Rivista Anarchica Online
Ipotesi per l'anarcosindacalismo
di Paolo Orsini
PREMESSA: Dobbiamo fare i conti con le
tendenze odierne della produzione. I marxisti-leninisti parlano
di fase monopolistica. Tuttalpiù di identificazione di stato e capitalismo: è questa
un'espressione erronea,
più chiaramente e scientificamente, la tendenza dominante è la pianificazione di stato,
ormai in atto. Questo cambiamento della realtà materiale ci porta a rivedere alcune posizioni
teoriche. Nel capitalismo
classico, concorrenziale e ottocentesco, aveva ancora senso la distinzione tra lotta economica e lotta
politica: l'attacco operaio ed economico contro il capitalista si rifletteva solo indirettamente e
lontanamente
contro il potere politico, così come l'attacco politico non si identificava con la lotta al padrone;
questo
perché capitalismo e stato rimanevano distinti anche se in funzione reciproca. Oggi invece
la gestione dell'economia da parte dello stato (tecnoburocrazia al potere), identifica
totalmente potere economico e politico, quindi lotta economica e politica. In questa situazione, il
sindacalismo ha ancora un senso? A nostro avviso sì! Nelle lotte del lavoratore manuale
possiamo distinguere due tendenze: 1) Valorizzare se stesso come lavoratore manuale; 2)
Negarsi come lavoratore manuale. Chiarito questo, l'anarcosindacalismo oggi non ha, per quello che
si è già detto, la funzione di sviluppare
la lotta economica semplicemente come in passato, ma quella di valorizzare il lavoratore manuale in
quanto tale. A prima vista sembrerebbe che queste due tendenze degli sfruttati facciano a pugni fra
di loro, in realtà
si completano e si danno un significato rivoluzionario, o almeno esiste questa possibilità
oggettiva. Non possiamo assolutamente ignorare la tendenza del lavoratore manuale a valorizzarsi,
tacciando questa
prassi proletaria di riformismo; una posizione del genere ci terrebbe per sempre lontani dagli sfruttati.
Il
problema è diverso: si tratta di dare un senso rivoluzionario a ciò che gli sfruttati portano
avanti, cioè alle
lotte che si fanno. Facciamo una semplice constatazione sulle lotte proletarie, le quali
strumentalizzate o no conservano dei
punti in comune. Osserviamo lotte di due tipi: 1) per l'aumento del salario o per obiettivi equivalenti;
2) per la riduzione
dell'orario di lavoro o per obiettivi equivalenti. Questa prassi mostra che la figura sociale del
lavoratore manuale è contraddittoria, e tale è la sua lotta (lo
sfruttato che vuole negarsi e valorizzarsi nello stesso tempo). Oggettivamente, possiamo affermare
che in sé la valorizzazione del lavoratore manuale è uno sforzo
patetico: sforzo che però trascina con sé delle implicazioni rivoluzionarie. Non
è a caso che le lotte per la valorizzazione hanno creato l'esigenza padronale di istituzioni atte ad
impedire lo sviluppo completo di tali lotte (sindacati, e partiti riformisti) ed è così
importante contenere
queste lotte che oggi queste istituzioni (sindacati e partiti riformisti) un tempo semplici organismi di
mediazione, di pompieraggio, scalzano i vecchi padroni dal potere che non possono oggettivamente
controllare certi tipi di lotta. La valorizzazione è rivoluzionaria proprio perché
è impossibile: ed è compito dei rivoluzionari spingere
questo processo fino alle estreme conseguenze. Solo quando avrà percorso questa strada
l'operaio
accentuerà la sua seconda tendenza, quella di negarsi (rifiuto del lavoro, più in particolare
della funzione). Ricordiamo che queste tendenze non sono momenti separati in questo preciso
momento (prima luna,
dopo l'altra): l'esperienza insegna che esse vanno di pari passo molto spesso, e ciò è
significativo di un
certo livello di coscienza rivoluzionaria già raggiunto.
Rifiuto della funzione, crisi produttiva e ristrutturazione Nella
prospettiva del rifiuto totale della funzione, la distruzione di macchinari ecc. assume un significato
preciso al di là della semplice esplosione della rabbia operaia: infatti le attuali strutture produttive,
fondamento dello sfruttamento hanno bisogno, per produrre, della divisione del lavoro; inoltre molti
prodotti della società autoritaria non servono in una società comunista
libertaria. Nella misura in cui l'emancipazione è impossibile sulle attuali strutture, l'unica
soluzione rivoluzionaria
è distruggerle. La lotta dura che danneggia la produzione e le strutture produttive della
divisione del lavoro si
materializza quindi come lotta antistatale nell'economia statale: è la crisi economico
politica. È in questo contesto di attacco proletario alla produzione, e quindi di crisi, che si
attua in tutta l'Italia la
ristrutturazione statale tecnocratica delle aziende che porta alla disoccupazione di massa decentrando la
concentrazione operaia e isolando i gruppi più combattivi: la ristrutturazione economica si mostra
nello
stesso tempo come rafforzamento politico della tecnocrazia ed è in questa delicata situazione che
dobbiamo innestare la nostra azione. Se la ristrutturazione passa, la lotta di fabbrica diventa nulla
e lo scontro si sposta sui quartieri, fra i
disoccupati emarginati dal nuovo aspetto aziendale. È questa l'eventualità di una
prima vittoria del potere: ma noi dobbiamo cercare di arrestare e di impedire
la ristrutturazione. Impedire la ristrutturazione, oggi, significa distruggere il potere tecnoburocratico
e legarsi concretamente
alle lotte delle masse proletarie, unificate di fatto come classi di lavoratori manuali. Questo perché
il filo
conduttore che oggi lega gli sfruttati dovunque (fabbrica, quartieri, campagna) è la lotta contro
la
ristrutturazione e questo è il nostro riferimento per rafforzare l'autonomia e l'unità
proletaria. Legare lotte
che fino ad oggi sono state pressocché distanziate tra loro, significa passare ad una fase di scontro
generale contro lo stato.
Paolo Orsini
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