Rivista Anarchica Online
A Livorno contro tutti gli eserciti
di Camillo Levi
L'ultima grossa manifestazione anarchica a carattere nazionale si tenne a Pisa, il 7 maggio di 5
anni fa, nel quinto anniversario dell'assassinio di Franco Serantini: almeno 10.000 persone (oltre
la metà delle quali dietro le bandiere e gli striscioni anarchici) formarono un lungo serpente che,
snodandosi nelle stradine e poi sui lungarni della cittadina toscana, rappresentò un momento
significativo della storia anarchica recente. Non è solo per questo, comunque, che la decisione presa nel
corso del convegno antimilitarista
anarchico di Firenze (10 gennaio) di convocare a Livorno, sabato 13 marzo, una manifestazione
nazionale antimilitarista anarchica, assume a nostro avviso un significato che sarebbe errato
sottovalutare. Negli ultimi mesi, infatti, si è parlato molto di pace, disarmo, pericoli di guerra,
antimilitarismo; ci sono stati cortei oceanici e soprattutto ci sono state centinaia di manifestazioni
un po' dovunque; e ovunque ci è stato possibile, nei limiti delle nostre forze, noi anarchici
abbiamo criticamente preso parte a queste iniziative di dibattito, di mobilitazione e di lotta. La
tematica antimilitarista, infatti, è "nostra" come poche altre. Vi è tutto un filone ininterrotto di
impegno anarchico contro il militarismo e la guerra, che si è espresso in mille modi ma sempre
con una coerenza teorica e metodologica che a tanti "antimilitaristi" dell'ultima ora manca del
tutto: dalla lotta aperta contro le truppe, quando queste sono state utilizzate in funzione anti-popolare, alla
propaganda disfattista durante la prima guerra mondiale, dal gesto di un Masetti
che sparò all'ufficiale che incitava i "suoi" soldati a partire per la Libia ai casi anche recenti di
obiezione totale, con conseguente rifiuto, oltre che del servizio militare, anche di quello "civile",
dalla Settimana Rossa del '14 alla rivolta di Ancona del '19.... Dietro questa tradizione storica c'è
l'indissolubile legame tra il nostro essere anarchici e il nostro
antimilitarismo, che nascono dal medesimo rifiuto del principio di autorità, di violenza e di
morte. Ma vi sono anche motivi di drammatica attualità, che esulano dal nostro patrimonio
specifico teorico e storico per investire l'intera umanità, il suo presente ed il suo futuro. C'è una
situazione internazionale sempre precaria, caratterizzata da guerre tra stati, massacri, occupazioni
militari. C'è la continua corsa agli armamenti, e a quelli nucleari in particolare, che pende come
una spada di Damocle sulle possibilità stesse di sopravvivenza del genere umano. C'è la presenza
sempre più invadente e condizionante del complesso militare-industriale, all'Ovest come all'Est
(si legga, per quanto riguarda l'URSS, il saggio di Castoriadis sul n.1/1982 di Volontà). Ci sono
la Polonia e la Turchia, con i loro recenti golpe militari "interni" (protetti rispettivamente dal
Patto di Varsavia e dalla Nato), c'è l'occupazione russa dell'Afghanistan, c'è il crescente impegno
degli USA in appoggio alla giunta salvadoregna. C'è, in definitiva, la continua conferma del
ruolo istituzionale degli eserciti: dalla parte del potere, dell'oppressione, dello sfruttamento. L'Italia non fa
eccezione. Anche da noi qualsiasi lotta veramente incisiva contro lo stato di cose
presenti non può che trovare l'istituzione militare schierata dall'altra parte. Non saranno certo un
Pertini, capo costituzionale delle forze armate, né un Lagorio, primo socialista al ministero della
cosiddetta difesa, a trarci in inganno. Così come non ci potevano condizionare le martellanti
campagne (l'ultima, all'epoca del terremoto in Irpinia) tendenti a dimostrare l'utilità sociale
dell'esercito. Oltre all'esercito italiano, poi, il nostro paese "ospita" una rete di basi Nato, da quella per i
sommergibili nucleari alla Maddalena alla costruenda base missilistica di Comiso. Per la sua
posizione geografica, infatti, l'Italia è considerata da tutto lo scacchiere occidentale un decisivo
avamposto verso l'Est, il Medio Oriente e l'Africa Settentrionale: è bastato un piccolo incidente
di frontiera aerea, come quello occorso mesi fa tra aerei libici ed americani, per far sentire a tutti
noi quanto prossimi siano i pericoli concreti di esser invischiati in una guerra, seppure (forse)
solo locale. Motivi per scendere in piazza, per ribadire il nostro deciso NO a tutto questo, ve ne sono a iosa.
In momenti come questo, caratterizzati da una notevole dispersione (non solo geografica) del
nostro movimento, il valore "simbolico" dell'appuntamento del 13 marzo è indubbio. Non si
tratta - è evidente - di "gonfiare" l'importanza di un corteo, attribuendogli chissà quale valore
taumaturgico: più modestamente, senza illusioni ma anche senza pessimismo, si tratta di far
proprie quelle iniziative che si muovono in senso costruttivo, con metodi libertari, su tematiche
nostre che possono anche esser comprese da altri. È necessario, a nostro avviso, che l'impegno
logicamente più immediato e diretto contro il
militarismo italiano e contro la Nato (soprattutto in zone, come quella di Livorno, che sono
particolarmente condizionate) non faccia passare in subordine il nostro discorso più generale, la
nostra opposizione altrettanto dura contro il Patto di Varsavia, i regimi dittatoriali marxisti ormai
sempre più condizionati dall'esercito, il militarismo "di sinistra" insomma. L'antimilitarismo
anarchico va ben oltre certo antiamericanismo a senso unico, che si è visto predominare in molti
cortei pacifisti degli scorsi mesi e che richiamava alla memoria le battaglie anti-Nato condotte
dalla sinistra parlamentare negli anni '50 e '60 - nel momento stesso in cui questa appoggiava o
comunque avallava la politica imperialista degli stati marxisti. Per noi anarchici, distinguersi da
questo antiamericanismo a senso unico, impropriamente fatto passare come antimilitarismo "di
sinistra", è una questione fondamentale di sostanza, di immagine e di chiarezza nella
comunicazione all'esterno. Si tratta di far capire con la massima chiarezza che siamo contro tutti
gli eserciti, borghesi e proletari, riformisti o rivoluzionari, occidentali o orientali: appunto perché
la nostra critica del militarismo va alle radici della sua struttura interna, della mentalità servile
che esige e forma, dei meccanismi che ne regolano la sopravvivenza. Ne colpisce, insomma, la
natura autoritaria e repressiva per eccellenza. La necessità, sentita da alcuni compagni, di fondare il
nostro antimilitarismo su analisi
esasperatamente classiste, presentando l'esercito riduttivamente come "strumento della
borghesia", definendolo necessariamente "fonte di disoccupazione e di miseria", con la volontà di
collegare comunque la lotta antimilitarista a quella per la difesa dei cosidetti "interessi operai
immediati", non ci convince. Certi tradizionali schemi classisti, di derivazione culturale marxista,
non favoriscono l'analisi attenta ed intelligente del militarismo e delle sue tendenze future. Per i
lavoratori dell'industria bellica - per esempio - cioè per almeno 80.000 lavoratori (circa 300.000
con l'indotto), l'occupazione è assicurata proprio da quell'apparato militare-industriale che noi
combattiamo. Lo spirito di classe, la "difesa degli interessi operai immediati" non spingono certo
nella nostra direzione: ne sa qualcosa quel Maurizio Saggioro che, rifiutandosi di costruire pezzi
destinati alla produzione bellica, è stato licenziato (la conferma definitiva l'ha avuta il 17
febbraio) e si è ritrovato solo, con i suoi compagni "di classe" ed il sindacato sostanzialmente
schierati con il padrone. Una conferma in più del fatto che l'antimilitarismo - quello vero -, così
come l'anarchismo, è
innanzitutto una scelta di libertà.
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