Una rivincita della politica sull’economia?
Chi ha giudicato in questi termini la “battaglia di Seattle”
è saltato alle conclusioni troppo presto. Si é accontentato
di una scorciatoia.
Mai come oggi, dopo un secolo in cui ha fatto di tutto per screditarsi
e rendersi odiosa, sulla politica sembra gravare l’imperativo
di un compito immane. Lo spettro della catastrofe ecologica,
la sussistenza della biosfera. Davanti ai rischi globali del
presente, l’intuizione di Hannah Arendt sul fine autentico della
politica si rivela ineccepibile e al tempo stesso quasi disperata.
“Al centro della politica vi è sempre la preoccupazione per
il mondo. Scopo della politica è cambiare o conservare o fondare
un mondo”1.
Cambiare, conservare, fondare un mondo. Mission impossibile.
A Seattle, la percezione della necessità di una svolta radicale
è stata confusa con le premesse di una soluzione. Per ritrovare
l’azione e la politica nel contesto anonimo della globalizzazione,
si è immaginato un rimedio omeopatico. Davanti a incertezze
e rischi globali, l’unica risposta possibile è stata individuata
in una politica globale. Think globally, act globally:
è lo slogan, e il programma, di Vandana Shiva, di “Le Monde
diplomatique”, della nuova sinistra “sociale”. La disponibilità
(apparente) di un nuovo soggetto della storia - una “società
civile mondiale”; un’inedita classe generale - ha suggerito
la praticabilità di una risposta politica alle tendenze in senso
stretto irresponsabili dell’economia.
Guru della finanza internazionale, signori del capitalismo,
banchieri, lobbisti, suadenti funzionari di multinazionali e
grandi corporations, analisti di rischio, mediatori d’affari,
consulenti: una nuova iper-classe di “intoccabili” regola la
pulsante energia del mondo globale, semplifica paesaggi culturali
eterogenei e differenze, armonizza realtà incongrue, riluttanti
a lasciarsi rinchiudere nel gergo neutrale dell’economia. Seattle
ha replicato ideologicamente a tutto questo coltivando il sogno
di una democrazia universale, l’ideale kantiano di un governo
cosmopolita. Divergenze, accenti diversi, non cancellano il
sottofondo di un’aspirazione condivisa.
Il cosmopolitismo come risposta politica alla globalizzazione,
un governo mondiale dell’economia come replica al gioco segreto
della finanza, dei poteri forti, del Wto, della Banca Mondiale,
del Fondo Monetario Internazionale. Autonomi tribunali sovranazionali
per dirimere vertenze e conflitti commerciali (Cohn-Bendit,
Bovà, i “verdi”), partiti politici cosmopoliti (Ulrich Beck)
un’Onu dell’economia (Piero Fassino), un ritrovato ruolo dei
parlamenti (Petrella, “Le Monde diplomatique”), una società
civile mondiale (Ramonet, Dahrendorf, Susan George, ecc.): anche
le proposte più specifiche e parziali reiterano il credo cosmopolita
di una democrazia universale, di un governo mondiale, speculare
all’imperialismo della globalizzazione, analogo per dimensioni
ma opposto per scopi, priorità, indirizzi tematici e linee di
azione. Nel disordine presente, e prima della catastrofe futura,
si insiste a chiedere al potere politico una risposta consapevole
alle manovre di altri poteri legittimati esclusivamente dalla
ricchezza, dal codice del denaro, dalla grammatica cieca del
privilegio. La volontà (politica) contro il caso, la lotteria
della nascita, la fortuna. “L’unica speranza, - come ha detto
Richard Rorty -, potrebbe stare nella disponibilità delle grandi
potenze a costruire un governo mondiale”2. Sulla
stessa lunghezza d’onda Michael Walzer evoca meccanismi di rigetto
in grado di riaprire le porte alla politica: la democrazia è
a rischio solo perché finora l’“abbiamo sperimentata esclusivamente
a livello locale e nazionale. La mia speranza sta nell’analogia
col Diciannovesimo secolo. Allora la stessa industrializzazione
produsse il rimedio alle sue esagerazioni, nello stesso modo
la globalizzazione potrebbe produrre il rimedio politico per
mitigare i suoi eccessi”3.
Un governo mondiale?
Un governo mondiale. Quando non è una pia illusione è una minaccia,
rappresenta un incubo. Probabilmente non è neppure un’Utopia.
Almeno in termini strategico-militari qualcosa del genere esiste
già, per quanto in forma latente (e un po’, mafiosa): l’abbiamo
visto durante la guerra del golfo, in Kosovo, in qualche modo
anche in Ruanda e in Somalia. Un’internazionale del potere,
la maschera sanguinante del nuovo ordine mondiale. In ogni caso
resta una prospettiva ambigua, imbarazzante.
Dal punto di vista della teoria politica sembra un’ipotesi troppo
simmetrica al male che vuole contrastare per non suscitare qualche
ragionevole sospetto. Il cosmopolitismo come alternativa alla
globalizzazione, l’allargamento su scala mondiale della democrazia.
L’idea di Walzer che la democrazia abbia deluso o funzionato
male perché è stata sperimentata solo a livello locale e nazionale
sembra una curiosa parodia del vecchio paradosso marxista del
socialismo in un solo paese, una riedizione della teoria apologetica
dell’accerchiamento. Recuperando Rousseau semmai si potrebbe
dire che è vero l’inverso: anche un solo paese (lo stato-nazione)
è troppo grande per realizzare una democrazia, una polis decente,
un livello di partecipazione effettivo e convincente. Adesso
sostengono che la democrazia può diventare mondiale, rigenerasi
in forma cosmopolita, darsi una nuova corteccia spinale (insomma
un’anima) tramite Internet, la Rete, la comunicazione simultanea
garantita da computer, autostrade elettroniche e altre analoghe
strutture virtuali. Può essere vero, ma solo nel senso della
ripetizione del presente, di un’estensione viziosa dell’identico.
Con molta faccia di bronzo (ma non senza coerenza) c’è chi ha
proposto di istituzionalizzare ONG, associazioni del volontariato
e altre espressioni della società civile garantendogli una rappresentanza
fissa al Wto. D’altro canto, i nuovi media si attrezzano per
funzionare su scala globale, per adattarsi al nuovo scenario
di un’unica democrazia planetaria. Non è entusiasmante ma per
quanto riguarda gli assetti proprietari il panorama si sta già
semplificando. Il nuovo potere cosmopolita è un’ipotesi che
già lascia intuire un’inquietante mistica trinitaria: un solo
corpo sociale, una sola anima, un’unica Rete.
Alla fine basta forse un po’, di buon senso e un minimo di sensibilità
libertaria e antiautoriaria. Che il potere di Stati, istituzioni,
regolamenti, gruppi finanziari possa mitigarsi diluendosi nel
corpo mistico di una democrazia cosmopolita è semplicemente
assurdo e incredibile. Tutto lascia pensare che finiremmo per
ritrovarci nella situazione opposta.
Una straordinaria concentrazione di poteri, un sempre più inafferrabile
monopolio della forza legittima, della violenza e del denaro.
Forse un governo mondiale potrebbe affrontare addirittura l’eventualità
della catastrofe ambientale, lo spettro dell’apocalisse ecologica.
La fantascienza ha sempre lavorato su scenari totali di questo
tipo. Una politica iper-totalitaria e ingegneristica come ultima
risorsa davanti alla fine del mondo. Non è da escludere che
la politica potrebbe in questo modo realizzare anche il suo
compito impossibile: conservare il mondo, salvare il mondo.
Ma per chi è convinto che il Mondo non sia una cosa ma lo spazio
che unisce e separa gli uomini, una trama di scambi e relazioni,
un’espressione della pluralità umana e della libertà, quella
promessa rappresenta in ultima analisi una minaccia. Salvarsi
abdicando alla libertà, rinunciando all’individualità e perdendo
l’anima: non è allettante; non ne vale la pena.
L’incubo del dominio
L’ingenuità (o la supponenza) filosofica e il prevedibile risvolto
autoritario dell’ideale cosmopolita di una democrazia mondiale
non sono le sole risposte politiche al fenomeno della globalizzazione.
Forse è l’unico vantaggio di una situazione piuttosto critica.
Quando non esistono terreni codificati è inevitabile proporre
continuamente ipotesi, concedersi il lusso di tentativi, prove,
esperimenti. Nonostante tutte le sue pretese teoriche e rivoluzionarie,
il modello della democrazia mondiale si basa in fondo su un
assunto puramente quantitativo. Il superamento lineare dello
stato-nazione in un iper-stato, l’estensione planetaria della
società civile.
Un’altra possibilità, l’unica che forse vale davvero la pena
di mettere alla prova, consiste nel provare a ripensare l’agire,
la sfera pubblica e la politica in termini libertari partendo
dalla critica del potere e dal rifiuto consapevole di qualsiasi
forma di dominio. Continuare a ripetere che il mondo in cui
viviamo è troppo complicato rischia di essere una scusa per
non fare niente. Il male diventa ineffabile e sfuggente, si
diluisce in modo poco chiaro nel mosaico della globalizzazione,
genera rassegnazione e disincanto o sterili gesti di rivolta,
prese di posizioni eclatanti ma consolatorie. L’assunto in qualche
misura anarchico di questo punto di vista radicale sui limiti
e le insufficienze della democrazia individua invece le origini
del male in un fenomeno molto più preciso.
Tutti gli elementi che contribuiscono a definire lo scenario
bloccato del presente (la politica, la società, il capitalismo,
lo stesso rapporto con l’ambiente) derivano da una stortura
originaria: da rapporti umani troppo segnati dal codice del
potere, inquinati dal sogno del dominio, cristallizzati nel
gergo dell’ineguaglianza, dell’obbedienza e della gerarchia.
Anche il fattore di rischio probabilmente più grave e urgente
del momento (la questione ambientale, la “fine” della natura)
nasce da sistemi di comando-obbedienza che prima ancora della
nostra relazione col mondo naturale condizionano la stessa sfera
della pluralità, i rapporti degli uomini tra loro. Mentre ha
espresso in modo inconsapevole, come una fotografia scattata
per caso - questo cortocircuito tra paralisi della sfera pubblica,
ecologia, opportunità e pericoli della globalizzazione Seattle
ha quindi confermato l’intuizione più seria e impegnativa di
quella che Bookchin definisce “ecologia sociale”.
La consapevolezza che una vita e una politica diverse e gli
stessi “presupposti di un rapporto armonico con la natura sono
di tipo sociale”, possono scaturire soltanto dall’instaurazione
di armonici rapporti tra gli esseri umani e “prevedono l’abolizione
della gerarchia in tutte le sue forme (anche psicologiche e
culturali, oltre che sociali), l’abolizione delle classi, della
proprietà privata e dello stato”4.
Ritagliare sfere di libertà
Sono obbiettivi troppo ambiziosi e drastici, estremistici?
Non è necessario sbilanciarsi, affrettarsi a dare una risposta
definitiva. L’elemento che conta di più non è la “meta” finale,
l’immagine di un futuro alternativo. Il punto essenziale sono
le cose da fare adesso, il “qui e ora” di una forma di azione
e di presenza capace di scardinare almeno in termini relativi
il codice del potere e i ricatti della gerarchia.
Costruire contro-istituzioni, ritagliare sfere di libertà e
indipendenza in un contesto chiuso, soffocante. Se il tratto
francamente più allarmante della situazione attuale sta nella
trasformazione del capitalismo e delle relazioni di mercato
da una forma economica a un modello latente di società, la questione
davvero all’ordine del giorno riguarda, da subito, la creazione
di “nuove forme di resistenza”, l’istituzione di “aree di vita
alternative capaci di contrastare e indebolire l’imborghesimento
della società a tutti i livelli”, la genesi di una “sfera pubblica
radicale”5, in grado di innescare un’inversione di
tendenza, un cambiamento di mentalità e una trasformazione politica
e sociale di più ampio respiro. Il dilemma non riguarda il piano
dei fini ultimi, ma la zona più ambigua del come e del quando,
il terreno costantemente aperto e incerto dei mezzi. Proprio
l’urgenza del cambiamento impone discrezione, misura, pragmatismo,
capacità critica, intelligenza.
Che fare, quindi, da dove cominciare? La risposta è in qualche
modo immediata, ma non è così elementare come sembra. Da noi;
dalla forma che diamo alla nostra vita, dal nostro modo costruire
rapporti e relazioni, spazi e occasioni di socialità. Tutt’altro
che una ricetta privata, un percorso iniziatico intimista. In
un mondo in cui la sfera pubblica e la vita privata sono fortemente
condizionate da rapporti gerarchici, convenzioni oppressive,
potere e conformismo, l’unico punto di partenza di qualsiasi
tentativo di trasformazione radicale coincide col territorio
stesso dell’individualità, con un modo diverso di essere singoli,
di giudicare e di pensare il mondo. Non siamo autosufficienti,
l’autarchia del pensiero e della coscienza sono un mito o un’ipocrisia
del liberalismo. Possiamo ritrovarci, crescere, diventare quello
che siamo solo tramite gli altri, in una trama di relazioni
libere dal potere, scandite dalla libertà e dall’uguaglianza.
Oggi provare a vivere in “modo indipendente e autonomo” (Herzen)
significa paradossalmente tornare presso la stessa origine dimenticata
del pensiero politico occidentale, nel cuore nascosto della
democrazia. Mentre le grandi risposte “collettive” della modernità
segnano il passo, l’unica forma di innovazione possibile e convincente
ha qualcosa a che fare con il modello classico della polis
inteso non come “modello” da imitare ma come un seme, o
un “germe” vitale dell’esperienza possibile di un’altra politica
6, libera dall’ossessione del potere, emancipata
dai ricatti della gerarchia. Un immaginario politico rinnovato
coincide oggi con l’esigenza, tutta da sperimentare in termini
concreti, di esperienze nuove di democrazia diretta, di partecipazione
libertaria, di autogestione e di organizzazione spontanea e
dal basso.
La proposta di Bookchin
La stessa esigenza di tracciare la linea, come diceva Goodman,
e di separarsi da un mondo sociale colonizzato dal potere e
narcotizzato dal conformismo implica, paradossalmente, una ridefinizione
della vita pubblica, la necessità di una “politica radicale”
in un contesto in cui politica e democrazia sono diventate parole
vuote, eufemismi, imbrogli. “Molto di quello che oggi chiamiamo
politica - ha scritto Murray Bookchin argomentando il punto
di vista del “municipalismo libertario”- è solo potere dello
stato, ma il termine politica, secondo la sua etimologia greca,
si riferiva una volta ad un’arena pubblica di cittadini consapevoli,
che si sentivano competenti a gestire direttamente le proprie
comunità, le loro poleis”7.
“Democrazia diretta”, “municipalismo libertario”, “l’apertura
di aree di vita alternative per bilanciare l’imborghesimento
della società”: parole d’ordine che sembrano inattuali, disperatamente
fuorigioco nell’epoca della globalizzazione planetaria. Forse
si tratta solo di un effetto ottico, di una specie di strabismo
molto convenzionale, poco acuto.
Proprio quando si fanno i conti con la globalizzazione si dovrebbe
riconoscere piuttosto il carattere illusorio delle risposte
troppo ambiziose - la politica globale, la democrazia cosmopolita
(act globally) - o il tratto ipocrita e rassegnato della
strada opposta, think globally, act locally. Senza essere
costretti a scegliere per forza tra due alternative obbligate
e speculari conviene piuttosto lavorare direttamente su modelli
di socialità, schemi di vita, ipotesi di liberazione legati
direttamente al piano inclinato dell’esistenza quotidiana, ma
già carichi di una valenza politica decisiva. Una rilettura
municipalista del tema della polis; una democrazia radicale,
una democrazia che si prende sul serio. La scommessa fondamentale
è immaginare adesso rapporti e relazioni capaci di ridefinire
simultaneamente uno stile dellíindividualità e i modelli concreti
di socialità, la sfera pubblica. Senza smarrirsi nel sogno roussoiano
di uníimpossibile volontà generale capace di riassorbire al
suo interno tutte le volontà particolari e le differenze, il
tema della democrazia diretta e il progetto municipalista costruiscono
un modello alternativo che mentre dichiara la sua intransigente
secessione dalla società insiste sulla definizione di nuclei
quasi-politici basati sull’azione di minoranze concrete, consapevoli.
Un modo -l’unico realistico - per tornare alle radici
stesse della democrazia, per provare a sperimentare le sue promesse
mancate, diluite e sciupate in un’idea di politica già declinata
in modo reazionario secondo il codice del potere e l’ossessione
della gerarchia.
Zone politiche spontanee
Quando Bookchin definisce il municipalismo una “bomba ad orologeria”
pensa - mi sembra - precisamente all’importanza di un tentativo
spericolato che non pretende di diventare un modello egemone,
un paradigma assoluto, universale. Il punto chiave è che esperimenti
di questa natura sono stati tentati, hanno una storia, non nascono
nel cielo delle idee, nell’hard discount di utopie scadute e
a buon mercato: “dai levellers della Londra del diciassettesimo
secolo agli anarco-sindacalisti di Barcellona in questo secolo,
l’attività radicale è stata sempre alimentata da forti vincoli
comunitari, da una sfera pubblica garantita da strade, piazze,
caffè”8. In fondo la stessa intuizione che spingeva
Hannah Arendt a rivalutare l’esperienza autenticamente rivoluzionaria
dei “consigli” senza lasciarsi bloccare in modo preventivo dalla
“paura delle cose mai vedute, dei pensieri mai pensati, dalle
istituzioni mai tentate”9.
Costruire zone politiche spontanee senza lasciarsi ricattare
dal realismo scientifico dei rivoluzionari di professione, dall’ossessione
della “presa del potere”, dall’ala protettiva e prevaricante
dei partiti10. Il nodo centrale sono la pluralità
di forme di socialità a valenza politica, la spontaneità di
un agire pubblico basato, come avrebbe detto Arthur Rimbaud,
sull’esigenza di “cambiare vita”. Una “sfera pubblica radicale”
che nasce e si esprime “by streets, square and cafes”, un esercizio
di democrazia sempre legato a una sorprendente pluralità di
situazioni, esperienze, occasioni diverse di socialità. Senza
cercare di riesumare il mito arcaico della polis, il
“modello” aureo e ambivalente dell’Atene di Pericle, “municipalismo
libertario”, rete e consigli, rappresentano forse l’unico cuneo
per scardinare la politica, erodere i vincoli soffocanti della
“società di massa”, rivitalizzare in modo radicale una democrazia
bloccata nella pigrizia infinita di una ripetizione e di un
imbroglio. Il progetto di una democrazia rigenerata passa attraverso
la costruzione di un intreccio complesso di esempi diversi,
postulando come meta finale non tanto una discutibile, spaventosa
unanimità, ma il modello aperto e libertario di una “comune
delle comuni” capace di trasformarsi progressivamente in una
nuova sfera pubblica e di dar vita ad un’idea di “cittadinanza
e di sistemi economici municipalizzati da contrapporre al crescente
potere dello stato-nazione e delle grandi imprese economiche
multinazionali e centralizzate” (Bookchin).
Strade bloccate senza uscita
“La terra - ha scritto Hannah Arendt in Vita Activa
- è la quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre,
per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere
gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza
sforzo e senza sacrificio”11. La rilevanza storica
e l’importanza reale di Seattle dipendono credo dall’intuizione
ancora allo stato embrionale della fragilità di questo rapporto
con la “natura” e dalla paura taciuta ma sempre crescente per
la possibile fine di questo equilibrio stentato e provvisorio
tra noi uomini e la “terra”, la natura, il “Mondo”. Se nell’immagine
della “fine del mondo” c’è sempre una componente di maniera,
per una volta bisogna riconoscere che anche gli incubi peggiori
e più inquietanti della fantascienza non è soltanto il sintomo
patologico di un immaginario estenuato o paranoico. L’uomo è
davvero “antiquato” (Anders), in qualche modo, e la forma stessa
con cui ha scelto di sopprimersi può molto probabilmente essere
nuovamente chiamata col suo vecchio nome. Il culto mistico e
acritico della tecnica, l’ideologia suicida dello sviluppo dipendono
davvero da un sistema economico che si è esteso sino a coprire
tutte le dimensioni della nostra esistenza privata e collettiva.
Se anni fa ci si sentiva un po’, ridicoli soltanto a nominarlo,
oggi possiamo accusare apertamente, con una nuova legittimità,
questo sistema totale e deprimente: il mondo dei consumi, il
capitalismo. Anche se forse è davvero troppo tardi bisogna provare
a rompere, in qualche modo e da qualche parte, il pigro imperialismo
di un principio di realtà irreale, soffocante.
Cercare di costruire spazi diversi, inventare zone alternative,
restituire un senso alla politica come cura e gestione degli
affari umani, provare a riprendere il mano il nostro destino.
In una situazione disperata, qualsiasi tentativo serio e fantasioso
in questa direzione rappresenta già un piccolo punto di vantaggio,
anche perché l’ultima chance per provare a cambiare le cose.
Una sfida terribilmente seria, niente ci garantisce che possa
funzionare. Ma va da sè che è almeno il caso di giudicare le
cose in modo limpido e di sbarazzarsi di modelli vecchi e di
riflessi condizionati impresentabili, troppo schematicamente
“politici”, inutilmente eccessivi, compiaciuti. L’estremismo
auto-gratificante di chi ha visto nella battaglia di Seattle
la garanzia di una svolta, l’aurora di una nuova rivolta planetaria
o il nuovo inizio di una “politica globale” è senz’altro una
spia che il pensiero politico e sociale della sinistra su questo
sono ancora inadeguati, spaventosamente in ritardo, subalterni
per pigrizia, fretta o ideologia a formule vuote e a slogan
inutilizzabili. Una nuova politica radicale può nascere soltanto
da sforzi isolati, rifiuti senza concessioni, consapevoli tentativi
di secessione da un clima culturale, dalla grammatica dei consumi,
dalla presenza invadente o dal simulacro dello Stato.
L’idea di una “società civile mondiale”, di una democrazia cosmopolita,
sono l’ennesimo tributo che la sinistra rischia di pagare al
mito della “presa del potere”, alla sua vecchia ossessione per
la politica-politica, al culto e all’idolatria delle maggioranze.
Sono strade bloccate, senza uscita. Partire dalla rivolta di
minoranze convinte e motivate, costruire altre sfere di socialità,
esercitare una critica esistenziale e concreta dei consumi e
provare a ragionare, in modo pragmatico, libertario, anarchico,
in termini di municipalismo, self-help, democrazia diretta,
sono forse le uniche strade ancora praticabili per provare a
tirarsi fuori dalle sabbie mobili e dalla palude stagnante del
presente. Non dobbiamo farci troppe illusioni. Il successo di
questa scelta non è sicuro nè molto probabile. Ma questa volta
la posta in gioco è veramente troppo importante per consentire
indugi, cautele tattiche, progetti a lunga scadenza o astute,
disincantate strategie. La domanda estrema di James Ballard,
“il futuro ha ancora un futuro?” - resta aperta. Non so se avremo
il tempo di scoprirlo.
Vittorio Giacopini
1. H. Arendt, Che cos’è la politica?,
ed. di Comunità, 1995, p. 152
2. Richard Rorty, Dobbiamo ancora mettere in pratica i
principi della rivoluzione francese, in “La stampa”, 7-1-2000,
p. 18.
3. Michael Walzer, La globalizzazione rilancerà uguaglianza
e umanitarismo, in “La stampa”, 7-1-2000, p. 18
4. Per una società ecologica, p. 205.
5. p. 1
6. cfr. Cornelius Castoriadis, La polis greca e la creazione
della democrazia, in 5. L’enigma del soggetto,
Dedalo 1998, p.183 sgg.
7. Murray Bookchin, Radical politics,. Cit. p. 8. Cfr.
anche Democrazia diretta, Eleuthera 1993, pp. 23-39.
8. Radical politicsv, p. 8
9. H. Arendt, On Revolution, p. 298.
10. Cit. Arendt, p. 304
11. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani 1989 p. 2
“Cercare
di costruire
spazi diversi, inventare
zone alternative,
restituire un senso alla
politica come cura e
gestione degli affari
umani, provare
a riprendere in mano
il nostro destino.”
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