rivista anarchica
anno 31 n. 271
aprile 2001



diario a cura di Felice Accame

Le virtù sociali della spiegazione

 

Steven Pinker in Come funziona la mente (Mondadori, Milano 2000) sostiene che, in questa nostra epoca "scientifica", siamo ormai costretti a cercare la spiegazione del comportamento umano come "una complessa interazione" fra sei ordini di fattori: i geni, l'anatomia del cervello, il suo stato biochimico, l'educazione ricevuta in famiglia, il modo in cui si è stati trattati dalla società in cui si vive e gli stimoli ricevuti. Qualche caso di cronaca rende l'idea del modo con cui queste conoscenze si diffondono.
Nel 1978 ci fu un tale a San Francisco che dopo essersi dimesso da un incarico pubblico chiese al sindaco di reintegrarlo. Ne ottenne un rifiuto e reagì ammazzando il sindaco più un altro dirigente. Al processo i suoi avvocati riuscirono a dimostrare che, prima del duplice delitto, costui si era ingozzato di dolciumi - dolciumi che avevano provocato un "disastro chimico" nel suo cervello e che gli costarono in fin dei conti pochissimo: sette anni di carcere.
Più o meno nella medesima epoca, una dottoressa venne fermata da un agente della polizia stradale perché sospettata di guidare in stato di ubriachezza. Forse offesa per il sospetto, lo ammazzò senza pensarci due volte. La difesa riuscì a buttarla sugli ormoni e invocò la sindrome premestruale. Un successone.
Nel 1989 due ragazzi ammazzarono a fucilate i genitori, mentre erano a letto a mangiare fragole con gelato. Al primo processo se la cavarono perché gli avvocati parlarono di legittima difesa. I due ragazzi avrebbero subìto abusi da parte del padre. Ma nel secondo processo, sette anni dopo, agli abusi non si credette e affibbiarono loro l'ergastolo.
Nel 1992 un condannato a morte per assassinio e stupro chiese la commutazione della pena, perché, secondo lui, era stato spinto ai suoi delitti dalla pornografia dilagante. Pinker non dice come è andata a finire.
Il 1993 è l'anno in cui venne annunciata la scoperta del gene dell'aggressività. Immediatamente, ad un processo per omicidio, gli avvocati difensori fecero ricorso all'argomento. "Non è stato lui, ma i suoi geni".
Nel 1994, un afroamericano salì su un treno e all'improvviso si mise a sparare su tutti i bianchi che vedeva. Ne ammazzò sei, il suo avvocato invocò la "sindrome della rabbia nera" - una sorta di malattia che toccherebbe a chi vive in una società razzista - e il suo protetto, a conferma ulteriore della sua teoria, non se la cavò.
Tutti "fatti di sangue", insomma. Quando si cerca la spiegazione di un comportamento, il caso portato ad esempio è quello in cui ci sia almeno un morto che non sia tale per vecchiaia o malattia. Per altri comportamenti - che pur sono comportamenti allo stesso diritto, come mettersi le dita nel naso, passare con il rosso o gettare una cicca di sigaretta accesa sul marciapiedi - ai geni non si fa ricorso, come non si fa ricorso allo stato del cervello e neppure si medicalizza checchessia. Sono comportamenti che non vengono ascritti a interazioni particolarmente complicate, accontentandosi, di solito, a tirare in ballo l'educazione ricevuta anche se, volessimo precisarne i confini, ci troveremmo in notevoli difficoltà. Le agenzie educative sono tante, spesso in concorrenza fra loro e, comunque, raramente coerenti: un manifesto pubblicitario, o una canzone al festival di Sanremo, può pesare di più di un sermone paterno o di un sermone paternalistico. Chi ha responsabilità - di genitore, di insegnante, di prete o di soubrette, di cantante o di candidato alla Presidenza del Consiglio, di chi racconta come sono andate le cose e di chi racconta come avrebbero potuto andare altrimenti, dovrebbe saperlo e ricordarlo.
Tutta questa tensione esplicativa del delitto è subdola. Nella pratica deborda chiaramente nel compiacimento morboso, sia allorché si scende di giorno in giorno di orrore in orrore - focalizzando gradualmente sul microscopico, inutile alla spiegazione almeno quanto è inutile sapere di quark e di mesoni per chi con una stecca imprime movimento ad una palla sul panno verde di un biliardo -, sia allorché si interroga sfacciatamente protagonisti e comparse sulle varie presunzioni di sé e del proprio stato interiore. Il giornalista, o chi ne fa le veci, che chiede a vittime e carnefici "cosa sentono dentro in quel momento" andrebbe messo seduta stante in condizione di non nuocere ulteriormente.
Nella teoria implicita che la governa, tutta questa tensione esplicativa risponde all'esigenza ideologica di un razionalismo consolatorio, ormai tanto dilatatosi da poter accogliere, con il sorriso sulle labbra, perfino la casualità più disperata. Tutto spiega, tutto ci va bene, siamo di bocca buona. Siamo pronti ad assolvere nel caso si finisca con l'individuare la causa "interna" e siamo pronti ad assolvere altrettanto rapidamente nel caso si finisca con l'individuare la causa "esterna". Siamo tanto ottimisti da non renderci neppure più conto che, una volta tolti di mezzo sia l'interno che l'esterno, la metafora è esaurita.
Sul duplice assassinio di Novi Ligure, dal giorno dopo in avanti, si sono buttati voracemente i migliori e i più tempestivi interpreti. Giornali e televisione riciclano il paradigma ovunque e comunque. Quale libro appare in libreria andando subito a ruba ? Ovvio, Non siamo capaci di ascoltarli oppure L'età incerta (sottotitolo, "i nuovi adolescenti", frase pubblicitaria, "i genitori di fronte a una grande sfida", per chi non l'avesse ancora capito) degli psicoqualcosa di regime. Viene recensito il Macbeth di Shakespeare nella versione di Cobelli e alla conclusione ci si chiede: "Se il criminale è un giovane, all'improvviso un crimine è meno importante di chi lo compie?". Stanno per uscire quattro nuovi film: non ce n'è uno che non tratti della "famiglia in crisi". Accade che una signora venga accoltellata e il titolo è subito "caccia alla figlia". Non c'è evento per il quale, furbescamente - in termini di mercato -, non si escogiti un'analogia con il paradigma primigenio. E fra le offerte non può mancare la domanda su "cosa c'è nella mente dei nostri figli ?", come se - Pinker alla mano - qualcuno potesse dirsi certo di sapere "cosa c'è nella mente dei loro padri".

Felice Accame