Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 96
novembre 1981


Rivista Anarchica Online

Yugoslavia- I padroni dell'autogestione
intervista a Slobodan Drakulic

"Gli abiti nuovi del presidente Tito" è il titolo dell'ultimo numero (n. 6) della rivista trimestrale francese Autogestions, dedicato appunto alla Yugoslavia. Ne abbiamo tratto due articoli, che pubblichiamo nella traduzione del compagno Andrea Chersi. Il primo è un'intervista a Slobodan Drakulic, giovane professore di sociologia all'università di Zagabria, a proposito della rivista Argumenti. Drakulic è già noto ai nostri lettori, avendone noi pubblicato la relazione ("Burocrazia e autogestione", "A" 78) presentata alla Conferenza internazionale di studi sull'autogestione (Venezia, 28-30 settembre 1979), nonché l'articolo "Senzatito" ("A" 84) all'indomani della morte del presidente yugoslavo. Va sottolineato il fatto che, in seguito alla pubblicazione di quest'intervista su Autogestions, Drakulic ha avuto qualche fastidio dall'apparato repressivo "autogestionario". Autore del secondo articolo è il francese Albert Meister, docente di sociologia all'Ecole pratique des hautes études di Parigi, autore di numerosi saggi (l'ultimo, L'autogestion en uniforme, Ed. Privat, Parigi 1980, si occupa del Perù): sul n. 47 di "A" abbiamo pubblicato un suo saggio su "L'inflazione creatrice", tratto dalla prefazione del suo omonimo volume.

'Argumenti' vietati

Quali sono le disposizioni di legge riguardo ai periodici e come nasce una rivista?

Perché nasca una rivista, occorre un editore che può essere un'università, un'associazione professionale, ad esempio quella dei sociologi, oppure quella che viene definita una comunità socio-politica: una comune, la Lega Comunista, l'Alleanza socialista, ecc.. La decisione di tale organismo vien presa sulla base di un progetto del periodico, di un programma per i primi due o tre anni. Se accetta il progetto, è obbligata a finanziarlo almeno in parte ed è responsabile della pubblicazione in generale (si tratta quindi di un editore vero e proprio, non di uno "sponsor"). Una volta superato questo, l'editore deve costituire il consiglio di orientamento, composto da una ventina di persone "che contano" nel campo, in grado di sovraintendere a quel che si farà nella rivista. Questo consiglio affida poi un mandato a colui che diverrà redattore capo e che sceglierà la redazione; quest'ultima dovrà essere approvata dal consiglio di orientamento. Poi c'è la fase della richiesta di finanziamento rivolta alle comunità autogestionarie d'interesse (CAI) cui si comunica il contenuto previsto: per avere denaro da una CAI per la cultura, è necessario fare comparire tra gli argomenti che saranno trattati la sociologia della cultura o la culturologia.... Ciò può esser fatto ai due livelli insieme: la repubblica e la comune (dove esistono delle CAI). L'esperienza pratica insegna che si deve richiedere sempre il doppio di ciò di cui si ha bisogno per ottenere forse i due terzi della somma. Questo lo schema generale. Avuto il denaro, non resta che prendere accordi con una tipografia e cominciare.

Queste fasi preliminari hanno preso parecchio tempo per "Argumenti" o no?

"Argumenti" fu proposta due volte, la prima nel 1976 senza successo, perché senza appoggi; venne accettata come progetto ma non si andò oltre. Poi, un progetto molto simile venne presentato nel 1977, stavolta col sostegno di persone che avevano nella gerarchia politica una posizione più elevata del resto di noi e ottenne una risposta positiva da parte dell'organizzazione regionale della Lega Comunista (la L.C.I. ha dei livelli comunali e regionali). C'era un Centro di ricerche marxiste fondato e finanziato dalla Lega comunista ma indipendente, con tutti i diritti autogestionari. "Argumenti" divenne la rivista di tale istituto. Per tutti questi passi preliminari ci vollero sette o otto mesi perché si aggiunsero le pratiche legali: dichiarazione della nuova pubblicazione alla Corte, registrazione del titolo, fabbricazione dei timbri, tutte cose complicate non per ragioni politiche, ma a causa della lentezza propria della burocrazia, qui come altrove. Così, abbiamo cominciato davvero la raccolta degli articoli verso la fine del 1977. Il primo numero è comparso sei mesi dopo, con un tempo ragionevole quindi per una nuova rivista con una redazione che si conosceva solo in parte e tenuto conto delle discussioni seguitene.

C'era l'accordo di tutti sulla concezione dell'informazione che sarebbe prevalsa in questa rivista?

Sì e no. C'erano per utilizzare l'espressione di Kardelj, parecchi "gruppi d'interesse". Uno di questi era costituito dai professori di marxismo, di "socialismo nella teoria e nella pratica" (due materie che vengono definite "materie di Stato"). Essi avevano bisogno di un punto d'appoggio per pubblicare le loro opinioni, i loro testi, di una tribuna professionale. Quantitativamente, era il gruppo più importante: all'incirca 15 persone compresi degli insegnanti della nostra piccola università e alcuni della scuola secondaria. Un secondo gruppo, anch'esso di universitari o para-universitari, era composto da "comunisti iugoslavi di sinistra", cioè più favorevoli all'autogestione della maggioranza dei membri della Lega, più favorevoli pure a dei rapporti ugualitari, ad una democratizzazione. C'erano anche altri che consideravano qualificante far parte di una rivista, ma questi erano pochi. Il consenso generale, seppur presente, era fragile e superficiale. Tutti volevano una rivista progressista, intellettualmente e teoricamente indipendente, pressoché radicale ma, essendo ognuno su posizioni socio-politiche differenti, interpretava tale volontà secondo propri canoni e aveva la propria opinione sulla portata da dare a questa concezione. Quando abbiamo cominciato le pubblicazioni, abbiamo compreso quanto le idee condivise sulla libertà si traducessero in atteggiamenti divergenti e quanto fosse debole il consenso.

L'avete scoperto in parte durante la realizzazione del primo numero?

Sì. Chiamiamo "blocchi" i temi principali di un numero. Il nostro primo blocco doveva essere "anarchismo e terrorismo" perché pensavamo, come altri intellettuali, che fosse un argomento molto mistificato e falsificato nella stampa iugoslava. Nelle riviste scientifiche era ignorato (ad eccezione di "Pintanja", mensile di Zagabria che fece un altro magnifico dossier sul terrorismo alla fine del 1977). Quanto ai giornali e agli altri mass-media, i loro giornalisti definivano il terrorismo come un fenomeno a priori anarchico, il che è particolarmente buffo se si parla della Baader-Meinhof e delle Brigate Rosse. Volevamo quindi chiarire il problema coi mezzi di cui dispone una rivista (maggiore spazio che in un quotidiano per permettere una trattazione pluralistica). Era stata, all'inizio, l'idea di un professore di marxismo, ma tutti l'avevano appoggiata. Uno dei contributi principali fu quello di W. Dedijer: secondo lui, il terrorismo non è che una risposta individuale o collettiva al terrore dello Stato. Rovesciava pertanto la prospettiva. Nel suo caso, è tanto più significativo che fosse rispettato come storico (partigiano amico intimo e biografo di Tito - n.d.r.) e che la sua opinione fosse sostenuta da una conoscenza del problema; infatti ha dedicato un libro molto documentato a Gavrilo Princip, che uccise l'arciduca Ferdinando e al suo movimento "giovane Bosnia". Si trattava quindi di una opinione autorevole. Per far conoscere l'anarchismo, ignorato o deformato nei paesi in cui il partito comunista ha il potere, un giovane professore sloveno, Rudi Riznan, scrittore e membro del Tribunale Russell, ha descritto l'evoluzione dei rapporti tra anarchismo e marxismo. Citiamo ancora, tra l'altro, delle traduzioni di scritti di Emma Goldman e Alexander Berkman (che venne egli stesso tacciato di terrorista) e il mio articolo sulla nuova sinistra che ricordava l'analisi marxista-leninista rivendicata da numerosi gruppi armati e che difendono il punto di vista di Dedijer mostrando che, negli anni '70, lo scoppio della violenza, che non abbiamo mai ammesso di approvare, fu il frutto della politica delle classi dominanti.
Tutto ciò fu bene accolto dalla comunità intellettuale e dal pubblico in generale. Il numero andò esaurito in breve tempo ma la reazione dei responsabili politici non fu dello stesso avviso. Alcuni ritenevano, credo, che noi compromettevamo le loro posizioni diplomatiche nei riguardi dell'Italia con cui le relazioni sono tanto amichevoli quanto delicate, tenuti presenti tutti i problemi di confine, e nei riguardi della Germania in cui abbiamo tanti nostri lavoratori. Inoltre, il dogmatismo emerse sotto differenti forme, quali: "Perché scrivono sugli anarchici che sono dei traditori della rivoluzione?" oppure: "i terroristi sono cattivi (il che è sicuramente vero per ogni potere) e se sono cattivi, perché non lo dicono?" ecc.. Così, abbiamo avuto un grande successo sociale ma delle reticenze politiche ed è così che i disaccordi cominciarono a sorgere nella redazione. Una parte era soddisfatta di aver avuto una tale accoglienza popolare mentre l'altra parte era preoccupata per l'atteggiamento freddo e critico delle autorità. La situazione cominciò a degradarsi e i contrasti divennero sempre più aperti.

Avevate preparato il secondo numero tenendo presenti questi problemi?

Per il secondo numero, l'opinione della maggioranza era di essere più prudenti per evitare reazioni negative nella sfera politica. Si doveva essere più "calmi" per placare le tensioni. Ci fu però un'eccezione: un testo contrario alla riforma della scuola in Iugoslavia, di cui io ero l'autore. Alcune personalità nel mondo dell'educazione e della cultura se la presero. Il peggio era che il redattore capo aveva cambiato lavoro ed era diventato vice-presidente incaricato della cultura e dell'educazione in Croazia. Quell'articolo criticava ciò che egli avrebbe dovuto mettere in pratica e il ministro riteneva "Argumenti" vicino a lui e progressista e pensava anche che quella rivista avrebbe dovuto sostenerlo. Fui biasimato per aver scritto quel testo, ancor più perché, come in moltissime riviste, i compiti reali vengono effettuati da tre o quattro persone e, pertanto, la maggioranza non aveva letto il mio testo prima della pubblicazione ed era considerato manipolato. Si decise di modificare lo stile di lavoro e aumentò lo scarto tra i diversi gruppi. Così preparammo il terzo numero che doveva di nuovo attirare l'interesse. Il secondo numero avrebbe dovuto essere tranquillo e non lo fu. Il terzo non doveva essere tranquillo e non lo fu. Ancora una volta, i politici si mostrarono insoddisfatti.

Andò anch'esso esaurito?

Sì, andò meglio del secondo: all'incirca come il primo. Era dedicato ai problemi delle donne, giacché la maggior parte degli articoli provenivano dalla Conferenza Internazionale di Belgrado (1977). Il secondo blocco trattava dell'educazione. Il testo che avevo preparato venne respinto perché menzionavo il Ministro, e il redattore capo non voleva pubblicare più nulla contro il suo padrone! Venne accolto molto bene dal pubblico ma, nel Partito, dei personaggi politici importanti cambiarono e, nella comune, arrivarono due capi niente affatto favorevoli a una rivista radicale che, formalmente, era della Lega dei comunisti. La concepivano in modo ben diverso! Venimmo a sapere della loro intenzione di sciogliere il centro marxista e la redazione perché eravamo andati troppo oltre. Il fatto era che quella prospettiva di scioglimento del centro trovò un'eco favorevole, persino tra i membri della redazione e le opposizioni divennero davvero molto rigide, rendendo impossibile il lavoro. Non eravamo più d'accordo che su un punto: avevamo bisogno di denaro per continuare la pubblicazione. Per il resto, su chi, che cosa, quando, perché pubblicare, era impossibile mettersi d'accordo. Mira Oklobdzija fu la prima ad andarsene l'anno scorso in febbraio. Io me ne sono andato in giugno. Prima, siamo stati controllati due o tre volte, per quel che portavamo. Le cose finirono come si poteva temere: il centro e la redazione vennero sciolti e il consiglio di orientamento in pratica non esistette più. Nessuno ne parlò. Il nuovo centro non fu più, come il precedente, una emanazione della Lega comunista regionale, ma collegata al comitato locale. Questo comitato nominò un nuovo redattore capo ed anche una diversa redazione che venne approvata dall'editore. Secondo alcuni, tutto ciò non fu del tutto legale in quanto alcune fasi, formali ma pur sempre necessarie, vennero saltate. Pare che i detentori del potere non rispettino neppure le loro stesse leggi. Lo fanno per gli altri, non per loro.
Abbiamo fatto il quarto numero perché l'avevamo promesso. Il quinto invece uscì più ridotto e molto diverso con un testo sulla riforma della scuola, stavolta favorevole. Certi problemi trattati nei primi due anni, vennero affrontati di nuovo. Furono ritirati fuori dei problemi locali. In effetti, siamo stati criticati per aver scritto su argomenti generali o di altre società e non abbastanza sulla Iugoslavia, il che, naturalmente, era un pretesto per attaccare un'analisi politica non troppo conformista. Adesso "Argumenti" è un periodico della Lega comunista in senso stretto e, da quanto vedo nelle librerie, non si vende. È normale: perché mai leggere quel che sentite già alla televisione, alla radio, ripreso in maniera "scientifica"?

Puoi inquadrare un po' il numero di persone toccate da questa esperienza, in modo da evidenziare le dimensioni e i limiti della diffusione della rivista?

Non è una cosa importante. Soltanto tre o quattro numeri di quella che, penso, era una bella rivista. Non è trascurabile perché non abbiamo molte buone riviste di scienze sociali, ma questa non ha evidentemente una grande portata storica come "Praxis". Ciò dimostra proprio che forme di autogestione sono possibili se la gente lotta per ottenerle. A questo riguardo è significativo che anche tentativi fatti su piccola scala provocano una reazione ostile del potere. Dimostra anche la posizione del gruppo dirigente nei riguardi della libertà intellettuale. Noi volevamo dare accesso a dei documenti su temi un po' tabù e, proprio per questo, abbiamo avuto una funzione nella società. Abbiamo avuto prove dell'interesse suscitato, persino in luoghi lontanissimi: da Belgrado, da Lubiana dove la lingua è pure differente, abbiamo ricevuto moltissime lettere dopo il dissolvimento del gruppo da gente che voleva acquistare delle copie, ma queste erano bloccate al centro marxista e non sono state messe in commercio che dopo un anno. È quindi possibile lottare e fare passare un'informazione conforme a ciò che pensiamo, spiegando certi fenomeni sociali e politici, ma soltanto per un breve periodo.

Ci sono stati problemi materiali, nella distribuzione dei ruoli e degli incarichi, all'interno di quella che voleva essere una rivista autogestita?

Abbiamo avuto moltissimi problemi. Quelli che ci lavoravano erano brillanti e intelligenti, ma non del tutto esperti organizzatori e abbiamo agito in modo estremamente caotico, con numerose difficoltà pratiche. A volte, si telefonava alla tipografia per dire: "fermate tutto! aspettate quindici giorni". Poteva essere uno della rivista che preferiva attendere che i nostri disaccordi interni si appianassero, oppure qualcuno che non doveva essere sicuro di volere che la rivista uscisse. Ci son stati problemi finanziari. Ogni numero significava all'incirca 450 pagine dattiloscritte, quindi moltissimo materiale da raccogliere. Così, quando non han più saputo di che cosa accusarci, han detto che gettavamo via i soldi che ci avevano affidato, senza vedere le spese che comporta la confezione di una rivista ponderosa, facendo appello ad autori di differenti paesi. Hanno persino avanzato l'accusa che privatizzavamo la rivista, servendocene per esprimere le nostre opinioni personali e trascurando le cosidette "opinioni sociali", come se fossimo in una società senza classi: una posizione, una classe, un partito, un popolo; e ciò che è diverso, non è sociale, è privato. Ma tutto questo si sarebbe evitato se ci fosse stata unità in seno alla redazione. Ma questa unità è difficile da mantenere quando ci sono pressioni politiche. Quando si ha famiglia, non è agevole mettere in pericolo la propria posizione per qualche pagina stampata! La divisione è stata anche generazionale: i giovani erano, nell'insieme, più radicali.

Che ne pensi dell'opinione secondo cui, dopo la morte di Tito, esistono tutte le condizioni per un aumento della libertà? Credi che sia solo un augurio o una possibilità riguardo al campo dell'informazione?

Non so se sia un augurio oppure no, perché sarebbe come esprimere un'opinione personale.... Ma se automaticamente noi aspettiamo una liberalizzazione, ciò significa che Tito era un ostacolo a ciò. È il culto della personalità al contrario: è una tesi e elitaria che esagera il ruolo di una persona nella storia. Tito è stato un catalizzatore per l'affermazione ed il mantenimento dell'identità iugoslava (in condizioni differenti, è paragonabile ad Ataturk) ed ha avuto un ruolo ambivalente, per non citare che due esempi: contemporaneamente pilastro dell'introduzione della autogestione e sostegno per i gruppi sociali dominanti. La sua morte non ha modificato gli interessi dei gruppi sociali privilegiati ma soltanto i rapporti di potere. La elite dirigente probabilmente tenterà di coagulare di nuovo un consenso, di definire la situazione come se egli ci fosse ancora con una sua presenza in modo simbolico, quasi mistico o religioso: mostrando alla televisione delle sequenze sulla sua vita, stampando libri, ecc.. Sono dei politicanti che son sempre stati subordinati e che, all'improvviso, si trovano lasciati a se stessi. Hanno bisogno di un periodo di adattamento. Non scorgo motivi per aspettarmi da parte loro un'evoluzione immediata verso una maggiore democrazia. Questa non può arrivare a meno che la pesantissima crisi economica che stiamo vivendo ora mantenga ed aumenti l'insoddisfazione della classe operaia. Parlo qui della vera classe operaia costituita da quelli che non hanno terre, altre risorse che non siano la loro forza-lavoro e le cui condizioni di vita si degradano. Allora, i detentori del potere, per evitare fatti come quelli di Polonia, potrebbero consentire una liberalizzazione, ma è difficile fissare delle scadenze nel tempo.

Nel caso che le condizioni dei lavoratori continuino a deteriorarsi, non si porrebbe forse con maggiore forza il problema del tipo di legame esistente tra intellettuali ed operai?

Abbiamo gli occhi fissi su ciò che accade in Polonia, ma dobbiamo anche essere coscienti delle differenze tra le due società. Innanzitutto, la Iugoslavia è un paese indipendente, per quanto lo possa essere un piccolo paese. Inoltre, è composta da molte nazionalità. Due punti che non si ritrovano in Polonia. Le coscienze politiche sono dunque molto diverse: in Polonia, un'insoddisfazione sociale si accompagna ad un'insoddisfazione politica, nazionale, da parte di un popolo che è stato attaccato dai tedeschi e dai russi per secoli. È l'unico paese che storicamente si è esteso dal Mar Nero a quello che era il centro della Germania. Hanno quindi parecchie ragioni per lottare contro l'URSS. Allo stesso tempo, questa opposizione obbligata definisce a priori la loro azione. Qui, la maggioranza della gente non si rappresenta la Iugoslavia come membro di un blocco, quindi la lotta contro l'Unione Sovietica o gli Stati Uniti è pressoché ridicola, sul piano politico naturalmente, giacché la dipendenza economiche esiste, eccome. Il popolo iugoslavo è molto attento a non far nulla per compromettere questa posizione non allineata; le culture sono considerate importanti: siamo l'unico paese chiamato socialista con una libertà elementare. Abbiamo una società dei consumi, il che è molto apprezzato (sopratutto da quelli che hanno denaro!) e inoltre ci sono sei repubbliche e due province che, salvo la polizia e l'esercito, hanno tutte le caratteristiche di stati. Quindi, ogni movimento sociale che voglia essere iugoslavo, deve agire a livello internazionale. Dubito che, anche coi problemi economici attuali, potranno avvenire reazioni simili a quelle polacche, principalmente perché i dirigenti saranno più sensibili a quanto i lavoratori hanno da dire. Non vogliono rischiare di perdere l'indipendenza di cui gode il paese, il che significherebbe anche la perdita del loro stesso posto. Tutti i gruppi sociali sono ben coscienti della precarietà della posizione iugoslava. Un aumento degli scioperi appare più verosimile che uno scontro così frontale come in Polonia; in effetti, qui l'elite dirigente dovrà rispondere più presto alle rivendicazioni, sentendosi essa stessa altrettanto indipendente quanto vulnerabile.