Rivista Anarchica Online
Da due anni ho una figlia e tanta voglia di parlarne
a cura della Redazione
Parto? Bambini? Genitori? Sino a qualche tempo fa queste parole, all'interno del movimento
rivoluzionario,
erano quasi tabù. In fondo la stragrande maggioranza dei compagni si sentiva troppo figlio/a per poter
pensare di diventare "genitore" a sua volta. Ma il tempo passa e con gli anni è venuto per tutti, o quasi, anche
il momento di fare i conti con la vita di tutti i giorni, al di là delle vie più o meno obbligate della
militanza,
e fra questi "conti in sospeso" uno è quello dei figli. In questi ultimi anni molti compagni
sono diventati "genitori", hanno vissuto l'esperienza del parto, stanno
sperimentando ogni giorno cosa vuol dire avere un figlio/a con tutto ciò che questo comporta in tentativi ed
esperienza. Sino ad oggi tutto questo era rimasto un fatto "privato", ma per chi come noi non crede alla
separazione fra "privato" e "pubblico" esso è un altro tema su cui discutere, sperimentare, confrontarsi ed
è per questo che abbiamo pensato di dare il nostro contributo a questo tema col servizio che segue curato
dalla compagna Rosanna Ambrogetti di Forlì. Abbiamo creduto utile dare la parola
innanzitutto a Rosanna stessa che ha vissuto l'esperienza del parto e
sta ora vivendo l'esperienza del figlio, corredando le sue riflessioni con alcune interviste: la prima ad un
ginecologo compagno (Pippo Tadolini) che opera in un paese delle Marche all'interno della struttura
ospedaliera; la seconda ad un insegnante (Laura Budroni) che lavora in una asilo-nido con bambini di età
dai tre mesi ai tre anni; la terza infine, ad un compagno (Gianni Cerasoli) che assieme ad altri - per ora
pochi - sta portando avanti il progetto "Colonia Harmonio", che può esser un tentativo di pedagogia
alternativa, o almeno il tentativo di un rapporto diverso con i bambini.
Da due anni ho una figlia e da due anni e mi porto dietro la voglia di parlare di questa mia esperienza con
qualcuno. Voglia finora quasi mai soddisfatta, perché da parte mia c'è sempre stato il timore che i
miei
interlocutori non fossero realmente interessati a condividere con me questa cosa. Scriverne è più
facile: nessuno
mi interrompe e solo chi è interessato mi seguirà sino alla fine. Ma non è solo per soddisfare
questo mio bisogno
di parlarne che mi interessa scriverci sopra. È anche il bisogno di spezzare una lancia a favore di questo
argomento, cosa questa piuttosto difficile ed
inaccettata. Infatti i religioso "partorirai con dolore" è stato fatto proprio dalla stragrande maggioranza delle
persone per cui se una donna racconta la sua brutta esperienze in proposito è capita e aiutata. Se viceversa
ne
parla in toni positivi e sereni è guardata come la marziana del momento, quasi con incredulità e
sufficienza.
Innanzitutto c'è da dire che la mia (anzi la nostra!!!) è stata una gravidanza voluta e non un
"incidente" accettato
a posteriori. Penso sia impossibile dire i motivi razionali che ci hanno portato alla decisione di avere un figlio:
è molto più facile trovare i motivi del contrario. È altrettanto vero che per quanto ci si
ragioni sopra se non ci si
lascia prendere dalla paura e semplice "voglia" non si arriva mai a deciderlo. Questa premessa per poter far capire
meglio quale era il mio stato d'animo durante il periodo della gravidanza. Ero felice, ma nello stesso tempo
temevo di scontrarmi con l'incomprensione delle mie compagne e dei miei compagni. Nonostante aleggiasse
già
nell'aria il nuovo slogan coniato dalle femministe "mamma è bello", pensavo fosse ugualmente difficile
essere
accettata. Invece non è stato così. La definizione "stato interessante" non potrebbe essere più
azzeccata. Tutti si
sono interessati, hanno chiesto, hanno seguito la mia gravidanza! In questo stato di grazia ho aspettato il parto.
Avevo dalla mia parte, cosa per niente di poco conto, il fatto di
avere scelto questa esperienza, di non essere sola, di volere a tutti i costi cercare di viverla bene sino in fondo.
La mia è stata una bella gravidanza, senza grossi problemi. Tutto questo mi ha permesso di esorcizzare la
paura
del parto; tutto questo ed assieme a questo la lettura di libri, l'aver seguito un corso per il training-autogeno e
tante altre cose ancora. Quando "è arrivato il momento" ero molto tranquilla.
All'ospedale
Avrei voluto partorire in casa. L'ospedale secondo me, probabilmente per esperienze bruttissime che ho avuto
in
passato, è l'ultimo luogo dove si dovrebbe andare, soprattutto per una cosa non necessariamente legata al
dolore
ed allo stato di malattia. Purtroppo da noi è ancora impensabile l'equipe medico-infermieristica che si sposta
e
segue "a domicilio" il parto. In altri luoghi questo già succede, noi ci siamo ancora troppo lontani per cui
non è
attuabile neanche un surrogato. Quindi ospedale per forza. Avevo scelto un piccolo ospedale della zona e
lì avevo già seguito un corso di preparazione al parto; in questo
ospedale lavorava anche mio ginecologo per cui ero riuscita a "pretendere", superando la soggezione in cui sempre
ci tengono i medici dall'alto della loro scienza, un certo trattamento: il mio obiettivo era il famoso "parto senza
violenza", ovviamente mediato con la realtà di una sala-parto ospedaliera con personale a me estraneo e con
esigenze che scavalcano sempre i bisogni individuali. L'impatto è stato ugualmente brutto. Eravamo
riusciti ad ottenere, io ed il mio compagno, di essere assieme sia prima che durante il parto. Questa era
già una cosa fuori dal normale: la loro norma è avere meno impicci e meno controlli possibili e
cioè nessuno in
sala parto. In quanto all'attesa, in sala travaglio, viene accettata favorevolmente la presenza della madre della
partoriente o di un'altra donna: presenza che consente loro un'assistenza minima; quella dell'uomo molto meno:
sono cose da donne e gli uomini sono di intralcio. La loro parte (dei medici, delle ostetriche, ecc.) è sempre
molto
sbrigativa e di routine. Entrano, visitano, escono senza mai soffermarsi a dire anche solo due parole alla
"paziente". Se tutto procede regolarmente, come nel mio caso, si limitano ad aspettare. Se viceversa la cosa va
per le lunghe, senza mai dare spiegazioni o chiedere il parere dell'interessata, cominciano una serie di
"trattamenti" per accelerare il travaglio. Il tutto spesso, per non dire sempre, al solo scopo, niente affatto
terapeutico, di sbrigarsi il prima possibile. Per tornare a me, devo invocare la fortuna se sono riuscita a schivare
tutte queste cose. Ho avuto un parto
naturale, senza dolore. Sia ben inteso: ho detto senza dolore, non senza fatica. Il mio compagno era assieme a me,
anche se fino all'ultimo hanno cercato di farci cambiare idea tirando in ballo possibili svenimenti e malori. Questo
per noi è stato molto positivo per vari motivi: primo fra tutti quello di dividere il più possibile questa
esperienza
fino alla fine (ma dov'è la fine?). In secondo luogo perché il fatto che qualcuno potesse sostenermi
nelle mie
richieste in sala parto è stato determinante. Infatti sono capitata in un giorno in cui c'era tutto personale a
me quasi
sconosciuto e le mie "pretese" erano trattate con sufficienza. Solo il fatto di essere in due ci ha permesso di far
valere i nostri desideri e non quelli del medico. Lo stesso medico che durante i corsi di preparazione ci faceva
vedere bellissimi filmini di parti sorridenti, con il padre vicino, con il rispetto dei più elementari principi
di un
parto "diverso", mi ha detto in sala-parto: "Spero non si sarà montata la testa con tutte quelle storie che vi
abbiamo fatto vedere al corso! Non è necessario seguirle alla lettera!". Niente più di questa frase
poteva farci forza
nella nostra convinzione che avevamo diritto di essere rispettati. L'ambiente quindi non era dei migliori, ma siamo
riusciti a comportarci quasi come se fossimo stati soli. Ho tenuto mia figlia sulla pancia, l'abbiamo toccata e tenuta
in braccio, il mio compagno ha seguito il suo primo bagno. Insomma l'abbiamo conosciuta subito tutti e due,
ignorando i sordi brontolii del medico per il fatto che Franco, dopo avere infranto la regola dello svenimento,
esagerava nel suo contrario: non aveva "schifo" a vedere, toccare, seguire me e la bambina in un momento in cui
tutte e due eravamo ritenute impresentabili; la piccola non era ancora lavata e vestita ed io "non ero certamente
un bello spettacolo", come spesso si sente dire di una donna che partorisce come se questa fosse la peggiore cosa
che può capitare: la figa in disordine!! Quando tutto è finito ci si accorge pienamente di essere in
ospedale: si
ritorna subito ad essere un letto con un numero; lo stato interessante veramente finito: si viene sballottate,
catalogate, visitate, nutrite, ma soprattutto ignorate. Arrivate a questo punto non si deve avere bisogno di niente
di più di quello che ti danno, né tantomeno di parlare, chiedere, sapere. Già incalzano altre
partorienti e bisogna
dare meno fastidi possibile. Chi esprime il desiderio di non allattare il proprio figlio viene considerata male, ma
paradossalmente chi, con
poco latte, chiede, insiste, nel tentativo di riuscirci è una che fa perdere tempo prezioso e viene liquidata
sbrigativamente. Lasciano le donne talmente abbandonate a se stesse che per colmo di ironia, si arriva alla visita
ginecologica prima di essere dimesse con una paura più forte di quella del parto. Vorrei sottolineare
comunque
che nonostante il roseo racconto anch'io sono stata colta dal panico di fronte al fatto che mi stava succedendo
una cosa del tutto nuova e sconosciuta, se non nella teoria. Ho superato questo panico con la volontà di
riuscire
a tutti i costi nel miglior modo possibile. Ho poi capito nei giorni successivi quanto siano vere e comprensibili
le esperienze negative che si raccontano in proposito. Ho sentito altre donne partorire, le ho sentite gridare, ho
parlato con loro: ho verificato come la maggiore responsabilità di questo dolore sia l'ignoranza. Il fatto
che il destino naturale della donna sia quello di partorire giustifica automaticamente l'assenza totale di
informazione, anche sui più elementari meccanismi che portano al parto. Ho anche notato che la gravidanza
non
desiderata si risolve spesso con un parto doloroso. Oserei dire che molto spesso (a parte ovviamente le molte
eccezioni di casi realmente difficili) il dolore del parto, come i disturbi in gravidanza, non sono altro che una
somatizzazione di ben altri problemi. Ebbene è proprio in questi casi, dove cioè le cose non vanno
nel migliore
dei modi, dove maggiormente le donne avrebbero bisogno di aiuto e comprensione, che il personale ospedaliero
mostra il suo vero volto. Ho sentito donne che piangevano e gridavano, ma sopra di loro si elevava sempre la
voce ancora più forte del
medico: questo individuo, che in fondo ha ben poca parte nella riuscita del parto, si arroga il diritto di protestare
e strepitare se una donna si permette di esprimere dolore e paura. Ho sentito personalmente le solite frasi: "...
adesso urla, ma prima...". È palesissima l'insofferenza dei medici nei confronti delle richieste di aiuto di tante
donne. Tutto questo con l'ovvio risultato di peggiorare notevolmente le cose. Infatti se da una parte esiste
l'ignoranza di molte donne su quanto sta succedendo loro, dall'altra permane l'atteggiamento irrisorio di tanti
medici che fanno di tutto per sottolineare l'incapacità delle donne di affrontare serenamente il parto, ma nulla
che
possa servire a cambiare le cose. Questo è veramente grave. È talmente fondamentale, secondo me,
il modo in cui
si vive questa esperienza nei rapporti stessi che si instaurano da subito con il figlio/a, che svicolare di fronte ai
problemi che questo comporta è una precisa responsabilità. Il cambiamento è difficile e se
non sono le donne ad
esigerlo, cominciando una pratica diversa, niente verrà loro "concesso". È fondamentale il rispetto
della
conoscenza del proprio corpo ed è in questo senso che bisogna cominciare a cambiare, rompendo l'abitudine
secondo la quale ci si affida ciecamente e completamente agli addetti ai lavori, ritenendosi incompetenti.
Autogestione quindi? Chissà! Perché intanto non proviamo?
E dopo?
Il ritorno a casa segna il vero cambiamento: c'è una persona in più, una persona sconosciuta con
cui fare i conti.
Ci si è presentato subito, prepotentemente, il problema di riorganizzare la nostra vita cercando di conciliare
il più
possibile le esigenze della bambina con le nostre, che permangono immutate. Non è facile, ma neanche
impossibile. Se poi si è realmente in due la cosa assume una dimensione realizzabile. Non voglio dire
che tutto sia come prima.
Anzi se si parte con questa convinzione le delusioni non mancano. Una delle cose che più volevo dimostrare
a
me stessa ed agli altri era l'infondatezza del concetto secondo il quale è la madre ad avere la
responsabilità
maggiore dei figli. Questo concetto è veramente ricorrente. Lo stesso Marcello Bernardi che ha scritto,
fra l'altro, un interessante libro sul bambino ("Il nuovo bambino") -
e che è stato intervistato sulla nostra rivista ("A" 70: la fabbrica dei cretini) - pecca in questo senso tirando
sempre in ballo come controparte del bambino la madre e non entrambi i genitori. Su questo punto avrei tante
cose da dire, troppe forse per essere riassunte in poche righe. È vero soprattutto nel primissimo periodo di
vita,
è la madre ad avere un rapporto più stretto col bambino: è lei che lo ha portato dentro di
sé e che costituisce il
suo primo punto di riferimento; è lei che, allattandolo, soddisfa il suo primo bisogno; è lei che nei
primi tre mesi
(periodo in cui si sta a casa dal lavoro) passa più tempo con lui. Ma questo non significa necessariamente
che
debba sempre essere così. Ci hanno legate, noi donne, a questo senso del dovere senza limiti in nome
dell'istinto
materno. E i padri si sono adattati comodamente in questa situazione. Anch'io sinceramente ho sentito questo
condizionamento in qualche momento particolare, ma la volontà comune a me ed al mio compagno di vivere
diversamente questo rapporto è sempre stata più forte e l'esperienza ci ha dato ragione. Spesso
ci siamo trovati, naturalmente, senza forzature, a capovolgere i luoghi comuni per cui la madre accudisce
ed il padre gioca, ma ancora più spesso abbiamo conciliato perfettamente queste cose: il fatto di poter
contare
ognuno sull'aiuto dell'altro ha fatto sì che stare con nostra figlia non sia mai stato un peso. Anzi in un certo
senso
con lei siamo tornati... ai giochi! In definitiva il rapporto madre-padre-figlio/a è quello che si vuole che sia,
mai
assolutamente precostituito come la nostra cultura vorrebbe. La migliore risposta ai nostri sforzi è quella
di nostra
figlia: ha con entrambi un rapporto bellissimo, diverso perché siamo diversi, ma paritetico. Ma se questo
è stato
per noi un primo relativo "successo", non altrettanto soddisfacente è stato un altro aspetto di questa nuova
situazione: il rapporto con gli altri compagni. La vita con nostra figlia ci ha costretto a cambiamenti, prevedibili
per noi, ma forse non altrettanto per gli altri. Soprattutto all'inizio c'è stata da parte nostra una diversa
disponibilità verso i compagni, non tanto forse in termini quantitativi, quanto piuttosto qualitativi. Mi spiego:
la
minor disponibilità di tempo ci ha inevitabilmente portato a fare delle scelte di priorità: partecipare
alla vera e
propria "attività politica" ha significato non dividere più totalmente il tempo libero coi compagni.
Questo a lungo
andare si è trasformato in emarginazione, isolamento dagli altri. Ed è questo secondo me il punto
che non quadra. Non pretendevo certo che i compagni fossero disponibili a dividere con noi questa scelta, ma
che dovessero
accettarla per quello che è, sì: una scelta diversa da quella di tanti altri, ma libera quindi altrettanto
valida.
Sinceramente ho invece avuto l'impressione che non sia stato così; non so quanto abbia influito su questo
il fatto
che io, come già detto all'inizio, ero abbastanza prevenuta su questo: mi aspettavo cioè un
atteggiamento critico
da parte dei compagni. Il fatto è che, nonostante facciamo un gran parlare di cambiare i rapporti, se solo si
esce
dal cliché di vita "da compagni" si rischia di ritrovarsi soli e la tanto sbandierata libertà individuale,
per una sorta
di moralismo a rovescio, viene accettata solo se rimane entro certi schemi precostituiti. Questo ci ha deluso
soprattutto perché la nostra non voleva e non vuole essere una scelta "individualistica", che ci separa dal
resto
dei nostri interessi: ci coinvolge come compagni ed è per questo che vorremmo che fosse aperta ad un
confronto
con gli altri. Gli argomenti di discussione non mancano: se da una parte l'ipotesi della socializzazione completa
dei bambini
è tutta da verificare, dall'altra è però impensabile liquidare l'argomento come un problema
esclusivamente
individuale; tra queste due opposte "soluzioni" ci possono essere tantissime altre possibilità. Certamente la
vita
che ancora siamo costretti a vivere, non libera, non ci consente di verificare fino in fondo qual è la strada
giusta
da seguire, ma secondo me è essenziale fare dei tentativi, misurare anche su questo problema la nostra
disponibilità ad una vita diversa, più "collettiva" se non nei suoi più ampi risvolti pratici
almeno nella discussione
e nel confronto su questo problema, anche se non ci siamo coinvolti come genitori. Questo almeno per ora non
si è verificato, ma non vorrei eccedere in pessimismo. Sono vere le impressioni che ho riportato sopra, ma
è
altrettanto vero che io ho sempre la voglia di cambiare. Questo è per me un argomento aperto alla
discussione, ma soprattutto aperto alla sperimentazione: come ho già
detto non esiste un modello universalmente valido da seguire. Anch'io sto imparando!!! Ma mi piacerebbe farlo
anche con qualcun altro, oltre al mio compagno. Chiedo troppo?
Rosanna Ambrogetti
Donne e parto
Pippo, qual è l'atteggiamento, o i diversi atteggiamenti, delle donne di fronte al parto?
Innanzi tutto non c'è un atteggiamento davanti al parto: esso viene vissuto in maniera estremamente
differenziata
a seconda dei diversi tipi di donne: esiste una grande differenza fra donna giovane e quella anziana, fra quella al
primo figlio e quella al secondo o al terzo; fra la donna sola e quella che al momento del parto può contare
sulla
compagnia di qualcuno; fra la donna "semplice" e quella "sofisticata"; dipende dal grado di cultura, di
integrazione sociale ecc.. Comunque il dato di maggiore influenza sembra essere l'accettazione, non tanto del
parto il sé, quanto del figlio.
Quindi secondo te si può ipotizzare una connessione fra l'atteggiamento di fronte al parto e
l'andamento del
parto stesso?
Senz'altro; è quasi una costante. L'accettazione o meno del figlio incide molto sul modo di affrontare
il dolore
del parto: il figlio non voluto, che ha fatto sbuffare in gravidanza fa sbuffare anche durante il parto.
E l'ambiente?
Anche questo, secondo me, è un fattore che incide moltissimo. In un ambiente tranquillo, piccolo, quasi
familiare,
con qualcuno vicino che segue più direttamente il parto la cosa viene vissuta con più serenità
e sicurezza che non
in un ambiente (il grosso ospedale) con tante donne contemporaneamente in travaglio in cui il personale è
diviso
fra tante partorienti e spesso sostituito da macchinari vari. Lo stato d'animo delle donne varia molto se inserite
in queste due diverse situazioni.
D'accordo, ma non mi sembra che la dimensione sia sufficiente a giustificare le carenze dell'ospedale e
dei
medici.
Sì, questo in parte vero. Infatti è molto diffuso, a prescindere dalla dimensione della struttura
ospedaliera, un
atteggiamento tutt'altro che positivo dei medici e delle stesse ostetriche nei confronti delle partorienti: quasi una
colpevolizzazione delle donne per il loro dolore. Questo comportamento è senz'altro deleterio poiché
il fattore
"calma" è essenziale nell'andamento del parto; e purtroppo è un atteggiamento diffuso anche ad altri
campi, non
solo in quello ginecologico. Purtroppo i medici sono spesso preoccupati principalmente, ad esempio, di farsi
una "casistica", nella prospettiva
di consolidare la loro posizione. Non a caso usano due pesi e due misure: la "cliente privata" viene trattata con
oggi riguardo (Ne va del prestigio personale!), mentre per la "sconosciuta" c'è una grossa indifferenza. E
di
conseguenza salta fuori come ogni medico agisca per conto proprio, come sia quasi completamente ignorato un
lavoro d'équipe, come praticamente in ogni reparto chi decide è innanzi tutto il primario, senza alcun
controllo
diciamo, genericamente, dal basso. Secondo me comunque questa situazione si può modificare proprio
partendo
da un maggior controllo dall'esterno: con una maggiore educazione sanitaria, intesa qui nel senso di far prendere
coscienza alla gente che la medicina pubblica è un "bene" al proprio servizio. Quindi educazione sanitaria
da non
delegare al medico, ma di cui appropriandosene. Certamente gli ospedali sono dei grossi carrozzoni che fanno
acqua da tutte le parti e, secondo me, non dovrebbero essere più gli unici luoghi in cui si fa medicina, ma
essere
affiancati da una serie di altre strutture senz'altro positive. Nel campo ginecologico, poi, questo sarebbe ancor
più
facilmente realizzabile: ad esempio a livello consultoriale si riuscirebbe, con una gestione più diretta delle
donne,
ad ottenere molto.
Pippo, nonostante ciò che hai detto finora, mi sembra che tu rimanga sostanzialmente "medico".
Allora, da
medico, cosa pensi si debba e si possa fare da subito?
Principalmente ci vorrebbe l'impegno di tutti, medici e non, per "smedicalizzare" molte cose. Le proposte
pratiche sarebbero tante ed io credo che almeno in parte sarebbe possibile realizzarle, e forse qui
sono in disaccordo con te visto che non sono anarchico, anche agendo a livello amministrativo. Oltre poi
all'ambito strettamente ospedaliero è secondo me giusto non sottovalutare niente: dall'ostetricia domiciliare,
al
parto senza violenza ecc., senza però crearne nuovi miti. Certo è che la qualità di queste cose
cambia in maniera
direttamente proporzionale all'aumento della democrazia diretta, dell'autogestione possibile. Ma l'autogestione
in questo campo non è realizzabile se rimane un fatto a sé stante: ciò è possibile se
è in piedi un movimento di
lotta per la salute; se il livello della lotta per la difesa della salute è alto, quindi miglioramento dell'ambiente
ecc.
E qui il discorso diventa enorme: arriviamo a parlare di ecologia, di modelli sociali... In definitiva esperienze
importanti e significative sono possibili se la lotta è in piedi: quanto più ci si ammoscia, si delega,
allora è ovvio
che non si delega solo a livello politico, ma anche, a livello spicciolo, per quanto riguarda la propria salute.
Bambini, genitori, asili-nido
Laura, tu vivi con i bambini per motivi di lavoro, quali sono stati e quali sono i problemi che hai con
loro?
Considerata la scarsa, anzi nulla, preparazione che mi è stata data dall'Istituto Magistrale non nascondo
le
difficoltà che ho trovato per "adattarmi" a bambini così piccoli, bambini di cui tanto si parla per
quanto riguarda
le pappine i pannolini ecc., ma di cui poco si discute per quegli aspetti e per quelle esigenze che non sono
unicamente igieniche-sanitarie. Per cercare di instaurare un rapporto positivo con il bambino è senz'altro
indispensabile il confronto con i genitori. Sarebbe necessario, quindi, conoscere l'ambiente in cui il bambino vive,
il tipo di rapporto che ha col padre e la madre e con tutte le persone che in un modo o in un altro e entrano in
contatto con lui. L'esigenza maggiore che spinge i genitori ad accettare il nido è determinata dal non avere
possibilità diverse nel collocare il proprio figlio e l'asilo viene visto, molto spesso, come puro e semplice
luogo
di "deposito". In conseguenza di questo e dati gli orari di lavoro e dell'asilo, spesso vi è solo un rapporto
saltuario
fra insegnanti e genitore, un rapporto che si riduce ad un elenco di ciò che il bambino ha mangiato, sia fatto
la
"cacca", come si è ritrovato quel morso sulla guancia, ecc.. Uno dei tanti problemi è quindi quello
di cercare di
coinvolgere i genitori in ciò che avviene all'interno del nido; è infatti essenziale un buon rapporto
famiglia-nido
affinché il bambino non sia frustrato continuamente in due ambienti diversi fra loro e non comunicanti.
Secondo te cosa e quanto influisce il rapporto che il bambino ha con i genitori, e più in generale
con gli altri,
sul suo comportamento?
È ormai consapevolezza di tutti che ogni bambino sin dalla nascita riceve innumerevoli stimoli e risposte
che lo
inducono poi ad adottare un metodo di comportamento che può essere più o meno positivo in
conseguenza del
tipo di rapporto che riesce ad instaurare con i genitori e, visto come è strutturata la società, in
particolare con la
madre. È credenza comune che i primi mesi di vita del bambino siano come giorni di letargo e di
estraniazione
e vengono quindi considerati un periodo per il suo sviluppo di persona. Ma è questa una credenza
profondamente
errata ed a sostegno di questo si possono portare innumerevoli esempi che ho anch'io sotto gli occhi ogni giorno:
in genere i bambini più "tranquilli" e più sereni sono quelle che sono allattati (al seno della madre
e non) in un
tempo maggiore e con attenzioni tattili, di gioco, ecc.; ancora: i bambini che sin da piccoli hanno maggiori stimoli
visivi, sonori e possibilità più vaste di manipolazione sono poi più capaci, anche al di fuori
del mondo da loro
principalmente conosciuto, di recepire nuovi stimoli. In sostanza, soltanto se il bambino ha potuto sperimentare
l'efficacia dei suoi segnali, cioè ha ricevuto risposte pronte ed adeguate, soprattutto nei primi mesi di vita
ed ha
goduto di rapporti affettivi ricchi di contatti fisici (ad es.: venir preso in braccio per essere nutrito, cambiato,
consolato, ecc.) potrà sviluppare la fiducia nell'ambiente ed una certa sicurezza nelle sue capacità
che gli
permetteranno poi di sviluppare una autonomia ed una indipendenza maggiori. Se sin dai primi mesi di vita si
possono riscontrare certi comportamenti che sono determinati dal rapporto fra bambino e genitori, si può
senz'altro verificare ancora meglio quando il bambino è più grande, e cioè riesce ad
esprimersi attraverso la parola,
il disegno e la drammatizzazione. Penso che tutte le insegnanti della scuola materna abbiano potuto verificare
come un bambino abituato ad avere in casa rapporti di una certa affettuosità (intesa qui nel senso più
ampio del
termine) sia poi più disponibile e fiducioso al contatto con persone fino ad allora estranee e come invece
un
bambino privato o comunque limitato in questo sia in genere più impaurito, o assuma comportamenti
aggressivi
e di difesa nel rapporto con gli altri. Inoltre, tanto per continuare a fare degli esempi, ho potuto constatare come
i bambini, sin dai primi anni di vita interiorizzano il ruolo del papà e della mamma nella società ed
all'interno
della famiglia: in quello che dicono o nei disegni che fanno, anche i primi e più elementari, si trova il padre
che
lavora fuori casa, che legge il giornale, mentre la madre lava i piatti, stira ecc. dimostrando così come si
siano già
formati schemi mentali che poi difficilmente si riescono a mutare, permettendo così a questa società
di riprodursi
nella sua negatività. Un argomento così vasto non può certo esaurirsi in quello che ho
detto finora, ma vorrei ribadire quanto sia
determinante il rapporto col proprio figlio fin dai primi momenti di vita, poiché questi sono fondamentali
per la
formazione del carattere e della personalità di un essere umano e come si possa indirizzare in un senso o in
un
altro i suo modo di concepire la vita, la sua possibilità di avere rapporti sociali più o meno
soddisfacenti. Resta
da vedere comunque come questa società dia poi la possibilità, a livello di tempo, di conoscenza,
di serenità, ai
genitori ed agli adulti che stanno con il bambino di avere con lui un rapporto positivo; e quindi, penso, le cose
da dire sarebbero tante.
Progetto harmonio
Che cos'è e cosa si propone e da quali esigenze è nata l'iniziativa Harmonio?
L'iniziativa per una "Colonia anarchica estiva per bambini" nasce da un appello apparso tempo fa su
"Umanità
Nova". In quel piccolo annuncio Cristiano proponeva al "movimento" la discussione di una proposta pedagogica
ancora non ben delimitata, ma che conteneva già alcuni elementi qualificanti sui quali ci si poteva
confrontare.
Ho già provato a specificare le esigenze ed i bisogni che portarono alla proposta ("L'Internazionale" n. 18
del
25/11/79 - ndr) riassumendole come "voglie": voglia di recuperare/rivendicare il nostro rapporto con l'infanzia;
voglia di educare/educarci alla libertà ed all'autogestione; voglia di verificare la nostra disponibilità
e "tolleranza";
voglia di arrivare ad una "liberazione" non formale in un mondo che libero non è mai stato e non sembra
voler
diventare... Il neonato "progetto pedagogico" (poi battezzato Harmonio - Armonia in Esperanto) è nato
con questi
presupposti in un momento non certo dei più felici per impegno ed iniziative; un "momento" che sembra non
voler
ancora terminare! Non è mia intenzione fare la cronistoria delle vicissitudini che hanno coagulato
attorno ad Harmonio gli sforzi
di pochi e l'adesione di molti, l'importante è, ora, proseguire nella definizione della colonia e continuare il
dibattito sul ruolo pedagogico che con maggiore consapevolezza ogni anarchico si trova a svolgere ogni giorno.
Sotto la sigla di "colonia" sta quindi la volontà di arrivare non solo a "quindici o venti giorni di esperienza
autogestionaria per noi e per i figli dei nostri compagni", ma anche e soprattutto ad una riflessione critica
sull'educazione e sulla rapporto con l'infanzia che si configura molte volte come rapporto con il nostro passato
di "educati".
Io credo, e la mia esperienza in proposito me lo conferma, che sia molto importante sia per i nostri figli
che
per i genitori il rapporto che si stabilisce da subito fra di loro; ma anche (ed in maniera altrettanto
importante) fra loro e gli altri. Da parte vostra, con questa iniziativa, come pensate di inserirvi in questo
rapporto?
Vorrei parlarti di un fenomeno molto diffuso che contraddistingue la nuova impostazione del rapporto
genitori-figli in questa "nostra" società sempre più tecnocratica e schematizzata/atomizzata. Se una
volta la gestione
dell'educazione dei figli era interamente delegata alla madre ed alla scuola ora le cose non sono così
semplici.
Entrano in gioco figure diverse che vanno dai nonni alle baby-sitter e che hanno la funzione di "decentrare" ed
alleviare il peso enorme di un rapporto educativo sempre più frammentario e slegato. La famiglia nucleare
minacciata nella sua struttura e nei suoi più intimi legami risolve le sue contraddizioni cercando di
allontanarle
investendo con i suoi problemi un numero crescente di strutture e persone. In questo modo invece di lottare per
diminuire l'orario di lavoro ed avere più tempo disponibile per "vivere", si combatte per asili e servizi
scopertamente al servizio dello stato e della sua ideologia, rifiutando lo scontro vero. Rischio la banalità
affermando che moltissime volte non è possibile per un genitore - maschio o femmina che sia - impostare
un
sereno rapporto con i propri figli perché continuamente lacerato da turni massacranti e da contraddizioni fra
il
proprio "ruolo" e la propria identità reale. La colonia, in questo senso, non può risolvere niente,
è chiaro, ma deve
saper dare gli "strumenti" capaci di far raggiungere a tutti i genitori e bambini, "colonizzatori" e e "colonizzati",
momenti di vita comunitaria vicini il più possibile ad una pratica anarchica. Sull'opportunità di
lavorare nella
colonia con ai fianchi genitori dei bambini penso siano da dire ancora moltissime cose: certamente si creerebbero
situazioni di "squilibrio" fra i bambini (chi ha il padre o la madre presenti oppure no), ma d'altronde penso sia
effettivamente possibile riuscire a "collettivizzare" il genitore coinvolgendolo nella pratica comune. Certo è
che
senza la sua disponibilità ben poco si può fare. Harmonio non vuole essere un campeggio
all'avanguardia; bello
e alternativo di fuori ma terribilmente sclerotico e "normale" dentro. È ora che i rapporti - e soprattutto
quelli
fra compagni - cambino realmente e non solo in superficie: la più grande "discriminante" del progetto
è proprio
la volontà di cercare insieme una "armonia" che da tanto tempo rincorriamo invano.
Altra domanda un po' provocatoria: vuole essere un impegno di ogni estate o qualcosa di
più?
Proviamo ad immaginare per un attimo che il "progetto pedagogico Harmonio" assuma sembianze umane.
Pensiamo ad un bambino di poco più che un anno. Ecco, in un ultimo sforzo di astrazione, rivolgiamogli la
domanda che tu mi hai fatto......
Discorso a un bambino.
Se ti dicono sempre che sei Bravo, sta in guardia: Qualcuno cercherà di
sfruttarti. Se ti dicono sempre che sei Intelligente, sta in guardia: Qualcuno
cercherà di eliminarti. Se ti dicono sempre che sei Ubbidiente, sta in
guardia: Qualcuno cercherà di farti schiavo. Se ti dicono sempre che
sei Buono, sta in guardia: Qualcuna cercherà di opprimerti. Ma se ti
dicono Studia, non temere: Tu potrei fare un mondo senza scuole. Se ti dicono
Taci, non temere: Tu potrei fare un mondo senza bavagli. Se ti dicono Obbedisci,
non temere: Tu potrei fare un mondo senza padroni. Se ti dicono Chiedi
Perdono, non temere: Tu potrei fare un mondo senza inferni. Non credere a chi
ti comanda, a chi ti punisce, a chi ti ammaestra, a chi ti insulta, a chi ti deride, a chi
ti lusinga, a chi ti inganna, a chi si disprezza. Essi non sanno che tu sei ancora un uomo
Libero. (Marcello Bernardi) |
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