Rivista Anarchica Online
Il ritorno al privato
di Luciano Lanza
Da alcuni anni non era più di moda parlarne. Non occupava più le prime pagine dei giornali,
era
tornata nelle più dimesse pagine economiche. Dai tempi delle spericolate manovre di Eugenio
Cefis, il feudatario ribelle, la Montedison viveva rassegnata tra i suoi crescenti debiti. Oggi
grazie all'accorta regia dell'amministratore delegato della Mediobanca, Enrico Cuccia, il "colosso
dai piedi d'argilla" della chimica torna a far parlare di sé. I fatti sono noti: quattro grandi del
capitalismo privato - Agnelli, Pirelli, Bonomi e Orlando - acquistano dalla Montedison la
finanziaria Gemina (detenuta dalla Montedison per il 59,2%) e attraverso questa rilevano il
16,66% delle azioni Montedison in mano alla finanziaria pubblica Sogam e ad altri azionisti
pubblici. Successivamente i "quattro grandi" sempre tramite la Gemina sottoscriveranno
l'aumento di capitale della Montedison proposto dal suo consiglio di amministrazione l'11
maggio. La Montedison torna dunque nell'area privata. Avvenimento a dir poco clamoroso, perché
sembra invertita la tendenza di una sempre più massiccia statalizzazione dell'economia. La
filosofia dei "nuovi economisti" yankee ha forse influenzato anche la dirigenza politica italiana?
Rispondere affermativamente sarebbe, oltre che prematuro, inesatto. Prima di tutto perché un
singolo caso - pur delle dimensioni della Montedison - non modifica l'assetto generale della
struttura economica italiana, statalizzata nei gangli nevralgici. In secondo luogo perché la logica
dell'operazione non risiede in una svolta della politica economica italiana - dal pubblico al
privato - ma rivela le difficoltà congiunturali dell'espansionismo statale. Proprio in questa
seconda visione sta, a mio avviso, la spiegazione principale dell'operazione Montedison. Il settore pubblico
dell'economia continua ad accumulare deficit colossali, la sola Montedison
chiude il bilancio 1980 con una perdita di oltre 230 miliardi. I margini di manovra per una
politica monetaria sono quasi inesistenti se non verrà rallentato il tasso di inflazione. In una
situazione così precaria e che rischia di incrinare pesantemente le strutture economiche
pubbliche, non appare certo strano che lo stato si liberi di uno dei più grossi fardelli. Ma così
impostato il problema risponde solo parzialmente al quesito. Le difficoltà congiunturali giocano
sicuramente un ruolo rilevante, ma non credo che spieghino completamente il senso
dell'operazione. Bisogna anche chiedersi se il controllo completo della chimica - dopo
l'assorbimento nell'area pubblica della Liquichimica e della SIR - non avrebbe pregiudicato
quell'assetto definito di "economia mista". Già lo scorso anno rilevavo sul n° 3 della rivista
Volontà che: "Se la grande impresa privata scompare del tutto potrebbero prodursi ingovernabili
distorsioni nella struttura economica. Infatti tutta l'economia italiana si è basata per decenni
(praticamente dagli anni trenta) su un rapporto pubblico-privato molto più strutturale di quanto
possa sembrare a prima vista. Schematizzando si potrebbe affermare che l'economia mista
assegna all'impresa privata un ruolo dinamico e a quella pubblica un ruolo stabilizzante. A volte i
ruoli vengono invertiti (pensiamo alla creazione dell'ENI), ma comunque tutto si svolge
nell'ambito di un confronto-scontro che presuppone la complementarietà dell'una all'altra. Come
due amici che giocano a scacchi e che, pur essendo amici, in quel momento sono avversari. L'uno
necessita dell'altro per continuare la partita, se uno dei due abbandona la scacchiera come può
continuare lo scontro?". Ora nulla vieterebbe che questa complementarietà pubblico-privato si
possa giocare su settori contrapposti e non anche all'interno dello stesso settore, ma resta da
chiedersi se il settore chimico, già abbastanza disastrato, possa permettersi una gestione tutta
pubblica, restando quindi privo di un minimo di concorrenzialità. Non lo credo. Anche se il
piano di ristrutturazione della chimica fa subito pensare ad una spartizione monopolistica -
all'ENI i settori più vicini all'attività petrolifera, alla Montedison la chimica fine e secondaria -
rimane pur sempre l'impressione che la suddivisione dei ruoli venga vista come incentivo per
poter meglio resistere alla concorrenza interna. Tutta l'operazione di riprivatizzazione mi sembra comunque che
non possa prescindere da un
persistere dell'influenza pubblica. In effetti le decisioni a carattere generale restano in mano al
potere politico perché nonostante l'ingresso dei capitalisti privati, la sopravvivenza della
Montedison resta legata ai finanziamenti statali. Dunque il settore pubblico si libera solo
parzialmente di questa grossa palla al piede. Una palla al piede che rischiava di impedire
l'espansionismo statale in altri settori che premono per l'intervento della mano pubblica. In questo
modo lo stato può riequilibrare e migliorare la composizione della sua presenza nell'economia.
Se le ragioni dello stato sono sufficientemente intuibili, lo sono meno quelle dei privati. Perché
corrono questo grosso rischio? Se poi analizziamo il problema da un punto di vista "classico": il
movente del capitalista è il profitto, allora tutto diventa incomprensibile. Forse che Agnelli spera
di incassare utili dalla Montedison? Non facciamo troppo ingenuo l'Avvocato. La questione va
vista in un'altra dimensione, meno economica e più politica. In questi ultimi anni il grande
capitalismo privato si è troppo arroccato nelle sue fortezze. Di fronte all'espansionismo statale
non ha saputo opporre alcuna seria resistenza riducendosi a fare quello che il polo pubblico gli
permetteva di fare. Oltre alla crisi delle strutture economiche private, si va accentuando una crisi
dell'ideologia imprenditoriale. Una crisi che ormai non conosce soste. Ebbene il ritorno nella
Montedison viene forse visto come un tentativo di arrestare questa crisi che è anche psicologica.
Il gusto del rischio imprenditoriale, la scommessa rigalvanizzante per arrestare temporaneamente
il declino. Ipotesi azzardata? Forse, resta comunque il fatto che il capitalismo privato deve oggi
giocare qualche carta importante se vuole riproporsi come soggetto sociale in grado di
condizionare la politica italiana. Un'occasione dunque da non lasciar perdere, grazie anche alla
ventata restauratrice che ricerca nell'ideologia capitalistica i fondamenti per un suo rilancio. Il
declino (?) dello stato assistenziale apre nuove prospettive agli ideologi del capitalismo, oggi in
forte ripresa. Già alcuni di loro denunciano "le istituzioni della società attuale in nome delle
virtù
di un sistema che rimane ancora da inventare: il capitalismo". Solo follia rétro. In parte
sì, però
sappiamo che il percorso della storia non è mai lineare, ma tortuoso con possibili ripiegamenti.
Nel breve e medio periodo sono sempre possibili cambiamenti che sembrano contraddire le
tendenze di fondo. I "padroni privati" alla riscossa contro i "padroni pubblici"? Può darsi, anche se
è una riscossa il
cui esito mi riporta alla memoria la carica dei seicento orgogliosi dragoni a Balaclava.
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