Scrivo queste riflessioni pochi giorni
dopo essere stato a Genova in occasione delle manifestazioni
di protesta contro il G8, ovvero contro la presunzione e la
pretesa da parte di otto uomini di decidere e disporre delle
sorti dell’intera umanità.
L’ostentata esibizione della violenza del Potere appare evidente
fin da subito. L’impatto con la città svuotata e blindata, fortificata
e difesa nelle zone centrali, alimenta sicuramente un forte
senso istintivo di repulsione verso l’arroganza e la logica
stessa del Vertice.
Condivido queste prime impressioni con un anonimo abitante genovese
che casualmente incontro in un autobus e che mi rappresenta
tutto il suo disagio e la sua preoccupazione per questa torbida
e pesante aria che incombe sulla città. Tutto lascia presagire
che la tragedia possa scoppiare con la sua carica di devastazione
e morte.
Sono andato a Genova spinto da una forte tensione etica, con
un grande senso di responsabilità e accompagnato da una sorta
di dovere morale e politico di unire la mia flebile voce a quella
di migliaia e migliaia di altri, alcuni più vicini alle mie
idee, altri con diverse idee, ma convinto di partecipare ad
un movimento nascente, spontaneo, confuso forse, ma limpido
e sostanzialmente positivo, teso ad affermare i diritti degli
esclusi, dei vilipesi, degli sfruttati, degli ultimi.
Torno da Genova col mal di stomaco, con la tristezza nel cuore,
con la rabbia di chi viene sbattuto innanzitutto ancora una
volta contro la faccia più violenta del Potere, ma anche con
la delusione di chi pensava che la storia più o meno recente
avesse insegnato qualche cosa anche a chi dichiara di stare
dalla parte della libertà e della solidarietà ma agisce in senso
diametralmente opposto.
Mi continuo a chiedere ossessivamente cosa possa avere io, e
presumo molti altri anarchici come me, da dividere, da condividere
con chi fa della violenza alla hooligans, di chi si copre il
volto e fa dell’anonimato una scelta politica, di chi manda
buste e bombe che colpiscono nel mucchio, feriscono (solo casualmente
non uccidono) persone che nulla hanno a che fare col Potere,
o con “Black Bloc” che pensano e agiscono come se fosse possibile
e soprattutto coerente con la nostra idea imporre ad altre migliaia
lo scontro per lo scontro, la violenza ribellistica e demenziale,
isolandosi volutamente da un contesto diffuso e ampio che sta
faticosamente muovendo i primi passi per riaffermare i valori
e i principi di una società migliore di questa.
Nulla, assolutamente nulla.
A volto scoperto
Certamente, come sosteneva Malatesta, noi non possiamo (e non
dobbiamo aggiungo) pensare di costruire una società libera da
soli, abbiamo il compito di stare fra la gente, suggerire e
praticare esperienze e metodi libertari, denunciare ogni forma
di potere costituito o che si forma sulla testa dei movimenti
più spontanei, testimoniare con il nostro comportamento quotidiano
la nobiltà e la grandezza dei nostri principi e dei nostri valori.
Anarchia, sosteneva sempre Malatesta, “vuol dire nonviolenza,
non-dominio dell’uomo sull’uomo, non-imposizione per forza della
volontà di uno o di più su quella degli altri”. A volto scoperto,
con le nostre contraddizioni che derivano dal vivere una vita
fatta di tante cose comuni con tutti coloro che non praticano
dominio in alcuna forma, dalla parte di chi subisce, per far
si che cresca, prima di tutto eticamente, l’idea di una nuova
società, che non può essere un qualche cosa di totalmente altro
ma che si sviluppa continuamente, incessantemente, magari anche
contraddittoriamente, come una rete che si annoda e si amplia
sempre più. Tutto questo con quella serenità e determinazione
propria di chi sa, come diceva Paul Goodman, quando occorre
“tracciare il limite” oltre il quale non si accettano compromessi
con il Potere, ma anche con la convinzione che un altro limite
invalicabile va segnato nei confronti di chi pensa di poter
imporre un mondo nuovo che non può certo arrivare senza una
coerente tensione etica tra mezzi e fini.
La violenza è comunque gerarchica e se esistono momenti storici
nei quali il suo uso può essere inevitabile per difendere la
propria e altrui libertà dalla tirannia e dall’oppressione,
occorre anche essere consapevoli che proprio per la sua intrinseca
natura autoritaria essa può giustificarsi quando appartiene
alle moltitudini che si ribellano ai pochi; può essere capita,
ma essere politicamente inutile, quando si afferma come gesto
individuale contro il tiranno.
Dobbiamo avere il coraggio di uscire dall’equivoco che ci portiamo
appresso e di considerare “anarchici” alcuni compagni che sbagliano,
perché sono i comportamenti che determinano la discriminante
e non le autodichiarazioni di appartenenza.
Faticosamente, con enormi sacrifici, centinaia e migliaia di
noi hanno contribuito e contribuiscono a far sì che le nostre
idee vengano assunte da un sempre maggior numero di persone
come utili e positive risposte alle devastanti soluzioni imposte
e ai problemi generati dalle forme del dominio psicologico,
culturale, sociale, economico e politico. E l’anarchismo sempre
più sta lì, come seme sotto la neve, come suggerisce Colin Ward
e fa sbocciare spontaneamente soluzioni antiautoritarie e libertarie
ai vari problemi che vengono creati dalle società dello sfruttamento
e dell’oppressione.
Il nostro posto è dentro la società non fuori di essa, senza
paura di sporcarsi le mani con chi non la pensa come noi, ma
anche senza il timore di confrontarsi quotidianamente con le
ingiustizie e le malvagità che molti di noi subiscono, corroborati
dalla nostra fermezza etica, dai sentimenti umani e dalla ragione
politica.
Poco importa se questo anarchismo può venir tacciato di riformismo,
di gradualismo, di imbecillità senile come purtroppo abbiamo
sentito dire. Sono sempre i comportamenti che contano, la tensione
etica tra mezzi e fini, la coerenza quotidiana, la lucidità
politica e la sensibilità sociale e culturale che contribuiscono
a far si che sempre più individui riconoscano nelle risposte
anarchiche le migliori soluzioni per allargare lo spazio della
felicità umana.
Fare chiarezza
Le autodichiarazioni referenziali dei “rivoluzionari di professione”
non ci devono spaventare, anzi ci devono inorgoglire e confermare
che siamo sulla strada giusta, proprio perché anche limpidamente
contraddittoria, e soprattutto non aristocraticamente e leninisticamente
astratta e profondamente autoritaria.
E’ indispensabile fare dunque chiarezza, non lasciare spazio
a zone d’ombra, a complicità, ad ammiccamenti con chi pensa
(ammesso che pensi) di poter cambiare il mondo con la convinzione
che basti accendere il fuoco del ribellismo, dell’esasperazione,
della violenza per far sì che vi sia una presa di coscienza
collettiva in senso libertario.
Un anarchismo per il XXI secolo non può non considerare come
indispensabile ripensare e superare quella parte del suo pur
straordinario patrimonio storico di esperienze che hanno avuto
ragione e senso in un’epoca storica che non c’è più, tanto per
intenderci quella che termina con la rivoluzione spagnola del
‘36-’39. E’ inevitabile pensare ad una nuova analisi che tenga
conto dei profondi ed epocali cambiamenti che si susseguono
con la rapidità che tutti noi subiamo. Ma al contempo è altrettanto
indispensabile tenere fermi e solidi alcuni valori di sempre,
questi si nella loro essenza assoluti, come la libertà, l’autonomia,
la solidarietà.
Troppo spesso nel corso della nostra storia, non solo recente,
abbiamo dovuto ripartire da zero per ricostruire un tessuto
sociale libertario, un’immagine vera e positiva dell’anarchismo
concreto, quello che c’è già nei meandri della società autoritaria,
quello che nasce spontaneamente o comunque accolto liberamente
perché utile a far vivere meglio e più liberamente le persone
oppresse, per poterci permettere ancora una volta di lapidare
questa ricchezza per l’umanità intera.
Come suggerisce Colin Ward
Allora bisogna avere il coraggio di rischiare di perdere per
strada qualche ribelle perché ci ritiene accondiscenti o “riformisti”
e non “rivoluzionari” se questo serve, come serve, per incontrare
quante più persone che anarchiche non sono o che non sanno di
essere, magari settorialmente, su alcune questioni che coinvolgono
la loro quotidiana vita, almeno libertarie.
L’etichetta a questo punto serve a poco. Come suggerisce Colin
Ward, probabilmente abbiamo bisogno di “meticizzarci” sapendo
comunque che l’etica sostanziale del nostro DNA è sempre la
stessa.
Da questa ulteriore spinta verso le suggestioni e le proposte
più stimolanti che provengono dalle diverse forme sociali, potremo
ricavare ancora nuova linfa per ribadire che siamo anarchici
e orgogliosi di esserlo.
Francesco Codello
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