rivista anarchica
anno 29 n.256
estate 1999


Incontri ravvicinati con i “baby criminali”
di Massimo Annibale Rossi

 

È uno degli ultimi tormentoni sui mass-media. E allora parliamo un po’ anche noi di “criminalità giovanile”.

Gli ingredienti della nuova stagione di cronaca appaiono sorprendenti nella loro ripetitività. Sintetizzabili in “Dilagano le baby gang” (cfr. L’Espresso N. 20 del 20/5/99), riprendono con poche variazioni il cliché dall’allarme sociale: un occhio agli umori della famiglia-tipo all’italiana, l’altro a sottolineare il generale bisogno di sicurezza. Se sono da registrare acmi periodiche nei reati minorili e un relativo incremento nell’ultimo decennio, il fenomeno non appare tuttavia possedere caratteri da catastrofe sociale.
In una prospettiva più ampia, per origine e proporzioni, il fenomeno delle bande di quartiere richiama la realtà statunitense. Realtà che, al di là di commozioni presidenziali e titoli da prima pagina, suggerisce l’antico tema del rapporto tra i modelli proposti da una data società e i comportamenti - devianti o meno - degli adolescenti. Una cultura che legittimi l’omicidio quale giusta e collettiva pena e l’inconsulta proliferazione di armi tra la popolazione verserà lacrime di coccodrillo sulle imprese stragistiche dei propri figli. La "tolleranza zero", perla del Giuliani pensiero, non realizza la prospettiva di un superamento della violenza, quanto di un monopolio totalizzante della violenza. Una polizia investita di una missione salvifica viene a esercitare un potere via via più esteso e a erodere il già esiguo diritto di controllo da parte della comunità.
Il problema che si viene a porre investe il senso e i limiti dell’intervento repressivo. Se il tentativo in atto negli Stati Uniti di costruire un argine definitivo tra crimine e normalità si concretizza nel più ampio sistema carcerario che una società civile abbia mai concepito, è da sottolineare il carattere di disarmonia che una tale scelta implica. Il reato, o meglio il modello criminale, è replicabile all’infinito. Questo sta a significare che ridurre all’impotenza sociale, o eliminare fisicamente il "colpevole", può ottenere risultati solo sul breve periodo. Il nodo è come intervenire sulle cause. La decisione di Enrico VIII d’impiccare i vagabondi non ha certo alleviato la miseria e la disoccupazione nella società inglese del XVI secolo. Ciò non significa teorizzare la rinuncia passiva o non considerare la necessità di arrestare le smanie distruttive di singoli e gruppi.

Imprinting mafioso

La metropoli rappresenta l’humus di una criminalità minorile che, pur non rivelando in Europa caratteri limite, costituisce un fenomeno endemico. Il disagio che ne è all’origine assume a seconda dei quartieri di provenienza forme definite e si radica in modelli culturali specifici. Una decina di anni fa le cronache locali della periferia milanese segnalarono in modo sommesso - non era un periodo fertile - tentativi di estorsione ai danni dei commercianti da parte di una banda di quartiere. Sul modello delle organizzazioni criminali predominanti, un gruppo di quindicenni si era proposto come avanguardia del business del pizzo. In seguito, sfruttando il meccanismo d’impunità dei minori di 14 anni, lo spaccio di stupefacenti si è in più occasioni avvalso degli "spilli", baby pony-express della droga.
Si tratta di contesti caratterizzati dall’imprinting mafioso. I ragazzi provengono da ambiti dove la cultura dell’omertà, della violenza eletta a medium relazionale e il familismo hanno radici salde. Trattandosi di archetipi possenti e autorevoli, le possibilità di fuga per quanti hanno la sfortuna di nascervi appaiono scarse. L’alternativa si riduce ai poli dell’essere ripudiato, con relativo rischio di morte, e della cooptazione in una catena criminale che origina nelle profondità della genealogia. Non a caso l’alta percentuale di disturbi psichiatrici che caratterizza le "famiglie" origina dal paradosso del "non aver scelta". Dinamica che dovrebbe illuminare rispetto alla scarsa efficacia dell’intervento repressivo in termini di riequilibrio sociale. Il boss, i luogotenenti e i soldati di mafia sono fungibili. A una generazione finita "onorevolmente" dietro le sbarre o sotto le lapidi, ne segue una nuova, svezzata a colpi di lama e bomba.
Nelle terre dove la voce del patriarca è legge, il clan si pone quale alternativa "di sangue" a uno stato poco presente e incapace di proporre modelli autorevoli. Il patto presuppone assoluta obbedienza e rinuncia alla parte umana e creativa di sé. Il mafioso rende oro o morte tutto ciò che tocca, e in realtà conduce un’esistenza da forzato del crimine ben poco appagante e per nulla libera. Una rottura reale della catena è tuttavia possibile. Si tratta di proporre e far assimilare a partire dalla scuola modelli culturali e di vita altri, autenticamente umani. Lo stato è un’entità algida e lontana, veicolo di retoriche, automitizzazioni e falsi sistemi valoriali. La comunità, non intesa come sviluppo di un gene, ma frutto di libera adesione tra pari, può rappresentare una alternativa reale. Il problema diviene confrontarsi con una società malata d’identità, di capacità creativa e relazionale, apparentemente convinta che l’accumulazione e la sopravvivenza fisiologica al limite delle possibilità della specie rappresentino i fini ultimi.
Contrappasso di questa ansia di "riempire la propria esistenza" è un dilagante senso di insoddisfazione. Una cappa di noia, che neppure i planning più manageriali possono dissolvere, e che appare la chiave per penetrare il disagio della periferia, quanto della Milanobene. Furti, scippi, rapine a mano più o meno armata, estorsioni rappresentano le tappe di una coazione a ripetere che ha una forte valenza autodistruttiva. Il fine, più che l’adesione a un ideale dell’io malavitoso, è qui da individuarsi in un confuso senso di rivolta verso l’autorità paterna e nella ricerca febbrile di "vere emozioni". I codici comunicativi e relazionali, i tentativi di evasione, sono frutto delle mode e dell’esperienza della banda sul campo. Banda che il più delle volte al momento dell’impatto con la legge rivela tutta la propria adolescente fragilità. Ed è da questo punto di vista che l’epiteto "baby gang" forgiato dal giornalismo rampante appare forzato.

Turismo da sconvoltura

Nella ricerca della trasgressione l’incontro con la droga riveste un ruolo cruciale. È il capovolgimento "sintetico" del grigiore e del buon senso adulto. È l’esperienza - limite del pedale dell’acceleratore spinto al massimo. Il cocktail di musica techno sincopata, di amfetamino - derivati e alcool, ha nel furto di auto e nelle corse notturne il proprio apogeo. La discoteca diviene tempio del rito trasgressivo del sabato sera. I locali si sono selezionati negli anni, creando preziose occasioni di turismo da sconvoltura. Ma l’emozione ha un prezzo che si autoalimenta progressivamente, e che parallelamente costringe a un vortice d’imprese più audace e serrato.
Le possibilità di mantenere uno status scolastico o lavorativo accettabile si fanno a questo punto ristrette. La vita comincia a scorrere tra gli argini del tempo dell’attesa e del tempo dello sballo. Dove l’emozione dura e adrenalinica della rapina si innerva e si confonde nell’ebbrezza della "cala" e nel clima cospirativo della trasgressione notturna. Il resto è nulla. È la difficoltà di scambiare quattro parole al di là dei punti cardinali di droga-furto-figa e motorino. È l’impossibilità di sottrarsi al rapporto ossessivo con videogiochi e slot-machine del "solito bar". La costante affettiva, sia che si tratti di un padre balordo, sia di una pietra angolare di probità, è il "non voglio essere come lui". Tuttavia lo sguardo del mondo si rivela in un improvviso e casuale "sei già conciato peggio di lui".
Le consonanze tra le bande delle periferie e i "Sancarlini" del centro si esauriscono qui. Esistono forme di contaminazione, spesso urbanisticamente motivate della recente emigrazione della borghesia milanese verso isole residenziali create dal nulla nella desolazione dell’hinterland. Ma i gruppi hanno tendenza a mantenere distinti i caratteri di classe e a esibire codici e comportamenti propri. Se in altri contesti, in particolare nel meridione, il disagio economico può dirsi determinante, nel nord le sacche di povertà hanno un peso relativo. Il proletariato delle periferie soffre di una grave crisi esistenziale, di una endemica deprivazione culturale e affettiva. I modelli di integrazione faticosamente assimilati dalle generazioni precedenti sono da tempo andati in pezzi. E le utopie rivoluzionarie degli anni settanta hanno lasciato un vuoto di senso che appare incolmabile.
Il mito di una "vita dignitosa" in un quartiere ghetto - due-locali-più-servizi in condomini più adatti a pollame che a umani - ha perso, semmai l’ha avuta, ogni attrattiva. La scelta è tra un tentativo di riscatto centrato su di un salto di classe -"diventare artigiano o commerciante, farsi la villetta in cooperativa"- o contestare lo squallore portandolo alle estreme conseguenze. Il motto fascista "Vale più un giorno da leoni che cent’anni da pecora" diviene "Vale più una notte di sballo che trentacinque anni ferie ad agosto e pensione pagate". I fondamenti civici della partecipazione democratica, della prolifica contribuzione al bene comune, appaiono bagliori lontani, venati d’una ipocrisia troppo sbiadita anche per indignare.
Crescendo s’impatta con il mondo com’è, non come dovrebbe essere, e se ne acquisiscono modelli e valori. E in questo senso la dimensione della deprivazione culturale si rivela in tutta la propria dirompente attualità. Il mondo della periferia è un mondo dove il riscatto possibile, l’agio economico, appare quale positivo della scelta deviante. Alla frenesia della ricerca dell’emozione si sostituisce la pari scadente prospettiva del lavoro totalizzante per la conquista della proprietà.

Lo stigma della rassegnazione

La deprivazione affettiva coinvolge il lutto di una generazione che ha vissuto cambiamenti storico-sociali di portata prima inimmaginabile e che si è spenta nella quotidiana lotta per adeguarvisi. I traumi causati dai processi interni d’immigrazione nel ventennio ‘50-‘70 sono al di là dall’essere superati. Alla nostalgia del mondo bucolico pre-conflagrazione, si è sostituito il persecutorio arroccamento sulle posizioni conquistate. E non ha importanza che non si parli, che non si giochi, che il mondo abbia assunto le fattezze di cemento di una caserma. Importa il "posto" sicuro, il "tetto sulla testa", la televisione ventidue pollici e l’utilitaria Fiat; importa la sopravvivenza. La generazione dei padri appare segnata dallo stigma della rassegnazione, stigma che nei figli inibisce la speranza in un mondo altro, senza la quale crescere perde il proprio senso.
I racconti gioiosi sulla vita nelle case di ringhiera o di paese paiono in anticipo giungere da un altro millennio. Nei casermoni la gente si trova serrata nelle "unità abitative" come in loculi. Non c’è fermento, non esperienza, si vive poco. La cena scandita dalle immagini della finction frullate con la morte in diretta ha sradicato quel poco di convivialità che i ritmi di vita e lavoro del post-industriale avevano risparmiato. E d’altronde la sensazione comune è di avere sempre meno da dirsi, che le cose importanti giungano dai numeri stampigliati sulla busta paga e dai codici a barre delle merci dell’Ipermercato.
Nei quartieri bene le forme della deprivazione assumono un carattere più ovattato. Le figure parentali sono, e sono state durante l’infanzia, frequentemente assenti. La vita risulta scandita dalle necessità professionali, che si protraggono indefinitamente oltre la cena, e dalla fuga del week-end verso seconde case o paradisi esotici. In comune periferia e centro mostrano l’impossibilità di una comunicazione reale. La mancanza è qui vanamente compensata dall’accumulazione di oggetti-regalo e figure sostitutive. I nonni divengono surrogati dei genitori creando pericolosi meccanismi di sovrapposizione e ambivalenza. Il rifiuto di un modello affettivamente sterile si traduce nel suo opposto dialettico. Un reato che lascia stupefatti e che, in contrasto con i codici dei bulli della periferia, non viene esibito fino all’esito finale, nel tentativo di recuperare l’emozione salvando l’apparenza.
Il livello d’analisi del sistema mass-mediale, quanto la reazione istituzionale si fermano alla considerazione del sintomo: il comportamento deviante. Le gesta delle "baby gang" fanno notizia, incrementano audience, vendite e spazi pubblicitari. Porsi il problema di come rivitalizzare i quartieri e proporre modelli più umani appare anacronistico e datato.

Massimo Annibale Rossi