Rivista Anarchica Online
La trappola del linguaggio
di Gianfranco Bertoli
La lettera di una compagna di Torino ("A" 94 pag. 41) solleva con intenti "critico-propositivi" la
questione del linguaggio di "A" nel quadro del più ampio problema della necessità di
sviluppare
forme di comunicazione e di diffusione del pensiero libertario capaci di incidere sulla mentalità
contemporanea. Il problema prospettato da questa compagna è senz'altro un problema reale,
viene esposto con notevole chiarezza e convinzione, così come lineari e logicamente conseguenti
con l'analisi esposta sono le conclusioni, sotto forma di proposte di soluzioni, cui giunge questa
nostra compagna. Con tutto ciò, non posso dirmi completamente d'accordo con la lettera in
questione nell'addebitare ad "A" - Rivista Anarchica il ricorso eccessivo ad una fraseologia e ad
un linguaggio volutamente difficili. Personalmente (e non sono certo un intellettuale) ho trovato
sempre, o quasi, il linguaggio di "A" sufficientemente piano e facilmente comprensibile (anche
se, ma ciò è inevitabile, in maniera maggiore o minore in relazione alle difficoltà dei
differenti
argomenti e delle diversità di stile dei singoli autori di specifici articoli), in ogni caso gli scritti
che appaiono su "A" mi paiono essere, generalmente, assai meno infarciti di astruserie e
fumosità
intellettualistiche della media delle pubblicazioni di "sinistra". La "soluzione" che propone la compagna Claudia
e che consiste in una maggiore semplificazione
del linguaggio degli articoli e nel ricorso a dosi massive di note esplicative con le quali "spiegare
ogni riferimento" mi pare di difficile attuazione per diversi motivi. Per il linguaggio perché credo
che, nella misura del possibile si sia sempre fatto e si faccia di tutto perché sia sufficientemente
semplice e di facile comprensione, per gli "asterischi" e le "postille" perché se è vero che possono
venire utili a chiarire singoli punti essi vanno usati con una certa moderazione perché si rischia
altrimenti di appesantire e rendere frammentaria la lettura del testo, finendo paradossalmente col
renderne più faticosa (e quindi più "difficile") la comprensione. A proposito delle
difficoltà di uno scritto, va poi detto che se vi sono, o possono darsi, dei casi in
cui la difficoltà stessa dipende dallo "stile" di chi l'ha fatto, molte volte è l'argomento in sé
che
può presentare aspetti complessi e su cui è necessario ragionarci sopra per recepirlo
adeguatamente. C'è da tenere presente quelle che sono le caratteristiche di una rivista come "A"
così come è stata ideata e voluta fin dall'inizio. Questa pubblicazione doveva collocarsi, nelle
intenzioni dichiarate sin dall'inizio dai suoi realizzatori, a mezza strada tra la rivista "teorica" e il
foglio di "informazione", "lotta" e "agitazione". Intorno a questa scelta iniziale si può concordare
o dissentire, ma questo voleva essere "A" e questo ha cercato di essere e di restare, riuscendoci, a
mio avviso, abbastanza bene. Ora, se una pubblicazione si propone di contribuire a portare avanti
un certo tipo di progetto culturale che comprende il tentativo di nuove analisi ed elaborazioni di
genere teorico, è abbastanza naturale e inevitabile che vi vengano affrontate anche delle
tematiche non facili per sviluppare le quali il discorso deve farsi complesso e in un certo grado
"difficile". Ciò spiega anche come possa talvolta rendersi necessario il ricorso a "parole difficili
che non si usano quasi mai parlando normalmente".
Ogni argomento particolare esige talvolta l'uso di parole particolari caratteristiche della materia
di cui si parla. Nel caso specifico la trattazione di un argomento in un'ottica libertaria può
richiedere l'uso di una terminologia diversa da quella adottata da chi affronta quello stesso
argomento da una prospettiva che è quella del "potere". Chi è quindi abituato ad altre letture si
troverà talvolta di fronte a parole che possono apparirgli "difficili" solo perché non è
abituato ad
imbattervisi. Ognuno di noi possiede un suo personale patrimonio di vocaboli memorizzati che
vengono "incasellati" con un codice ed un ordine particolare di "associazioni" e di riferimenti
mnemonici. Questo nostro vocabolario individuale è destinato ad accrescersi lungo tutto il corso
della vita ed in diretta proporzione con le nostre esperienze ed i nostri interessi culturali. Il suo
destino ed il suo funzionamento non sono, in fondo, molto dissimili da quelli di un dizionario
stampato, in una qualsiasi lingua. Se consultiamo due differenti edizioni, distanziate tra loro anche solo di una
decina di anni,
constateremo che vi sono delle differenze dovute all'introduzione di nuovi vocaboli (neologismi
o espressioni di origine scientifica entrate nel linguaggio corrente), a nuovi significati che un
termine è venuto ad assumere, nonché a parole che sono state tolte perché divenute desuete
e
ritenute inutili. Così avviene col nostro vocabolario mentale e mano a mano che ci imbattiamo in
nuove parole e impariamo il loro significato ce ne appropriamo registrandole nella memoria. Una
volta avvenuto questo le stesse parole non ci appaiono più "difficili" perché ormai ci
appartengono e possiamo usarle a nostro piacimento. Ogni vocabolo non è che un simbolo significante
convenzionale di cui ci si serve per esprimerci
e comunicare agli altri i nostri pensieri e le nostre opinioni, per trasmettere, insomma un
messaggio. Per poter "semplificare" il linguaggio attraverso la eliminazione di determinati
termini (poco usuali e quindi apparentemente "difficili") si deve far ricorso alla adozione
sostitutiva di un "sinonimo" o ad una circonlocuzione, ma non è detto che la nuova formulazione
data ad una frase sia sempre idonea a renderne realmente più facile la comprensione. Se un
nuovo vocabolo, sia esso un "neologismo" un termine mutuato da un linguaggio specialistico o
da una lingua straniera, viene ad integrarsi nel linguaggio comune, ciò vuol dire che quella parola
è maggiormente adatta di tutte quelle che già si possedevano ad esprimere un preciso concetto.
Impadronirsi di quel vocabolo vuol dire quindi appropriarsi di nuovi concetti e significati. L'uso
poi di un particolare linguaggio ove sono presenti determinati termini caratterizza un certo
specifico tipo di "cultura" (in senso lato) ed una mentalità. Ora il progetto rivoluzionario anarchico
presuppone anche l'adozione e la diffusione di un nuovo
modo di pensare, di una nuova "mentalità". La realizzazione, cioè, di una vera e propria
"mutazione culturale" degli individui. Tutto questo rende necessario nella comunicazione l'uso di
vocaboli che spesso non sono e non possono essere quelli del linguaggio usuale, quello, cioè,
maggiormente diffuso che è, in un tipo di società come la nostra, sempre quello che il potere usa
e fa usare perché rispondente ai suoi interessi, alla sua logica e al suo "metro di valori". Cercherò
di spiegarmi con un esempio: se mi capita di imbattermi nell'espressione "nuovi
padroni" queste parole tendo, quasi automaticamente, ad associarle all'idea di "tecnoburocrazia".
Per me, dunque, e per molti altri, si tratta in pratica di due sinonimi che dicono la stessa cosa,
hanno lo stesso significato. Ma non per tutti è così perché per chi non abbia accettato (o
almeno
conosca) un preciso tipo di analisi che è stato portato avanti da una determinata componente del
movimento anarchico, dire "nuovi padroni" può soltanto indicare quelle persone che hanno
acquistato qualcosa che apparteneva ad altri. Tornando a quelle che sono le caratteristiche di una pubblicazione
come "A" e che sono quelle,
come dicevo più sopra, di un giornale che vuole essere in parte una rivista teorica e in parte uno
strumento di agitazione e di lotta è evidente che il linguaggio degli articoli contenuti sia
diversamente graduato a seconda delle esigenze di un preciso argomento, che sono diverse a
seconda di quale delle due dimensioni e dei due piani in cui la rivista si colloca, sia la più
congeniale al tema trattato. Una rubrica come "cronache sovversive" potrà benissimo venire
redatta con un linguaggio più semplice (e magari più emotivo) di quello cui si deve ricorrere per
un articolo che tratti di questioni di economia, di sociologia o di filosofia. La massima semplicità
di linguaggio può e deve venire adottata in un volantino o in un giornale che ha per scopo la
diffusione di notizie. Una pubblicazione invece che si proponga di portare avanti un discorso
teorico e in ogni caso, anche nel caso di avvenimenti riferiti, di proporne una analisi meditata
(tanto più che "A" è legata ad una periodicità mensile e non è quindi
un "quotidiano" o un
"settimanale" che può far leva sulla tempestività delle notizie che riporta) non può tenersi
sempre
ad un linguaggio da cui siano sistematicamente banditi tutti i termini che possono apparire
"difficili" o "specialistici". Per chi si interessa alle questioni ed agli argomenti cui la rivista "A"
dedica la propria attenzione tutte quelle parole che possono apparire "difficili" a chi si accinga a
leggerla per la prima volta, finiranno per diventare usuali, comuni, cariche di un loro preciso
significato e quindi "Facili". Quella che può sembrare la scelta voluta di un termine ricercato e difficile
è spesso solo la
necessità di chiamare le cose col loro nome, con una parola cioè, che renda con la migliore
aderenza possibile il senso dei concetti che si vogliono esporre. Ciò si verifica sempre e
qualunque sia l'argomento quando lo si vuole trattare in maniera approfondita. In questi giorni,
per esempio, tutti i giornali hanno parlato della competizione scacchistica tra il russo Karpov e
l'altro russo Korchnoj e riportato la descrizione di fasi di loro partite. Milioni di persone non ci
avranno capito niente per la semplice ragione che non conoscono quel gioco e la terminologia ad
esso connessa è del tutto incomprensibile per loro, ma se una persona decide di interessarvicisi,
impara quel gioco e segue le riviste specializzate potrà seguire la descrizione scritta dello
svolgimento di quel tipo di competizione ricavandone anche degli insegnamenti. In ultima
analisi, le parole che ci appaiono "difficili" sono tali perché ci sono "nuove" ed il nostro
personale vocabolario ancora non le ha incorporate. Questo nostro vocabolario, però, deve, se
non vuole rassegnarsi a diventare obsoleto, arricchirsi continuamente. Proviamo per un momento
ad immaginarci una persona che si sia imparata a memoria l'intero "dizionario degli accademici
della Crusca" e rifiutandosi di far uso di altri vocaboli, solo a quelli in esso contenuti voglia
attenersi nella vita di tutti i giorni, penso sia evidente che si renderebbe ridicolo e finirebbe
spesso col non riuscire a farsi capire.
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