Rivista Anarchica Online
Autogestione d'emergenza
di Victor Garcia (trad. Andrea Chersi)
Theilard de Chardin ha introdotto nel vocabolario sociologico il termine "Noosfera" mediante il
quale cerca di spiegare la ragione per cui esistono nel mondo città e luoghi in cui la vita
intellettuale fiorisce con maggior facilità ed intensità piuttosto che in altri. Applicando il termine ai
luoghi propizi al lavoro comunitario, possiamo affermare che Israele condivide i valori
collettivisti, nonostante sia un paese di recente origine, con quelle regioni del mondo la cui
idiosincrasia comunitaria è solitamente ancorata alla storia ed al costume.
Pensiamo, così dicendo, alla Spagna, il cui collettivismo agricolo, così diligentemente studiato da
Joaquín Costa, raggiunse il culmine durante la rivoluzione del 1936; alla Cina, dove il
collettivismo si praticava prima che Mosé inventasse Geova: all'Incario, che legò l'indio di tutti i
tempi allo "ayllú", ancora in vigore in quest'anno di grazia; all'Anahuac, il cui "caupulli" azteco ha
diretto collegamento con l'attuale egido; all'India, all'Algeria, alla Jugoslavia dove gli odierni
governi si aggrappano alla soluzione collettivista, così come in Cina ed U.R.S.S., seppur senza
tener conto dell'iniziativa della base a favore delle direttive del vertice. Il decreto-legge prende il
posto della consuetudine, l'imposizione quello dell'accordo.
Per questo, quando ci giunge una notizia riguardo all'"autogestione" in determinati paesi
"socialisti" non possiamo fare a meno di essere scettici a proposito dell'efficienza delle collettività,
dei "kolkhoz", delle comuni all'interno delle quali l'assemblea, che dovrebbe essere sovrana, si
riunisce per conoscere gli obiettivi che le indicano Belgrado, Pechino, Mosca o Algeri. Uno
spirito genuinamente collettivista, come quello che si viveva nelle collettività spagnole durante la
lotta contro il fascismo, con una proiezione, allo stesso tempo, su tutta la popolazione, lo
ritroviamo solamente, in maniera rilevante, nella minuscola Israele.
La presenza del kibbutz, in Israele, non si può completamente attribuire ad una caratterizzazione
ebrea. Le sue origini sono sia strategiche che economiche ed a queste conclusioni ci portano le
immagini degli haverim che guidano trattori e pascolano le vacche con le armi automatiche in
spalla.
La caratteristica del kibbutz israeliano è sempre stata quella dell'ambiente ostile e della lotta per la
sopravvivenza. Gli ebrei che, provenienti dalla Polonia e dalla Russia dei "progrom", cercavano di
installarsi nella Palestina ottomana, avevano bruciato le navi alle loro spalle, per cui sapevano che
non potevano fare un passo falso. I partecipanti della prima "aliya" (così si chiamano le migrazioni
di massa di ebrei in terra palestinese), nella loro maggioranza, fallirono volontariamente.
Andarono a Sion per morirvi. Quelli della seconda "aliya" riuscirono a sopravvivere e nelle
condizioni di esseri umani, che gli zar negavano loro.
Il kibbutz nasce dal desiderio di vivere degli immigranti della seconda "aliya", e costoro,
sopravvissuti dai "progrom", si fortificano nel solco e impugnano l'aratro che dissoda il suolo e
l'ascia che darà i tronchi della palizzata di protezione. Dovranno realizzare il massimo dello sforzo
e per questo le donne dovranno apportare il loro aiuto. Affideranno ad alcune il compito di
preparare da mangiare per tutta la collettività, ad altre quello di lavare e rammendare; i bambini
verranno riuniti sotto le cure di altre ancora e tutto ciò farà sì che ci siano persone sufficienti per i
lavori nei campi, delle stalle e per la difesa.
Il primo kibbutzim, quello di Degania, sempre presente nella vita collettivista israeliana e con un
successore conosciuto col nome di "Degania B", fu creato nel 1909. Altri fallirono, ma quelli che
superarono la dura prova contribuirono alla costituzione dell'attuale Israele. Le basi di Israele che
tutti conoscono furono gli insediamenti agricoli della seconda aliya e ciò in maggior proporzione
che il resto dei fattori che hanno inciso nella costituzione di questo Stato.
Le sue basi e, insieme, la parte più ammirevole di tutto questo conglomerato di esseri, sono quelle
che hanno avuto la virtù di essere le vittime di tutte le religioni e di tutte le politiche. Il giorno in
cui questo pugno di collettività, i cui partecipanti non superano il 5% della popolazione totale di
Israele, rimarrà completamente sommerso dalla marea della "prosperità" e del "pragmatismo",
quel giorno, se disgraziatamente verrà, sarà un giorno triste per i progressisti ed i rivoluzionari del
mondo.
Ben Gurion s'inorgogliva nel vedere che il nuovissimo Stato che egli aveva contribuito a creare,
tendeva a confondersi sempre più col resto degli Stati del mondo. Siamo un altro paese, coi suoi
uomini politici, i suoi lavoratori, i suoi scienziati, i suoi intellettuali, i suoi soldati: non ci
mancano i ladri, le prostitute, gli omosessuali, i criminali, i degenerati..., disse una volta, più o
meno.
Nei secoli XI, XII, XIII e XIV nell'Europa orientale si sviluppò l'eresia dei Catari. La popolazione
non stava più dalla parte degli eretici, ma costoro godevano di una grande simpatia tra gli strati
popolari ed erano conosciuti, dagli umili, come "gli uomini buoni". In Israele accade la stessa
cosa. L'haver che per una determinata ragione deve andare a Tel Aviv, Gerusalemme o Haifa
viene immediatamente identificato - nemico della cravatta, della brillantina, del pettine e di tutto il
superfluo, la pelle indurita, un vestito ordinario e possibilmente con qualche pezza, non ci vuol
molto a capire che si tratta di un membro di un kibbutz - ed è solitamente oggetto delle simpatie
degli abitanti delle città. L'israeliano, possessore di un patrimonio spirituale che pochi popoli
possiedono, vede nel kibbutz un aspetto positivo della spiritualità ebraica e la risposta, per il
mondo intero, dell'immagine putrefatta dell'ebreo individualista, ricco e avaro.
I sociologi tendono comunque a concordare nel considerare l'impatto del kibbutz come un agente
estraneo ad un paese che vuol confondersi coi regimi occidentali per giungere ad esser un
componente del concreto mondiale delle nazioni. Verso questo obiettivo tendono tutti i politici
israeliani compresi anche coloro che fanno parte delle collettività agro-industriali. Un popolo che
s'è differenziato dagli altri nei secoli e che è stanco di questa differenza che così pochi vantaggi e
motivi di tranquillità gli ha apportato, s'impegna coll'ardore che ha sempre messo in mostra in
tutte le sue azioni e dichiarazioni, a cancellare le distanze col resto dei paesi.
Se così fosse - e i fatti tendono a confermarlo - il kibbutz e ciò che il suo mondo contiene come
originalità, spiritualità e promessa di futuro umano, è destinato a scomparire. Se Ben Gurion
rivendica allo stesso modo lo scienziato e il ladro, l'intellettuale e il drogato, il contadino e il
vagabondo perché tutti loro fan parte del catalogo della società attuale di non importa quale
Stato, è logico dedurre che i kibbutzim, assenti nel resto del mondo, non sono ritenuti necessari
da coloro che reggono i destini di Israele.
Ma il kibbutz, pur consapevole che sarà il grande sacrificato, continua ad affidarsi totalmente ad
una causa che comprende tutto: la pedagogia, l'economia, i rapporti umani, l'arte, la scienza e la
difesa di un suolo che non è più arido e s'è trasformato in orto.
Il movimento dei kibbutz sta all'origine di Israele. È ovvio che senza i kibbutzim gli ebrei non
sarebbero sopravvissuti in una Palestina capricciosamente amministrata dalla Costantinopoli
islamica, cui seguì un'Inghilterra volubile che riteneva più confacente alla propria strategia
accontentare gli arabi maggioritari. Quel sistema economico-difensivo continua ad essere
insostituibile come dimostrato dal fatto che l'80% delle frontiere di Israele sono delimitate dai
confini stessi dei kibbutzim. Da ciò deriva un altro paradosso e se la presenza di Israele sembra
ottenere una cosa incredibile come l'unione degli arabi, vediamo pure che la presenza di un nemico
potente dall'altro lato della frontiera costituisce l'evidente necessità del kibbutz e ciò per gli stessi
motivi del passato, allorché i componenti delle prime aliya riuscirono a sopravvivere grazie al
kibbutz ed al suo sistema difensivo.
Nell 1956 una commissione di studio per esaminare i problemi del Medio Oriente presentò un
rapporto alla Camera dei rappresentanti degli U.S.A. che, tra molte altre cose, diceva: Nonostante
l'esistenza dei kibbutzim - villaggi comunitari che non potrebbero far parte delle istituzioni
democratiche - esistono tutte le prove necessarie per affermare che Israele si sforza di applicare
i principi democratici del mondo occidentale. In un mondo come quello attuale, in cui il valore
delle parole non è più stabile e concreto, questa affermazione è priva di significato. Tuttavia, il
luogo in cui lo spirito democratico - il popolo che decide, l'assemblea generale sovrana, la linea da
seguire approvata dalla maggioranza - non subisce adulterazioni di alcun tipo, è proprio il kibbutz.
Il kibbutz sembrerebbe condannato a scomparire il giorno in cui nel Medio Oriente si firmasse una
pace duratura. Esistono pressioni esterne come quella che s'intravvede dietro il rapporto della
commissione statunitense che abbiamo appena citato, che non possono essere trascurate. Albert
Meister, profondo studioso dell'autogestione in tutto il mondo, segnala, in una Memoria di ormai
alcuni anni fa: Le comunità ebraiche nordamericane - le uniche che si deve tener presente (l'88%
dei fondi ricevuti dalla Rappresentanza ebrea provengono dagli Stati Uniti) - non si
mostreranno riluttanti di fronte agli obiettivi socialisti dello sviluppo israeliano? Ben più
dell'aiuto della Diaspora, non è forse condizionato quello dei vari Stati, in particolare quello di
Washington?
Tuttavia, anche se importante quanto segnalato per quel che riguarda l'erosione dei kibbutzim, il
maggior pericolo si trova all'interno della stessa Israele e ciò per motivi di carattere molto diverso.
Nessuno Stato desidera la presenza di un altro "stato" al suo interno e lo Stato attuale israeliano
considera che, essendo i kibbutznik gli elementi più preparati, socialmente parlando, della
mastodontica Histadrout, la centrale sindacale unica del paese cui aderisce più della metà della
popolazione israeliana, un'influenza eccessivamente socialista che sfuggisse al suo controllo
potrebbe essere nefasta per il compito di "applicare i principi democratici del mondo occidentale".
Finché continua la minaccia araba dall'altro lato della frontiera, i timori dello Stato non si
tradurranno in fatti. Questi dimostrano che nel 1948, quando Israele, sfidando l'avvertimento di
tutto il mondo, si proclamò paese indipendente, il suo esercito aveva, per ogni cinque ufficiali,
quattro kibbutznik. Che nonostante non raggiungessero il 5% del totale della popolazione di
Israele, i membri dei kibbutzim morti nella Guerra dei Sei Giorni rappresentavano il 25% del
totale delle perdite israeliane. Gli haverim un sono i cartari dell'Medio Oriente e come loro si
meritano il nome di "uomini buoni".
Lo Stato avrà bisogno di un lungo periodo di pace e di benessere, di tempo propizio per l'oblio,
anche per un popolo che non dovrebbe dimenticare le sue avversità lungo tutti i secoli, per poter
sgretolare una reputazione guadagnata con la forze e col sangue. Ma ci riuscirà e lo si è già
potuto vedere tutte le volte che la pace si insinuava come cosa fatta: negli ultimi tempi che
precedettero la crisi di Suez nel 1956, negli anni precedenti e più prossimi alla Guerra dei Sei
Giorni, nel 1967.
Oltre a ciò, ad aggravarlo, sta il fatto che lo Stato è un nemico dichiarato del kibbutz e di ogni
comunità che voglia farsi i propri statuti e vivere la sua vita senza bisogno di ciò che lo Stato
decreta, e il kibbutz si dibatte, da un certo tempo, contro il germe disgregante che gli è spuntato
in grembo.
Il kibbutz è un organismo creato sulla base del libero accordo. È un'istituzione basata sul
volontariato. Non si può costringere nessuno a far parte del kibbutz e, anzi, il volontario che
voglia entrarvi dovrà passare un periodo di prova - solitamente un anno - prima che l'assemblea
generale gli dia l'investitura di Haver. Oggi in Israele ci sono circa 230 kibbutzim e la loro
popolazione raggiunge le ottantamila unità scarse. È un volontariato omogeneo? Evidentemente
no. Le correnti politiche ed ideologiche in Israele sono piuttosto deboli in quanto tutto è soggetto
ad un nazionalismo in un certo qual modo giustificato dal fatto che gli ebrei da 2.000 anni
vagavano da una nazione straniera all'altra. Ciò comporta un tallone d'Achille consistente nel fatto
che non esiste un'ideologia sociale che incanali la vita comunitaria come fine superiore poiché,
come abbiamo cercato di dimostrare, nel kibbutz esiste una gran parte di funzione strategica e
difensiva che s'impone. Non è superfluo osservare comunque che il kibbutz ha dato i risultati
migliori nell'economia e nell'educazione - il 15% del prodotto agricolo nazionale proviene dal
kibbutz, il 10% dei prodotti manufatti, tra i quali si devono includere anche macchinari,
provengono dai kibbutzim, una vacca collettivizzata dà una media di 4.800 litri di latte all'anno, un
terzo dei bambini israeliani che terminano la scuola secondaria proviene dai kibbutzim - per cui,
come abbiamo già detto, l'essere umano sfuggirà sempre all'inscatolamento della socializzazione
quando gli vengono offerte le possibilità.
A quei volontari succedettero i loro figli, i loro eredi, che non vedono più la vita del kibbutz con
la stessa mistica dei loro padri. Per questo motivo si ricorre ai surrogati, tra cui spicca la
comodità. L'origine del kibbutz ha a che fare, quasi sempre, con le tende di tela grezza, la grande
tavola comune, l'assenza totale di proprietà privata, i figli nel loro mondo, senza condividere né il
pranzo né l'alloggio coi loro genitori. Alle tende succedettero le baracche di legno e poi vennero
le case in muratura.
Oggi sono ormai molti i kibbutzim in cui gli haverim mangiano nelle loro case, hanno
appartamenti comodi, con tutti gli apparecchi moderni, dove ricevono su un piano di
"uguaglianza" gli amici ed i parenti della città. Persino i bambini cominciano a staccarsi dal loro
mondo per passare qualche notte coi loro genitori.
La gioventù, in cui si ritrova sempre la maggior quantità di entusiasmo e di mistica, accusa il
colpo di questa improvvisa involuzione e tende ad abbandonare l'esperienza comunitaria, in cui
rientra solamente in caso di minaccia di invasione araba, pensando che il kibbutz ritornerà ad
essere l'architrave della difesa israeliana. Questa diserzione da un lato e l'incremento delle attività
produttive dall'altro - oltre all'originaria funzione agropastorale il kibbutz è diventato un
organismo industriale di prim'ordine e il sistema dei kibbutzim conta oggi su 160 fabbriche di ogni
genere - hanno provocato una evidente penuria di manodopera cui i kibbutzim non riescono a
sopperire.
Il vortice della produttività ha fatto sì che nella maggior parte dei kibbutzim si scegliesse di
proseguire nel ritmo ascendente della produzione a detrimento del più bel principio comunitario:
"da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo le sue necessità" ed alla bell'intesa del
lavoro senza remunerazione monetaria ha fatto seguito quella del padrone e del salariato.
Impercettibilmente, questa caratteristica negativa della società capitalistica ha fatto irruzione nel
kibbutz. Il corrispondente di 'Newsweek' calcolava, il 13 maggio 1968, che i kibbutzim
impiegassero una massa di salariati non inferiore alle 13.000 unità. Gli haverim son diventati
padroni. Chi sono i salariati? Questi si dividono in due grandi gruppi: quelli che non vogliano
"ipotecarsi" alla vita del kibbutz e preferiscono ricevere una paga di solito buona, mentre non
abbandonano la città cui si sentono irreversibilmente legati, e gli arabi che continuano a rimanere
nella "Palestina occupata" dagli ebrei e ai quali vengono affidati i lavori più pesanti e scomodi
della collettività.
Mi ha sempre stupito, quando ho trascorso qualche tempo nel kibbutz, la mancanza di
conversazioni che riguardassero i problemi ideologici e sociali nell'accezione di proiezione futura
che possiamo dare al termine. Le assemblee, veramente libertarie come procedimento e
importanza, trattavano sempre del lavoro da realizzare, della nomina di commissioni, degli
acquisti da effettuare ma di rado si stabiliva un confronto ideologico. Nelle conversazioni private
si discuteva, al massimo, di argomenti di tipo religioso in quanto all'interno del mondo dei
kibbutzim esistono atei convinti che giungono persino a definire Mosé un plagiatore affermando
che le sue famose Tavole della Legge non son altro che una falsificazione del Codice di
Hammurabi. I kibbutznik vogliono dare l'impressione di essere gente "pratica", come la maggior
parte degli ebrei nel mondo e immergersi nel mare della polemica ideologica arriva ad assumere
apparenze, per loro, di un'altra discussione bizantina sul sesso degli Angeli.
L'eccesso di "obiettività" nelle affermazioni dei kibbutzim può aver pregiudicato lo spirito iniziale
che i primi emigranti si portavano nei loro zaini. Quella mistica non pregiudicò affatto la creazione
dei primi kibbutzim. L'attuale obbiettività, in cui non c'è la spiritualità di un tempo, ha la sua dose
di responsabilità nell'attuale situazione.
Naturalmente, altri settori incidono nel fenomeno del kibbutz che domina sempre più,
economicamente, mentre si allontana sempre più dalla comunità anelata dagli idealisti che
vogliono una società di uguali. Dati i termini nei quali si sviluppa Israele, la presenza del kibbutz
indicherebbe, piuttosto, che la esperienza comunitaria è realizzabile a quasi tutti i livelli e in
un'infinità di condizioni, non necessariamente ideali.
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