rivista anarchica
anno 30 n.264
giugno 2000


globalizzazione

Dopo Seattle: una politica cosmopolita?
di Vittorio Giacopini

 

Contro la prospettiva di un governo mondiale, vagheggiata anche da sinistra.

 

Una rivincita della politica sull’economia? Chi ha giudicato in questi termini la “battaglia di Seattle” è saltato alle conclusioni troppo presto. Si é accontentato di una scorciatoia.
Mai come oggi, dopo un secolo in cui ha fatto di tutto per screditarsi e rendersi odiosa, sulla politica sembra gravare l’imperativo di un compito immane. Lo spettro della catastrofe ecologica, la sussistenza della biosfera. Davanti ai rischi globali del presente, l’intuizione di Hannah Arendt sul fine autentico della politica si rivela ineccepibile e al tempo stesso quasi disperata. “Al centro della politica vi è sempre la preoccupazione per il mondo. Scopo della politica è cambiare o conservare o fondare un mondo”1.
Cambiare, conservare, fondare un mondo. Mission impossibile. A Seattle, la percezione della necessità di una svolta radicale è stata confusa con le premesse di una soluzione. Per ritrovare l’azione e la politica nel contesto anonimo della globalizzazione, si è immaginato un rimedio omeopatico. Davanti a incertezze e rischi globali, l’unica risposta possibile è stata individuata in una politica globale. Think globally, act globally: è lo slogan, e il programma, di Vandana Shiva, di “Le Monde diplomatique”, della nuova sinistra “sociale”. La disponibilità (apparente) di un nuovo soggetto della storia - una “società civile mondiale”; un’inedita classe generale - ha suggerito la praticabilità di una risposta politica alle tendenze in senso stretto irresponsabili dell’economia.
Guru della finanza internazionale, signori del capitalismo, banchieri, lobbisti, suadenti funzionari di multinazionali e grandi corporations, analisti di rischio, mediatori d’affari, consulenti: una nuova iper-classe di “intoccabili” regola la pulsante energia del mondo globale, semplifica paesaggi culturali eterogenei e differenze, armonizza realtà incongrue, riluttanti a lasciarsi rinchiudere nel gergo neutrale dell’economia. Seattle ha replicato ideologicamente a tutto questo coltivando il sogno di una democrazia universale, l’ideale kantiano di un governo cosmopolita. Divergenze, accenti diversi, non cancellano il sottofondo di un’aspirazione condivisa.
Il cosmopolitismo come risposta politica alla globalizzazione, un governo mondiale dell’economia come replica al gioco segreto della finanza, dei poteri forti, del Wto, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale. Autonomi tribunali sovranazionali per dirimere vertenze e conflitti commerciali (Cohn-Bendit, Bovà, i “verdi”), partiti politici cosmopoliti (Ulrich Beck) un’Onu dell’economia (Piero Fassino), un ritrovato ruolo dei parlamenti (Petrella, “Le Monde diplomatique”), una società civile mondiale (Ramonet, Dahrendorf, Susan George, ecc.): anche le proposte più specifiche e parziali reiterano il credo cosmopolita di una democrazia universale, di un governo mondiale, speculare all’imperialismo della globalizzazione, analogo per dimensioni ma opposto per scopi, priorità, indirizzi tematici e linee di azione. Nel disordine presente, e prima della catastrofe futura, si insiste a chiedere al potere politico una risposta consapevole alle manovre di altri poteri legittimati esclusivamente dalla ricchezza, dal codice del denaro, dalla grammatica cieca del privilegio. La volontà (politica) contro il caso, la lotteria della nascita, la fortuna. “L’unica speranza, - come ha detto Richard Rorty -, potrebbe stare nella disponibilità delle grandi potenze a costruire un governo mondiale”2. Sulla stessa lunghezza d’onda Michael Walzer evoca meccanismi di rigetto in grado di riaprire le porte alla politica: la democrazia è a rischio solo perché finora l’“abbiamo sperimentata esclusivamente a livello locale e nazionale. La mia speranza sta nell’analogia col Diciannovesimo secolo. Allora la stessa industrializzazione produsse il rimedio alle sue esagerazioni, nello stesso modo la globalizzazione potrebbe produrre il rimedio politico per mitigare i suoi eccessi”3.

 

Un governo mondiale?

Un governo mondiale. Quando non è una pia illusione è una minaccia, rappresenta un incubo. Probabilmente non è neppure un’Utopia. Almeno in termini strategico-militari qualcosa del genere esiste già, per quanto in forma latente (e un po’, mafiosa): l’abbiamo visto durante la guerra del golfo, in Kosovo, in qualche modo anche in Ruanda e in Somalia. Un’internazionale del potere, la maschera sanguinante del nuovo ordine mondiale. In ogni caso resta una prospettiva ambigua, imbarazzante.
Dal punto di vista della teoria politica sembra un’ipotesi troppo simmetrica al male che vuole contrastare per non suscitare qualche ragionevole sospetto. Il cosmopolitismo come alternativa alla globalizzazione, l’allargamento su scala mondiale della democrazia. L’idea di Walzer che la democrazia abbia deluso o funzionato male perché è stata sperimentata solo a livello locale e nazionale sembra una curiosa parodia del vecchio paradosso marxista del socialismo in un solo paese, una riedizione della teoria apologetica dell’accerchiamento. Recuperando Rousseau semmai si potrebbe dire che è vero l’inverso: anche un solo paese (lo stato-nazione) è troppo grande per realizzare una democrazia, una polis decente, un livello di partecipazione effettivo e convincente. Adesso sostengono che la democrazia può diventare mondiale, rigenerasi in forma cosmopolita, darsi una nuova corteccia spinale (insomma un’anima) tramite Internet, la Rete, la comunicazione simultanea garantita da computer, autostrade elettroniche e altre analoghe strutture virtuali. Può essere vero, ma solo nel senso della ripetizione del presente, di un’estensione viziosa dell’identico.
Con molta faccia di bronzo (ma non senza coerenza) c’è chi ha proposto di istituzionalizzare ONG, associazioni del volontariato e altre espressioni della società civile garantendogli una rappresentanza fissa al Wto. D’altro canto, i nuovi media si attrezzano per funzionare su scala globale, per adattarsi al nuovo scenario di un’unica democrazia planetaria. Non è entusiasmante ma per quanto riguarda gli assetti proprietari il panorama si sta già semplificando. Il nuovo potere cosmopolita è un’ipotesi che già lascia intuire un’inquietante mistica trinitaria: un solo corpo sociale, una sola anima, un’unica Rete.
Alla fine basta forse un po’, di buon senso e un minimo di sensibilità libertaria e antiautoriaria. Che il potere di Stati, istituzioni, regolamenti, gruppi finanziari possa mitigarsi diluendosi nel corpo mistico di una democrazia cosmopolita è semplicemente assurdo e incredibile. Tutto lascia pensare che finiremmo per ritrovarci nella situazione opposta.
Una straordinaria concentrazione di poteri, un sempre più inafferrabile monopolio della forza legittima, della violenza e del denaro. Forse un governo mondiale potrebbe affrontare addirittura l’eventualità della catastrofe ambientale, lo spettro dell’apocalisse ecologica. La fantascienza ha sempre lavorato su scenari totali di questo tipo. Una politica iper-totalitaria e ingegneristica come ultima risorsa davanti alla fine del mondo. Non è da escludere che la politica potrebbe in questo modo realizzare anche il suo compito impossibile: conservare il mondo, salvare il mondo. Ma per chi è convinto che il Mondo non sia una cosa ma lo spazio che unisce e separa gli uomini, una trama di scambi e relazioni, un’espressione della pluralità umana e della libertà, quella promessa rappresenta in ultima analisi una minaccia. Salvarsi abdicando alla libertà, rinunciando all’individualità e perdendo l’anima: non è allettante; non ne vale la pena.

L’incubo del dominio

L’ingenuità (o la supponenza) filosofica e il prevedibile risvolto autoritario dell’ideale cosmopolita di una democrazia mondiale non sono le sole risposte politiche al fenomeno della globalizzazione. Forse è l’unico vantaggio di una situazione piuttosto critica. Quando non esistono terreni codificati è inevitabile proporre continuamente ipotesi, concedersi il lusso di tentativi, prove, esperimenti. Nonostante tutte le sue pretese teoriche e rivoluzionarie, il modello della democrazia mondiale si basa in fondo su un assunto puramente quantitativo. Il superamento lineare dello stato-nazione in un iper-stato, l’estensione planetaria della società civile.
Un’altra possibilità, l’unica che forse vale davvero la pena di mettere alla prova, consiste nel provare a ripensare l’agire, la sfera pubblica e la politica in termini libertari partendo dalla critica del potere e dal rifiuto consapevole di qualsiasi forma di dominio. Continuare a ripetere che il mondo in cui viviamo è troppo complicato rischia di essere una scusa per non fare niente. Il male diventa ineffabile e sfuggente, si diluisce in modo poco chiaro nel mosaico della globalizzazione, genera rassegnazione e disincanto o sterili gesti di rivolta, prese di posizioni eclatanti ma consolatorie. L’assunto in qualche misura anarchico di questo punto di vista radicale sui limiti e le insufficienze della democrazia individua invece le origini del male in un fenomeno molto più preciso.
Tutti gli elementi che contribuiscono a definire lo scenario bloccato del presente (la politica, la società, il capitalismo, lo stesso rapporto con l’ambiente) derivano da una stortura originaria: da rapporti umani troppo segnati dal codice del potere, inquinati dal sogno del dominio, cristallizzati nel gergo dell’ineguaglianza, dell’obbedienza e della gerarchia. Anche il fattore di rischio probabilmente più grave e urgente del momento (la questione ambientale, la “fine” della natura) nasce da sistemi di comando-obbedienza che prima ancora della nostra relazione col mondo naturale condizionano la stessa sfera della pluralità, i rapporti degli uomini tra loro. Mentre ha espresso in modo inconsapevole, come una fotografia scattata per caso - questo cortocircuito tra paralisi della sfera pubblica, ecologia, opportunità e pericoli della globalizzazione Seattle ha quindi confermato l’intuizione più seria e impegnativa di quella che Bookchin definisce “ecologia sociale”.
La consapevolezza che una vita e una politica diverse e gli stessi “presupposti di un rapporto armonico con la natura sono di tipo sociale”, possono scaturire soltanto dall’instaurazione di armonici rapporti tra gli esseri umani e “prevedono l’abolizione della gerarchia in tutte le sue forme (anche psicologiche e culturali, oltre che sociali), l’abolizione delle classi, della proprietà privata e dello stato”4.

 

Ritagliare sfere di libertà

Sono obbiettivi troppo ambiziosi e drastici, estremistici? Non è necessario sbilanciarsi, affrettarsi a dare una risposta definitiva. L’elemento che conta di più non è la “meta” finale, l’immagine di un futuro alternativo. Il punto essenziale sono le cose da fare adesso, il “qui e ora” di una forma di azione e di presenza capace di scardinare almeno in termini relativi il codice del potere e i ricatti della gerarchia.
Costruire contro-istituzioni, ritagliare sfere di libertà e indipendenza in un contesto chiuso, soffocante. Se il tratto francamente più allarmante della situazione attuale sta nella trasformazione del capitalismo e delle relazioni di mercato da una forma economica a un modello latente di società, la questione davvero all’ordine del giorno riguarda, da subito, la creazione di “nuove forme di resistenza”, l’istituzione di “aree di vita alternative capaci di contrastare e indebolire l’imborghesimento della società a tutti i livelli”, la genesi di una “sfera pubblica radicale”5, in grado di innescare un’inversione di tendenza, un cambiamento di mentalità e una trasformazione politica e sociale di più ampio respiro. Il dilemma non riguarda il piano dei fini ultimi, ma la zona più ambigua del come e del quando, il terreno costantemente aperto e incerto dei mezzi. Proprio l’urgenza del cambiamento impone discrezione, misura, pragmatismo, capacità critica, intelligenza.
Che fare, quindi, da dove cominciare? La risposta è in qualche modo immediata, ma non è così elementare come sembra. Da noi; dalla forma che diamo alla nostra vita, dal nostro modo costruire rapporti e relazioni, spazi e occasioni di socialità. Tutt’altro che una ricetta privata, un percorso iniziatico intimista. In un mondo in cui la sfera pubblica e la vita privata sono fortemente condizionate da rapporti gerarchici, convenzioni oppressive, potere e conformismo, l’unico punto di partenza di qualsiasi tentativo di trasformazione radicale coincide col territorio stesso dell’individualità, con un modo diverso di essere singoli, di giudicare e di pensare il mondo. Non siamo autosufficienti, l’autarchia del pensiero e della coscienza sono un mito o un’ipocrisia del liberalismo. Possiamo ritrovarci, crescere, diventare quello che siamo solo tramite gli altri, in una trama di relazioni libere dal potere, scandite dalla libertà e dall’uguaglianza. Oggi provare a vivere in “modo indipendente e autonomo” (Herzen) significa paradossalmente tornare presso la stessa origine dimenticata del pensiero politico occidentale, nel cuore nascosto della democrazia. Mentre le grandi risposte “collettive” della modernità segnano il passo, l’unica forma di innovazione possibile e convincente ha qualcosa a che fare con il modello classico della polis inteso non come “modello” da imitare ma come un seme, o un “germe” vitale dell’esperienza possibile di un’altra politica 6, libera dall’ossessione del potere, emancipata dai ricatti della gerarchia. Un immaginario politico rinnovato coincide oggi con l’esigenza, tutta da sperimentare in termini concreti, di esperienze nuove di democrazia diretta, di partecipazione libertaria, di autogestione e di organizzazione spontanea e dal basso.

 

La proposta di Bookchin

La stessa esigenza di tracciare la linea, come diceva Goodman, e di separarsi da un mondo sociale colonizzato dal potere e narcotizzato dal conformismo implica, paradossalmente, una ridefinizione della vita pubblica, la necessità di una “politica radicale” in un contesto in cui politica e democrazia sono diventate parole vuote, eufemismi, imbrogli. “Molto di quello che oggi chiamiamo politica - ha scritto Murray Bookchin argomentando il punto di vista del “municipalismo libertario”- è solo potere dello stato, ma il termine politica, secondo la sua etimologia greca, si riferiva una volta ad un’arena pubblica di cittadini consapevoli, che si sentivano competenti a gestire direttamente le proprie comunità, le loro poleis7.
“Democrazia diretta”, “municipalismo libertario”, “l’apertura di aree di vita alternative per bilanciare l’imborghesimento della società”: parole d’ordine che sembrano inattuali, disperatamente fuorigioco nell’epoca della globalizzazione planetaria. Forse si tratta solo di un effetto ottico, di una specie di strabismo molto convenzionale, poco acuto.
Proprio quando si fanno i conti con la globalizzazione si dovrebbe riconoscere piuttosto il carattere illusorio delle risposte troppo ambiziose - la politica globale, la democrazia cosmopolita (act globally) - o il tratto ipocrita e rassegnato della strada opposta, think globally, act locally. Senza essere costretti a scegliere per forza tra due alternative obbligate e speculari conviene piuttosto lavorare direttamente su modelli di socialità, schemi di vita, ipotesi di liberazione legati direttamente al piano inclinato dell’esistenza quotidiana, ma già carichi di una valenza politica decisiva. Una rilettura municipalista del tema della polis; una democrazia radicale, una democrazia che si prende sul serio. La scommessa fondamentale è immaginare adesso rapporti e relazioni capaci di ridefinire simultaneamente uno stile dellíindividualità e i modelli concreti di socialità, la sfera pubblica. Senza smarrirsi nel sogno roussoiano di uníimpossibile volontà generale capace di riassorbire al suo interno tutte le volontà particolari e le differenze, il tema della democrazia diretta e il progetto municipalista costruiscono un modello alternativo che mentre dichiara la sua intransigente secessione dalla società insiste sulla definizione di nuclei quasi-politici basati sull’azione di minoranze concrete, consapevoli. Un modo -l’unico realistico - per tornare alle radici stesse della democrazia, per provare a sperimentare le sue promesse mancate, diluite e sciupate in un’idea di politica già declinata in modo reazionario secondo il codice del potere e l’ossessione della gerarchia.

Zone politiche spontanee

Quando Bookchin definisce il municipalismo una “bomba ad orologeria” pensa - mi sembra - precisamente all’importanza di un tentativo spericolato che non pretende di diventare un modello egemone, un paradigma assoluto, universale. Il punto chiave è che esperimenti di questa natura sono stati tentati, hanno una storia, non nascono nel cielo delle idee, nell’hard discount di utopie scadute e a buon mercato: “dai levellers della Londra del diciassettesimo secolo agli anarco-sindacalisti di Barcellona in questo secolo, l’attività radicale è stata sempre alimentata da forti vincoli comunitari, da una sfera pubblica garantita da strade, piazze, caffè”8. In fondo la stessa intuizione che spingeva Hannah Arendt a rivalutare l’esperienza autenticamente rivoluzionaria dei “consigli” senza lasciarsi bloccare in modo preventivo dalla “paura delle cose mai vedute, dei pensieri mai pensati, dalle istituzioni mai tentate”9.
Costruire zone politiche spontanee senza lasciarsi ricattare dal realismo scientifico dei rivoluzionari di professione, dall’ossessione della “presa del potere”, dall’ala protettiva e prevaricante dei partiti10. Il nodo centrale sono la pluralità di forme di socialità a valenza politica, la spontaneità di un agire pubblico basato, come avrebbe detto Arthur Rimbaud, sull’esigenza di “cambiare vita”. Una “sfera pubblica radicale” che nasce e si esprime “by streets, square and cafes”, un esercizio di democrazia sempre legato a una sorprendente pluralità di situazioni, esperienze, occasioni diverse di socialità. Senza cercare di riesumare il mito arcaico della polis, il “modello” aureo e ambivalente dell’Atene di Pericle, “municipalismo libertario”, rete e consigli, rappresentano forse l’unico cuneo per scardinare la politica, erodere i vincoli soffocanti della “società di massa”, rivitalizzare in modo radicale una democrazia bloccata nella pigrizia infinita di una ripetizione e di un imbroglio. Il progetto di una democrazia rigenerata passa attraverso la costruzione di un intreccio complesso di esempi diversi, postulando come meta finale non tanto una discutibile, spaventosa unanimità, ma il modello aperto e libertario di una “comune delle comuni” capace di trasformarsi progressivamente in una nuova sfera pubblica e di dar vita ad un’idea di “cittadinanza e di sistemi economici municipalizzati da contrapporre al crescente potere dello stato-nazione e delle grandi imprese economiche multinazionali e centralizzate” (Bookchin).

 

Strade bloccate senza uscita

“La terra - ha scritto Hannah Arendt in Vita Activa - è la quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza sacrificio”11. La rilevanza storica e l’importanza reale di Seattle dipendono credo dall’intuizione ancora allo stato embrionale della fragilità di questo rapporto con la “natura” e dalla paura taciuta ma sempre crescente per la possibile fine di questo equilibrio stentato e provvisorio tra noi uomini e la “terra”, la natura, il “Mondo”. Se nell’immagine della “fine del mondo” c’è sempre una componente di maniera, per una volta bisogna riconoscere che anche gli incubi peggiori e più inquietanti della fantascienza non è soltanto il sintomo patologico di un immaginario estenuato o paranoico. L’uomo è davvero “antiquato” (Anders), in qualche modo, e la forma stessa con cui ha scelto di sopprimersi può molto probabilmente essere nuovamente chiamata col suo vecchio nome. Il culto mistico e acritico della tecnica, l’ideologia suicida dello sviluppo dipendono davvero da un sistema economico che si è esteso sino a coprire tutte le dimensioni della nostra esistenza privata e collettiva. Se anni fa ci si sentiva un po’, ridicoli soltanto a nominarlo, oggi possiamo accusare apertamente, con una nuova legittimità, questo sistema totale e deprimente: il mondo dei consumi, il capitalismo. Anche se forse è davvero troppo tardi bisogna provare a rompere, in qualche modo e da qualche parte, il pigro imperialismo di un principio di realtà irreale, soffocante.
Cercare di costruire spazi diversi, inventare zone alternative, restituire un senso alla politica come cura e gestione degli affari umani, provare a riprendere il mano il nostro destino. In una situazione disperata, qualsiasi tentativo serio e fantasioso in questa direzione rappresenta già un piccolo punto di vantaggio, anche perché l’ultima chance per provare a cambiare le cose. Una sfida terribilmente seria, niente ci garantisce che possa funzionare. Ma va da sè che è almeno il caso di giudicare le cose in modo limpido e di sbarazzarsi di modelli vecchi e di riflessi condizionati impresentabili, troppo schematicamente “politici”, inutilmente eccessivi, compiaciuti. L’estremismo auto-gratificante di chi ha visto nella battaglia di Seattle la garanzia di una svolta, l’aurora di una nuova rivolta planetaria o il nuovo inizio di una “politica globale” è senz’altro una spia che il pensiero politico e sociale della sinistra su questo sono ancora inadeguati, spaventosamente in ritardo, subalterni per pigrizia, fretta o ideologia a formule vuote e a slogan inutilizzabili. Una nuova politica radicale può nascere soltanto da sforzi isolati, rifiuti senza concessioni, consapevoli tentativi di secessione da un clima culturale, dalla grammatica dei consumi, dalla presenza invadente o dal simulacro dello Stato.
L’idea di una “società civile mondiale”, di una democrazia cosmopolita, sono l’ennesimo tributo che la sinistra rischia di pagare al mito della “presa del potere”, alla sua vecchia ossessione per la politica-politica, al culto e all’idolatria delle maggioranze. Sono strade bloccate, senza uscita. Partire dalla rivolta di minoranze convinte e motivate, costruire altre sfere di socialità, esercitare una critica esistenziale e concreta dei consumi e provare a ragionare, in modo pragmatico, libertario, anarchico, in termini di municipalismo, self-help, democrazia diretta, sono forse le uniche strade ancora praticabili per provare a tirarsi fuori dalle sabbie mobili e dalla palude stagnante del presente. Non dobbiamo farci troppe illusioni. Il successo di questa scelta non è sicuro nè molto probabile. Ma questa volta la posta in gioco è veramente troppo importante per consentire indugi, cautele tattiche, progetti a lunga scadenza o astute, disincantate strategie. La domanda estrema di James Ballard, “il futuro ha ancora un futuro?” - resta aperta. Non so se avremo il tempo di scoprirlo.

Vittorio Giacopini

1. H. Arendt, Che cos’è la politica?, ed. di Comunità, 1995, p. 152
2. Richard Rorty, Dobbiamo ancora mettere in pratica i principi della rivoluzione francese, in “La stampa”, 7-1-2000, p. 18.
3. Michael Walzer, La globalizzazione rilancerà uguaglianza e umanitarismo, in “La stampa”, 7-1-2000, p. 18
4. Per una società ecologica, p. 205.
5. p. 1
6. cfr. Cornelius Castoriadis, La polis greca e la creazione della democrazia, in 5. L’enigma del soggetto, Dedalo 1998, p.183 sgg.
7. Murray Bookchin, Radical politics,. Cit. p. 8. Cfr. anche Democrazia diretta, Eleuthera 1993, pp. 23-39.
8. Radical politicsv, p. 8
9. H. Arendt, On Revolution, p. 298.
10. Cit. Arendt, p. 304
11. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani 1989 p. 2

 

“Cercare di costruire
spazi diversi, inventare
zone alternative,
restituire un senso alla
politica come cura e
gestione degli affari
umani, provare
a riprendere in mano
il nostro destino.”