Rivista Anarchica Online
Lavorare stanca
di Maria Teresa Romiti
Non si può parlare di lavoro senza affrontare anche l'assenteismo, che sembra essere diventato
uno dei problemi più importanti oggi: gli industriali e i dirigenti se ne lamentano continuamente,
i sindacati ne stanno facendo una delle loro battaglie; tutti sembrano considerarlo il Male, il
demonio, abbattuto il quale, si avrà una produzione efficiente e continua. Il problema ha
acquistato un peso maggiore di quello reale, in effetti considerarlo anomalo e addossargli tutte le
colpe delle difficoltà economiche delle aziende è perlomeno azzardato. D'altra parte non è
tanto
interessante vedere fino a che punto l'assenteismo influisce sull'economia dell'azienda, ma,
almeno dal nostro punto di vista, come mai il fenomeno si è generalizzato e quali sono i motivi
che spingono i lavoratori ad assentarsi. Una delle ragioni principali dell'aumento dell'assenteismo, o meglio della
sua estensione è dovuta
alla organizzazione stessa del lavoro; con l'aumento dell'automazione il lavoro nelle fabbriche
come negli uffici è diventato sempre più parcellizzato, meccanico, ripetitivo; non c'è un
minimo
di creatività né la possibilità di gestire autonomamente anche solo una piccola parte del
proprio
lavoro. Inoltre lo sviluppo delle città e la congestione del traffico ha aumentato a dismisura il
tempo e la difficoltà del trasporto. L'unica motivazione al lavoro in queste condizioni rimane il
puro dato economico, che però non basta a far sopportare la routine quotidiana troppo a lungo.
Impiegati e operai sono accomunati dalla nausea, stanchezza, noia verso un lavoro che non dà più
soddisfazioni. Nascono così malattie psicosomatiche, reazioni diverse a situazioni di sofferenza,
fenomeno antico che però va via via estendendosi a macchia d'olio inglobando settori sempre più
ampi. Un altro motivo di assenteismo è il doppio lavoro. Nell'area industriale settentrionale spesso, al
lavoro in fabbrica e in ufficio, si somma sia per ragioni economiche che psicologiche un secondo
lavoro, in parte saltuario, spesso più gratificante. Gli operai alla grande fabbrica, che procura loro
la sicurezza del salario e della pensione, affiancano lavoro in officine medie e piccole, gli
impiegati al lavoro sicuro sommano attività come ragionieri e contabili o anche lavoretti saltuari
di trasporti o archivio. Più che a pure ragioni economiche il fenomeno è dovuto a motivazioni
diverse: il secondo lavoro in ditte e officine piccole e quindi poco automatizzate permette di
svolgere quelle mansioni che nella grande fabbrica o nell'ufficio, regno del computer, non si
possono più fare, un ritorno alla soddisfazione della manualità o della gestione del proprio
lavoro. D'altra parte c'è anche una motivazione di fondo più importante: il secondo lavoro è
anche accettazione acritica dell'ideologia dominante, di quell'etica del lavoro che è nata con il
capitalismo e permea ormai tutta la nostra società. Queste non sono le uniche cause del doppio
lavoro, ve ne sono altre che, anche se meno sviluppate, sono molto interessanti. Nelle zone rurali
o poco industrializzate l'operaio e l'impiegato sono ancora legati alla terra, quasi sempre
possiedono un piccolo appezzamento di terreno che coltivano con la famiglia, a cui dedicano
tutto il tempo libero. L'agricoltura, non competitiva economicamente, è quasi esclusivamente
produzione per l'uso, ma anche notevole risparmio, così tutte le volte che la famiglia ha bisogno
(aratura o vendemmia, fienagione o raccolta dei funghi), gli impiegati, gli operai ritornano
contadini per le settimane necessarie: il mondo agricolo si prende una rivincita su quello
industriale. Un fenomeno simile si ritrova anche nelle città, anche se non così ampio; in questo
caso l'uomo si assenta per svolgere tutti quei lavori di riparazione casalinga o piccolo artigianato
che consentono un risparmio economico a tutta la famiglia, mentre alla donna vengono
demandate le assenze in relazione ai figli. Alle motivazioni precedenti che, sia in sviluppo o in regresso, non
sono in ogni caso nuove, se ne
è aggiunta un'altra, ideologica, che riguarda soprattutto i giovani, la generazione del sessantotto:
il rifiuto ideologico del lavoro. Il rifiuto del lavoro alienato è diventato per alcuni il rifiuto del
lavoro tout-court, non solo ma si è sviluppata tutta un'ideologia sulla necessità politica e sociale
del rifiuto, un punto fermo che non si può discutere. E poco importa che questo rifiuto, gestito in
modo del tutto personale, si risolva poi solo in un maggior carico di sfruttamento dei colleghi. La
nuova ideologia sembra essere diventata un dovere: il dovere del non-lavoro. Niente poi di così
nuovo e rivoluzionario a guardare bene; infatti, se l'etica del lavoro nasce con il capitalismo, le
classi dominanti delle società arcaiche e medioevali conoscevano bene il disprezzo del lavoro,
non degno del cittadino o del nobile, lasciato allo schiavo o al servo. Se quindi si può capire la nausea
per un lavoro parcellizzato, totalmente estraneo, se alcune
forme di assenteismo rientrano nel gioco economico, la risposta nuova, ideologica sembra
veramente poco. Il rifiuto del lavoro è puro rovesciamento dell'etica del lavoro capitalista, rimane
quindi inscritto nell'ideologia del dominio, il modello non viene cambiato, ma solo ribaltato,
senza rendersi conto che un tale atteggiamento rimane all'interno dello schema del potere,
dimostrazione ovvia se si considera che il rifiuto del lavoro è stato ideologia di alcune classi
dominanti del passato. Ciò non vuol dire che dobbiamo accettare il lavoro come ci viene
imposto; tutt'altro, lo sforzo che dobbiamo fare è maggiore, dobbiamo uscire dal cerchio magico
dello schema stato, ritrovare contenuti nuovi per il lavoro, uno spazio sociale in cui inscriverlo, a
meno che qualcuno pensi veramente che una nuova società possa fare a meno del lavoro. Lo
sforzo non è da poco, è molto più semplice ribaltare piuttosto che cambiare modello, forse
potrebbero esserci d'aiuto alcune riflessioni sui popoli "primitivi", in cui le attività di produzione
sono molteplici, creative, legate ai rapporti sociali, talmente soddisfacenti che nei loro linguaggi
la categoria lavoro non esiste è assimilata la categoria "gioco".
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