciproci sbudellamenti ha mai
fatto ostacolo
l'unità culturale che l'Europa esprime da secoli, unità che peraltro si estende a pieno titolo a popoli
e paesi posti
ben al di là dei suoi tradizionali (e malcerti) confini. E non sembra proprio che, in questa età di
globalizzazione
dell'economia, si possa identificare sul piano continentale una qualche forma di unità produttiva, il che
non toglie
che i concreti interessi economici dei singoli paesi, come si è visto benissimo in occasione delle recenti
risse tra
Francia e Italia, siano tutt'altro che spenti. E ideologicamente l'europeismo è sempre stato una sorta di
«terza via»
tra quelli che una volta si definivano, con qualche imprecisione, nazionalismo borghese e internazionalismo
proletario e come tutte le terze vie ha sempre avuto non poche difficoltà a decollare.
Forche caudine In compenso, non sfugge a nessuno che i vari tentativi
istituzionali di costruzione europea, come si sono succeduti
in questo mezzo secolo, avevano tutti degli obiettivi assolutamente precisi. Se nell'immediato dopoguerra l'ideale
europeo è stato elaborato come quadro valori attraverso cui superare l'annosa ostilità tra Francia
e Germania (in
soldoni, per far digerire ai francesi il riarmo tedesco) esso, in seguito, ha dimostrato una straordinaria
versatilità.
Lo si è utilizzato per coordinare le politiche energetiche della grande industria continentale e per costruire
il
mercato comune di cui essa aveva bisogno per il suo sviluppo. In seguito, sotto l'ombrello europeo si è
trattato
e ritrattato per definire su scala regionale quelle che una volta si sarebbero definite le «aree di influenza»
economica. E oggi le forche caudine dell'unione monetaria vengono erette e presidiate a garanzia dell'impegno
di tutti i paesi membri a smantellare la legislazione sociale e lo stato assistenziale. Il tutto in una prospettiva
sempre più arcignamente «tecnica», in cui le scelte vengono presentate come oggettivamente necessitate
e quindi
già compiute da qualcuno dotato della competenza necessaria e sottratte, di conseguenza, a qualsiasi
ipotesi di
verifica collettiva e con l'esclusione accurata di ogni dimensione politica. In quarant'anni di apparente impegno
comune, i governi europei non sono riusciti neanche ad abbozzare uno straccio di posizione unitaria verso il resto
del mondo: basta confrontare la politica estera di Roma e Londra, sempre prona alla volontà degli Stati
Uniti, con
le velleità di Parigi, o pensare alle tensioni che dividono oggi Italia e Germania in tema di riforma del
Consiglio
di sicurezza dell'ONU. E quanto alle decisioni che in comune concretamente si prendono, nessuno ha mai sentito
la necessità di sottoporle a una qualsiasi, sia pur mediatissima, verifica popolare. Tanto è vero
che dei molti inutili
organismi rappresentativi di cui menano vanto le «democrazie» occidentali non ce n'è uno più
platealmente inutile
del parlamento europeo. In definitiva, per comprendere il significato del processo unitario di cui tanto si parla,
bisognerebbe forse rendersi
conto che l'Europa unita non è affatto un fine, ma un mezzo. Non siamo chiamati a realizzare
l'unità europea
mediante l'unione monetaria, ma viceversa. Il problema non è quello di superare una forma politica
già superata
di suo, come lo stato nazionale, quanto quello di costruire un nuovo patto sociale in un'area in cui gli equilibri
sociali del passato vanno radicalmente rivisti. Alle classi sociali soccombenti, in definitiva, si chiede di
autolimitarsi in nome di un asserito interesse comune. Niente di nuovo, certo. Il fatto è che non
mancano proprio le condizioni per un'operazione del genere. In fondo,
l'area di cui stiamo parlando è caratterizzata da un livello di ricchezza sempre più divaricato
rispetto alla media
mondiale. L'Europa, come le sue ex colonie a popolazione prevalentemente europea, in fondo è una
fortezza
assediata: una regione di alti consumi e larghe disponibilità circondata dalla fame, dalla miseria e dalla
disperazione che crescono in tutto il pianeta. E si sta organizzando per resistere all'assedio (e per continuare a
sfruttare le risorse e il lavoro altrui, secondo quello che è uno dei portati storici più sgradevoli
della sua pretesa
«civiltà»), erigendosi in forme nuove. La prospettiva che sembra d'intravedere in questi giorni è
quella di una
specie di timocrazia autoritaria, in grado di mettere tra parentesi i tradizionali impacci di stampo democratico e
di porsi esplicitamente l'obiettivo di escludere i nuovi postulanti e meglio controllare l'ordine sociale interno. O
forse, naturalmente, no: forse i valori e la tradizione democratica sono abbastanza radicati nei nostri paesi da
permetterci di contrastare, e magari invertire, questo preoccupante processo. In questo caso, la condizione
primaria è quella di rendersi conto di quanto sta succedendo. Anche la nostra eroina eponima, se avesse
saputo
quello che l'aspettava, forse non sarebbe saltata in groppa a quel bellissimo toro...
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