Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 82
aprile 1980


Rivista Anarchica Online

Elezioni - Noi non ci saremo
di Paolo Finzi

Il 18 maggio si presenteranno pure loro, con il loro bravo simbolo (l'indice puntato all'insù, cioè più o meno "vaffanculo" all'americana) ed il loro capolista (pare sia uno del complesso rock degli Skiantos): si tratta della lista punk, presente a Milano e forse in altre località, alla quale hanno già assicurato la loro adesione svariati esponenti della "nuova sinistra", ex-sessantottini in crisi, travoltini di sinistra e fauna simile. Vi saranno poi numerose liste verdi, ecologiste, antinucleari, per la cui formazione sono in corso già da settimane febbrili riunioni tra militanti radicali, esponenti di vari movimentini, lotta continua per il comunismo, altre formazioni marxiste più o meno autonome, ecc. Pare che anche i trotzkysti in qualche località si presentino con proprie liste, mentre altrove voteranno (come hanno quasi sempre fatto) per il P.C.I.. Insomma, in un modo o nell'altro, all'appuntamento elettorale di maggio ci saranno tutti, ma proprio tutti. Fascisti e antinucleari, autonomi incazzati e sfondatori ai concerti, sballati e militonti, non mancherà nessuno alla grande fiera elettorale. Noi no, noi non ci saremo.
E già, bravi voi anarchici, tanto a voi non ve ne frega niente di niente. Tanto voi non votate mai. Stringi stringi, l'obiezione che ci viene mossa è sempre la stessa: il nostro astensionismo sarebbe frutto di una scelta tutto sommato qualunquista, mascherata e rafforzata da una sclerotica coerenza con dei "sacri principi" astratti e inconcludenti. Niente di più falso. Cominciamo dall'accusa di qualunquismo: essa potrebbe avere un qualche fondamento solo se le elezioni fossero l'unico momento di partecipazione a nostra disposizione per incidere sulla realtà sociale. Al contrario, non solo noi riteniamo che vi siano ben altri strumenti di intervento sociale, ma siamo profondamente convinti che le elezioni (comunali, regionali o nazionali che siano) costituiscono il massimo momento della non-partecipazione, cioè della delega di potere. Partecipando in qualsiasi modo alle elezioni non si può ottenere altro che un'ulteriore legittimazione di questo sistema basato sulla delega di potere, e ciò, lo sottolineiamo, indipendentemente dai risultati delle elezioni stesse. Disertando le urne, anzi ancor più impegnandoci a fare il vuoto intorno al potere e alle sue urne, noi intendiamo riaffermare la nostra volontà di partecipazione in prima persona, senza deleghe di nessun tipo, alla vita e alla lotta sociale: qualunquista è semmai chi accetta di delegare e ancor più chi spinge gli altri ad imitarlo nel partecipare alla farsa delle elezioni.
A chi ci accusa di essere fermi all'Ottocento, di ripetere continuamente la scelta astensionista solo per incapacità di nuove elaborazioni strategiche, di essere in fin dei conti asserragliati in una torre d'avorio ideologica che non tiene conto dei tempi, possiamo rispondere che se noi in effetti ci limitassimo a ripetere quel che scrissero Bakunin o Malatesta cent'anni fa, e basta, forse la loro critica potrebbe avere qualche validità. Anche in questo caso, però, la verità è un'altra: noi siamo astensionisti per convinzione, ed è proprio l'esperienza storica maturata come movimento anarchico in oltre un secolo di storia a rafforzarci in questa nostra convinzione. Certo - come abbiamo scritto su queste colonne in vista delle elezioni dello scorso giugno - le ragioni di fondo che stavano alla base della scelta astensionista fatta dai primi nuclei della Prima Internazionale sono ancora valide - e tali resteranno sempre in un regime statale. Non per questo siamo astensionisti per tradizione, anche se di fatto con il ripetersi di ogni appuntamento elettorale della nostra scelta astensionista "proseguiamo" una tradizione. È infatti anche dall'analisi della situazione attuale, e conseguentemente dei metodi di lotta più efficaci per combattere oggi lo Stato, che deriva la nostra scelta di disertare le urne.
Ciò a cui il governo, lo stato, il potere non possono fare a meno è il consenso delle masse: tutti i governi e tutti i governanti, sanno che la forza bruta, quella che si esprime nella repressione sanguinosa, nelle torture, nelle carceri, nel terrore, non è sufficiente per continuare a "restar su": la violenza bruta è spesso indispensabile per conquistare il potere, per scalzare chi c'era prima, ma non è mai bastata per durare nel tempo. È dunque necessario che la violenza delle istituzioni autoritarie si mascheri, o meglio ancora che venga interiorizzata dai cittadini/sudditi al punto da venire da questi richiesta e invocata. Questo è proprio il tipo di consenso cui ogni regime aspira, pur con diversi metodi e diversi risultati.

In Italia, in particolare, stiamo assistendo da vari anni ad una notevole accelerazione di questo processo: di fronte all'aggravarsi della crisi sociale (inflazione galoppante, aumento della disoccupazione, ecc.) La credibilità del sistema vacilla più del solito e ciò provoca l'intensificarsi dell'attività propagandistica di regime in difesa della "istituzioni democratiche", cioè di se stesso e della sua continuità. Tutti i mass-media sono mobilitati, al di là di qualsiasi distinzione politica, in difesa della Stato, per dimostrare ai cittadini/sudditi, e agli sfruttati soprattutto, che al di là di ogni pur giusta critica verso questo o quell'aspetto, è interesse di tutti mobilitarsi per difendere l'attuale regime. Un ruolo di primo piano in questa operazione è svolto naturalmente dalla sinistra riformista (P.C.I. e sindacati in testa), che sfrutta a suo vantaggio (e, in definitiva, a vantaggio dello Stato tutto) la sua tradizionale colonizzazione del movimento operaio e di larga parte degli sfruttati. Ancor più significativo dal nostro punto di vista, anche se indubbiamente di minor peso sulle vicende politiche quotidiane, è l'appoggio che a questa operazione viene puntualmente ad ogni appuntamento elettorale dall'estrema sinistra (più o meno) marxista, dai movimenti e dai partitini ex-extraparlamentari e comunque da tutti coloro che spingendo la gente a votare (per loro, logicamente, ma è pur sempre votare) accettano le regole del gioco scelte dal sistema, e comunque ad esso funzionali.
In particolare, il carattere "locale" della prossime elezioni amministrative (differente da quello "nazionale" delle elezioni politiche) rende più forte la sinistra elettoralistica: per la gente si tratta di eleggere, infatti, gli amministratori dei comuni, delle province e delle regioni fra nomi e volti spesso noti - soprattutto nei piccoli centri - anche personalmente. A ciò si aggiunga il fatto che in simili elezioni è molto più facile "metter su" una lista e presentarsi al voto, come testimonia il tradizionale fiorire di liste di ogni tipo in occasione di tutte le elezioni amministrative. Tutto sommato, si tratta di elezioni più facilmente presentabili come "vicine alla gente", che quindi può essere convinta con minor sforzo dai mass-media a recarsi alle urne. Soprattutto, trattandosi di elezioni "decentrate", si tratta di un'ottima occasione per lo Stato per riaffermare la sua democraticità e la sua duttilità alle esigenze locali. Cioè, in definitiva, per rafforzare la sua credibilità.
In questo contesto va inquadrato il continuo moltiplicarsi di elezioni di ogni tipo e in ogni campo, sempre promosse e gestite dallo Stato. In campo scolastico, per esempio, si è votato a febbraio per l'elezione degli organismi rappresentativi previsti dai "decreti delegati" - anche se il carattere fittizio di quegli organismi era tale che perfino le forze giovanili della sinistra storica hanno preferito, per una volta, invitare i loro simpatizzanti all'astensione (finalizzandola comunque al miglioramento della legge stessa). Il mese successivo si è votato addirittura nelle caserme, per la prima volta nella storia dell'esercito italiano - ma anche in questo caso gli organi eletti non hanno alcun potere e ciò spiega il diffuso malcontento negli ambienti democratici con le stellette. Resta comunque il fatto che l'epidemia votaiola estende il suo contagio senza soste.
Anche i partiti (P.C.I., in testa), seppur con modalità diverse, sono alla ricerca di un coinvolgimento sempre più intenso dei sudditi/elettori ed hanno escogitato differenti metodi di consultazioni delle loro basi elettorali per giungere alla definizione delle liste elettorali. Sondaggi promossi dagli apparati di partito, questionari distribuiti a centinaia di migliaia di persone, elezioncine dirette sull'esempio della nomination americana: tutto viene sperimentato in queste settimane per rafforzare i legami tra la gente ed i partiti istituzionali. Insomma, elezioni a destra, elezioni a sinistra. E come se tutto ciò non bastasse, ecco il partito radicale con la sua proposta di 10 referendum abrogativi, la cui raccolta delle firme inizia il 30 marzo. Come già in occasione dei passati referendum, anche in questo caso noi siamo astensionisti per convinzione. Certo, un referendum abrogativo di una legge è cosa diversa da una normale elezione amministrativa o politica: partecipando ad n referendum non si elegge nessuno, non si vota per nessun partito, ma ci si limita ad esprimere un'opinione (negativa o positiva) in merito ad una legge vigente. Ed è sulla base di queste (ed altre simili) motivazioni che non pochi anarchici hanno partecipato ai passati referendum e quindi presumibilmente (loro e/o altri) parteciperanno ai prossimi (se ci saranno) e comunque daranno la loro firma perché si possano tenere.
Al di là di pur valide motivazioni tecniche (p. es., che abrogando una legge anche tramite un referendum si legittima automaticamente il parlamento ad emanarne una nuova, e quindi a funzionare "recependo" il volere popolare), la ragione di fondo del nostro rifiuto di partecipare comunque a qualsiasi referendum sta nella convinzione che anche per queste votazioni "particolari" valgono le nostre considerazioni sull'uso che il potere comunque fa del momento elettorale. Ne eravamo convinti ancor prima dell'ormai storico primo referendum abrogativo (quello sul divorzio nel '74) e proprio nel notevole aumento di credibilità che il sistema ottenne in quell'occasione trovammo conferma della nostra scelta astensionista. I successivi referendum non hanno fatto che confermarci nelle nostre posizioni, in polemica con i compagni "referendumisti".
Non si tratta, come ritiene qualcuno, di una differenza secondaria, perché coinvolge una questione fondamentale di metodo, qual è il rapporto tra mezzi e fini. Se, come noi crediamo, la nostra azione è tutta tesa a maturare la lotta di classe degli sfruttati in consapevolezza libertaria ed egualitaria ed in volontà rivoluzionaria, i mezzi utilizzabili sono tutti e solo quelli coerenti con questi fini. Quei mezzi accrescono la fiducia degli sfruttati nella loro capacità di autogestire la lotta oggi e la vita domani, ed insieme la sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni: quei mezzi che nella terminologia libertaria sono definiti "azione diretta". La distinzione tra i rivoluzionari e i riformisti ed ancor più tra gli autoritari e gli antiautoritari passa attraverso il rifiuto dei mezzi d'azione istituzionale (e non attraverso la banale e mistificante questione del "tutto o niente"). Un rifiuto non aprioristicamente ideologico, ma semplicemente logico.
Il mezzo istituzionale di azione politica - e il referendum ne è un esempio anomalo, ma non per questo meno efficace - è precisamente uno strumento per incanalare i conflitti sociali nell'ambito del sistema e della sua struttura gerarchica. Un motivo più che sufficiente, ci pare, per riaffermare anche in occasione di eventuali prossimi referendum la nostra scelta astensionista.