Rivista Anarchica Online
Il Dioniso incatenato
di Emilio Pucci
Fra i tanti obiettivi che l'essere umano si deve porre nel suo disperato, per adesso ancora vano,
tentativo di liberarsi dal giogo delle istituzioni gerarchiche che lo dominano e lo costringono, c'è
e ci deve essere senz'altro il riacquistare la capacità di Essere nella propria interezza psicofisica,
la capacità di esprimersi con la totalità dei propri mezzi di comunicazione e con la coscienza di
essi. Riacquistare una capacità espressiva che sia integrazione "armonica" fra gestualità e
vocalità; ridare al proprio corpo (nel senso di unità psicofisica) la sua primordiale dignità
di
elemento principale, soggetto-attivo nella comunicazione. In parole povere: reimparare a usare
tutto il proprio corpo e non solo alcune parti di esso, per esprimere, dire, raccontare. Il discorso è
ormai noto. Ci ha quasi annoiato in certi periodi, in cui con tanta superficialità e tanto
pressapochismo si cercavano nuovi fronti culturali su cui poter sostenere la solita "stagionale"
lotta al sistema. Ma i problemi restano, purtroppo, anche quando passa la voglia di risolverli: il
bisogno di stare insieme, in tanti, è ancora vivo e pungente anche se dalla festa del parco Lambro
è passato tanto tempo. La voglia di essere "teatralmente selvaggi" in una struttura urbana
brutalizzante è ancora viva anche se gli indiani metropolitani non ci sono più. Resta anche il
tempo (quest'ultimo sembra non mancare mai) per riaffrontare e reimpostare il discorso cercando
di capire le vere radici del problema, in questo caso quello riguardante il rapporto fra le strutture
sociali e la libera inarrestabile energia espressiva, individuale e collettiva. Individuare le radici
significa soprattutto mettere a nudo i conflitti essenziali che sono alla base dei fenomeni sociali.
Il corpo come primo e principale strumento (quindi contemporaneamente soggetto-oggetto)
comunicativo e la microsocietà come primo luogo di tale comunicazione. In un suo articolo
("Dimensione Corpo", Scuola Italiana Moderna, n. 3 del 15.10.1978), Sergio Missaglia scrive:
Suoni, fenomeni, gesti, scarabocchi, sono alfabeto corporeo, il primo discorso, la prima
somatizzazione del primo linguaggio, fissano lo scarto primitivo fra il desiderio di
rappresentarsi (rendersi presenti) e il suo soddisfacimento; fino alla parola, musica, danza,
pittura; echi in cui risuona la primitiva sensorialità divenuta coscienza e poi simbolo. Dunque, si
parla continuamente di "primitivo" di "primordialità" riportando giustamente il discorso alla
ricerca antropologica sull'origine del bisogno della teatralità. Pur tenendo ben presente l'innegabile
relatività del termine "primitivo", possiamo confrontare i
nostri modi di rappresentare e di rappresentarci con quelli degli uomini di epoche passate o di
società attuali ma organizzate su un inferiore livello tecnologico. Da tale confronto risulterà
chiaramente che se l'uomo attuale ha molti più strumenti per diffondere ad un maggior numero di
individui il suo messaggio, egli ha perso però molte capacità perché tale messaggio sia
recepito
nell'interezza delle sue componenti emotive e relazionali. Questa continua perdita di capacità
espressiva è indubbiamente proporzionale al continuo progressivo aumento e perfezionamento
dei mezzi e dei modi della comunicazione di massa. Il discorso si amplia inevitabilmente
nell'esteso campo delle teorie comunicazionali, ma ciò che più ci interessa adesso sono le
possibilità del teatro, non come luogo scenico ma come fusione di molteplici modi espressivi,
all'interno delle nostre società e rispetto al rafforzamento continuo del potere statale. Basta
percorrere con un rapido sguardo gli eventi della cosiddetta "storia del teatro" (chissà poi perché
sempre storia del teatro "occidentale") per rendersi conto di come in alcuni particolari momenti
storici appaiano ben chiare due tendenze opposte nella ricerca e nella strutturazione dello spazio,
dell'argomento e del luogo scenico. Nel medioevo, ad esempio, alle rappresentazioni religiose dei "sacri misteri"
del vangelo si
contrapponevano le rappresentazioni dei "misteri profani" che erano una diversa, popolare
interpretazione dei fatti religiosi del vangelo. Tali rappresentazioni, naturalmente proibite dalle
autorità ecclesiali, si svolgevano, a volte improvvisate, nelle piazze di città o villaggi con la
partecipazione di tutti gli abitanti. Se nelle rappresentazioni legate alle istituzioni del potere
civile e religioso si andava perseguendo lo scopo di uno spazio scenico ben delimitato, di un
pubblico sempre più separato dagli attori e controllato da severi "maestri di cerimonia", al fine di
evitare una continua trasformazione del contenuto e dei modi dell'esecuzione; dall'altro lato, nelle
rappresentazioni profane e popolari, era inesistente ogni sorta di rigidezza; era impossibile
individuare una netta linea di demarcazione fra pubblico e attori che insieme contribuivano alla
continua rielaborazione spontanea dei dialoghi e delle storie raccontate. I noti "Misteri Buffi"
portati in scena da Dario Fo e Franca Rame non sono altro che alcune delle svariate forme di
questo teatro medioevale di tipo "alternativo". A confronto dunque, due concezioni, due modi di intendere e
basare il teatro. Il potere sa che
ogni forma libera e spontanea di espressione teatrale (ma non solo teatrale) arriva di fatto alla
negazione di ogni tipo di regole e modelli imposti: esso infatti conosce e teme la grande energia
creativa psichica e sociale che si sviluppa in ogni libera esperienza umana. Di conseguenza tenta
di imporre delle regole e dei limiti all'energia espressiva. A Parigi, nella famosa piazza del
Beaubourg un discreto cartello ufficiale avverte: "In questa piazza la libera animazione teatrale è
consentita dalle ore... alle ore..."; superato il limite di tempo arrivano puntualmente gli sbirri! La forma
generale del potere è la coppia dominatore/dominato. Nelle società attuali per quanto
si delimita il terreno d'indagine, tale coppia si ritroverà sempre, esattamente, come se si
sezionasse una sbarra magnetica: immediatamente noi ritroveremo ai due estremi, i poli
ricostituiti. (Piero Flecchia, Natura e libertà, in "A" n. 79). Anche nella sfera teatrale
ritroviamo
puntualmente questa coppia base del sistema statale: la divisione netta fra produttori e fruitori
dell'oggetto rappresentato. La storia del teatro è anche storia di una continua progressiva separazione
fra l'area propriamente
scenica e l'area circostante, destinata al pubblico. Dalle primitive forme di teatro in cui tutta la
comunità partecipava all'azione gestuale, vocale e strumentale, alle successive forme teatrali
"ortodosse": spettatori in assoluto silenzio, seduti immobili su minuscole poltroncine seguono
imbarazzati l'incomprensibile evolversi dell'azione sul palcoscenico. Ci dicono dunque di stare zitti. Ai bambini
si dice di non schiamazzare per i corridoi. Non è
norma di buona educazione ridere sguaiatamente. È il nostro silenzio (chi tace acconsente) il
cemento di questo sistema (a)sociale. Se "il sonno della ragione genera mostri", il silenzio li
moltiplica!! C'è non solo uno "scarto primitivo fra il desiderio di rappresentarsi e il suo
soddisfacimento",
come scrive Missaglia, ma anche (e forse soprattutto) una lacerazione voluta e programmata dalle
istituzioni dominanti fra bisogno di rappresentare e sue effettive possibilità di soddisfacimento
sociali e ambientali. Non siamo noi, esseri del ventesimo secolo, i primi (ne saremo gli ultimi) a
sentire questa profonda insoddisfazione espressiva, questa limitazione a uno spontaneo sfogo
psicofisico. È di vecchia data l'origine, se mai c'è stata un'origine, del conflitto fra i bisogni
espressivi dell'individuo e della collettività e le esigenze delle sovrastrutture gerarchiche del
potere statale: conflitto che si riproduce continuamente sotto varie forme, per quanto il potere
tenti sempre di annullarlo o di contenerlo. Lo scontro è sempre lì, davanti ai nostri occhi, sempre
visibile, per chi lo vuol vedere, nella sua durezza e drammaticità. Ogni tentativo di mediazione
frana miseramente e dal cumulo di tali macerie riformiste rispunta l'eterna contrapposizione,
forse sotto altre vesti e altre sembianze, ma sempre forte e vitale. Lo scontro c'è: ignorarlo
sarebbe impossibile. Fra le primitive popolazioni dell'entroterra del bacino mediterraneo e fra quelle dell'area
medio-orientale, strettamente legate, come tutti i popoli primitivi, alla terra come inesauribile fonte di
risorse e di vita, la celebrazione della fecondità (vegetale e animale) era fra i momenti più
importanti e sentiti della ritualità collettiva. Ma come celebrare lo schiudersi e il liberarsi delle
energie biologiche del mondo circostante se non con la liberazione delle proprie energie
psicofisiche, comprese quelle sessuali? Danza e musica, in un crescendo ritmico, erano la base
della atmosfera orgiastica che scaturiva da tali riti: basti pensare alle danze frenetiche delle
tarantolate che fino a qualche tempo fa si eseguivano ancora in quei paesi dell'Italia meridionale
dove più forte è stato l'influsso orientale. La danza della tarantola (da cui il famoso ballo della
"tarantella") non è altro che uno di quei momenti di irrefrenabile esplosione di energia corporea
che si libera col frenetico movimento ritmico del corpo in una simbolizzazione più o meno
evidente della carica sessuale repressa. Non è un caso che a eseguire la danza della tarantola
fossero delle donne, considerate isteriche e invasate; così come non è un caso che fossero donne
le sacerdotesse del dio Dioniso (Bacco per i latini). Il culto di Dioniso, divinità prettamente "terrestre"
legata al potere inebriante dell'alcol, costituiva
uno dei momenti importanti della vita collettiva delle popolazioni antiche di terra ellenica: è da
esso che nasce l'embrione del teatro greco; a Dioniso saranno dedicate tutte le rappresentazioni
teatrali, perché è lui il dio delle orge, delle feste e del teatro. Fu il filosofo tedesco Nietzsche a
cogliere pur con toni misticheggianti il valore fondamentale dell'aspetto dionisiaco delle attività
teatrali e religiose del popolo greco. Ne "La nascita della tragedia greca" scrive: Il fascino
dionisiaco non ripristina solamente i vincoli fra l'uomo e l'uomo: anche la natura, straniata o
ostica o soggiogata, celebra la festa di riconciliazione col suo figliol prodigo, l'uomo. (...) Ecco
che lo schiavo è libero, ecco che tutti infrangono le rigide nemiche barriere che il bisogno,
l'arbitrio o "la moda insolente" hanno piantato fra gli uomini. Ma fu una stessa tragedia greca a esprimere
in maniera illuminante il conflitto fra il libero rito
orgiastico, dionisiaco, e le imposizioni etiche del potere statale. Fu il tragediografo Euripide nella
sua più problematica opera, "Le Baccanti" (composta circa nel 407 a.C.), a parlarci della
repressione statale nei confronti di chi, come le baccanti, sfidava l'etica dominante in nome di
una religiosità meno trascendente intesa come mezzo e modo di rapportarsi alla natura. Dionisio
invita le donne alle danze e ai riti orgiastici, ma viene perseguitato e incatenato dal re Penteo
rappresentante del potere civile. Il conflitto, logicamente espresso in chiave mitologica, è il
conflitto fra due modi di concepire il rito religioso: da una parte la religiosità "amorale"
dell'immanenza dionisiaca come liberazione delle forze psicofisiche dell'essere umano in
continua tensione incontro-scontro con le forze feconde della natura; dall'altra parte una
religiosità soggiogata alle esigenze del potere, corredata di norme e regole a tutela dell'oligarchia
dominante. Ma ahimè! Già le baccanti salivano festose la sacra montagna, percuotendo il terreno
col magico tirso; già l'impulso vitale dell'orgia bacchica andava liberandosi..., che subito
scattavano le manette ai polsi di Dioniso. Dioniso sarebbe senz'altro il mio dio!, se non fosse che, noi anarchici,
le divinità le abbiamo
giustamente gettate nella pattumiera dei (non)valori inutili e dannosi. Ed è infatti liberando il
problema dalla sua peculiarità storica, sottraendolo al suo contesto religioso e mitologico, che noi
riusciamo a comprendere l'importanza è soprattutto l'attualità del conflitto in questione.
Dobbiamo obbligatoriamente ritornare a ciò cui si accennava in precedenza: il bisogno, oggi
soprattutto sociale, di esprimersi attraverso momenti collettivi e liberi; riscoprire continuamente
le proprie potenzialità comunicative. Ma oggi, col nostro nevrotico, iperproduttivo modo di vivere, nelle
nostre gabbie urbane, nei
nostri luoghi istituzionalmente deputati al divertimento, non ci divertiamo più; ci trasciniamo
annoiati. Quali spazi per Essere e per crescere in una società in cui i bambini guardano la
televisione invece di giocare? Quali spazi in una società in cui la teatralità è soggiogata alla
spettacolarità? Quali spazi in una società in cui la gente resta sempre di più in silenzio?
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