Nuove elezioni nuova decantata riforma
della giustizia. Si arrabbia la magistratura, si arrabbiano
le forze politiche attaccate alle toghe.
Un potere forte, quello degli ermellini, che si batterà
con ogni mezzo per conservare. Userà parole come
indipendenza, terzietà, autonomia,
equilibrio dei poteri, “la nostra tradizione ci impone…”
eccetera eccetera.
La vera riforma sarebbe l’istituzione del giurì, cioè
l’aggiunta dei giudici del fatto ai giudici del diritto. L’aggiunta
del popolo, ai magistrati togati, obbligati a vestire di diritto
la decisione del sovrano, il popolo, sul fatto.
Anche nelle aule giudiziarie italiane si dovrebbe sentire: “I
giurati hanno raggiunto un verdetto?” “Certo Vostro onore, l’imputato
è ritenuto … ”.
Da lì solo la fase del diritto.
Il giurì è il risultato politico di ogni rivoluzione
liberale, quella che in Italia deve ancora esser fatta.
Nel 1215, quando i baroni inglesi strappano la firma del Re
sulla Carta costituzionale più famosa della storia, chiamata
in seguito Magna Charta, all’artico 39 scrivono: “Nessun
uomo libero sia arrestato o imprigionato o multato o messo fuori
legge o esiliato o danneggiato in alcun modo, né ci volgeremo
o manderemo alcuno contro di lui, eccetto che per legale giudizio
di suoi pari e secondo la legge del regno”.
Dopo che il Congresso di Filadelfia del 15 maggio 1776 invitò
a guerra ancora aperta le tredici colonie originarie
a darsi una costituzione, la Virginia aprì la strada
del costituzionalismo moderno adottando il progetto di Giorgio
Mason il 12 giugno 1776. Il suo esempio fu seguito nella sostanza
e spesso nella forma dalle altre colonie.
“In tutti i processi capitali o criminali ciascuno ha diritto
di chiedere la causa e la natura dell’accusa, di essere messo
in confronto con gli accusatori e testimoni, di chiedere prove
in suo favore, e un rapido giudizio da parte di una giuria imparziale
di dodici uomini della vicinanza, senza il cui consenso unanime
egli non può essere dichiarato colpevole; né può
egli essere costretto a dare prove contro se stesso. Parimenti
nessuno può essere privato della sua libertà,
eccetto che secondo la legge del paese o dopo giudizio dei suoi
pari”.
Nel Federalista n. 83 (una raccolta di articoli apparsi
sulla stampa nordamericana per discutere sulla Costituzione:
la possiamo considerare un commentario alla Costituzione degli
Stati Uniti d’America) Alexander Hamilton (1757-1804) delegato
dello Stato di New York alla Convenzione di Filadelfia, in merito
al processo con giuria ha scritto: “I fautori e gli avversari
del progetto della Convenzione, anche se non hanno alcun altro
punto di accordo, pure concorrono tutti a dare grande valore
ai processi con giuria; quando poi esiste una differenza tra
loro, essa è la seguente: i primi la considerano una
salvaguardia della libertà, gli altri la configurano
come il vero baluardo di un governo libero”.
“La giuria” ha scritto Alexis de Tocqueville nell’opera Democrazia
in America, “è soprattutto un’istituzione politica. La
giuria è la parte della nazione incaricata di presiedere
all’esecuzione delle leggi come la camera è quella incaricata
di farle; e, perché la società sia governata in
modo costante, bisogna che, con quella degli elettori, anche
la lista dei giurati si allarghi o si restringa. Questo punto
di vista deve soprattutto interessare il legislatore; il resto
è un accessorio”.
All’indomani della Rivoluzione francese “l’assemblea nazionale
decreta: 1° che ci saranno giurati in materia criminale”.
I gesuiti e la Chiesa
Il giurì in Italia apparve con la Repubblica Cisalpina
nel 1797 (legge del 15 luglio); e con essa scomparve nel 1799.
I giurati popolari riapparvero -formalmente- nella Costituzione
della Repubblica italiana presieduta da Napoleone, approvata
il 26 gennaio 1802, ma l’adozione fu differita di dieci anni.
In Italia il giurì è sempre stato osteggiato.
Da Cavour, il quale nella seduta parlamentare del 5 febbraio
1852, in tema di riforma della giuria popolare istituita per
i reati di stampa, interviene da ministro per dire che “i giudici
popolari, potevano risultare persone di pochissima cultura,
molto poco adatte per apprezzare le conseguenze che un reato
di stampa, rispetto ai governi esteri, può avere sopra
le cose del paese”.
Sempre contro la Chiesa Cattolica lasciando il compito di definire
il problema ai gesuiti di Civiltà Cattolica che,
fin dal 1851 (la rivista nasce nel 1850), scrivono: “come si
può sperare che la sentenza di un giudice di circondario
o d’un giurì composto di calzolai e di bettolieri
medicherà tutte le piaghe della maldicenza, della satira,
della calunnia, del sofisma?”.
“E il famoso Giury” scriveranno ancora i gesuiti nell’elenco
dei mali derivanti dalle idee liberali, “non è ora considerato
da ognuno come una istituzione pazza che assolve e condanna
a caso, facendo perdere la testa ai giudici ed agli avvocati
più spesso che non ai rei?”.
Stesso clima un secolo dopo, alla Costituente repubblicana,
quando il 6 marzo 1947 il rappresentante del Partito Liberale,
on. Alfonso Rubilli, vantando la personale esperienza d’aula
giudiziaria, in merito ai giurati, dirà: “I giurati erano
in gran parte Consiglieri comunali, perché i professionisti,
ed in genere quelli delle categorie più elevate, trovavano
sempre il modo di farsi ricusare. (Commenti - Interruzioni).
Ora sapete che notavamo, e non di rado, perché la votazione
avveniva in udienza, di fronte a noi? Che un giurato guardava
il suo vicino, e se questi sulla scheda scriveva sì
egli pure scriveva sì, se poi vedeva scrivere
no si regolava egualmente. E questi consiglieri comunali,
ex giurati e presso a poco analfabeti, possono giungere al Senato!
Ma dove siamo arrivati? (Commenti - Si ride).
Una voce. “Alla sovranità del popolo!”
Risponde l’on. Rubilli: “La sovranità del popolo va rispettata
più di ogni altra cosa ma dobbiamo evitare gl’inconvenienti
dei capricci elettorali”.
La vera riforma della giustizia, è quindi, da un punto
di vista logico, storico, istituzionale, comparato, l’istituzione
della giuria, l’introduzione nell’aula giudiziaria come giudice
del fatto, del sovrano, il Popolo. Tutto il resto, sono chiacchiere
elettorali.
Prima che qualcuno si alzi a dire dell’indipendenza dei magistrati
togati, della loro professionalità, della loro storia,
proponiamo anche noi la Loro storia, la storia dei giudici in
un non lontano passato.
Partendo dal fatto che il giudice è un uomo anche quando
è in toga e come uomo ha le proprie idee, la propria
cultura, educazione, convinzioni, guardiamo alcune decisioni
di quella magistratura contraria, ieri come oggi, all’istituzione
del giurì
L’a. 3 del D. P. 22 giugno 1946, n. 4, nel tentativo di chiudere
con amnistia la parentesi fascista, disponeva che il perdono
non era applicabile ai delitti politici commessi con sevizie
efferate. Cosa intendere per sevizie efferate?
Ecco come risposero i magistrati togati, obbligati ad ammettere
il fatto ma vogliosi di redimere l’atto.
“È da escludere che le sevizie abbiano avuto la particolare
efferatezza, che è di ostacolo all’amnistia, se, secondo
le stesse dichiarazioni della vittima, consistettero soltanto
in percosse ai genitali ed in ferite con un coltello, sotto
le unghie, alle mani ed al viso. Tali ferite sono da ritenersi
ben lievi se i brigatisti, lo stesso giorno in cui furono inferte,
potettero condurre il ferito da Padova ad Abano” (Cass. 2^ sez.
ud. 25 luglio 1946. Pres. Serena Monghini; rel. Badia). “Annulla
senza rinvio per amnistia”.
“È applicabile l’amnistia ad un capitano di brigate nere,
che, dopo avere interrogato una partigiana, l’abbandona in segno
di sfregio morale al ludibrio dei brigatisti che la possedettero,
bendata e con le mani legate, uno dopo l’altro e poi la lasciarono
in libertà” (Cass. 2^ sez., ud. 12 marzo 1947 Pres. Giuliano;
rel. Violanti). “Annulla senza rinvio per amnistia”.
“Nel caso di chi ha partecipato alla tortura di un partigiano,
il quale con le mani e piedi legati, fu sospeso al soffitto
facendogli fare il pendolo e venne colpito con pugni e calci
per costringerlo ad accusare i propri compagni, non sussiste
la particolare efferatezza” (Cass. 2^ sez. ud. 17 sett. 1946.
Pres. Giuliano; rel. Guidi). “Annulla senza rinvio per amnistia”.
Fu amnistiato colui che colpì “violentemente al capo
un partigiano tanto da tramortirlo” (Cass. 2^ sez. 8 gennaio
1947. Pres. Mangini; rel. Colucci).
E anche colui che uccise con preterintenzione, dato che il “decreto
di amnistia” motiva la Corte “usa il termine puro e semplice
di omicidio; ed omicidio, senza alcuna aggiunta, è il
nomen iuris dell’omicidio doloso”. “Annulla per amnistia”.
(Cass. 2^ sez. ud. 30 ottobre del 1946. Pres. Jannitti Piromallo;
rel. Giannantonio).
Si potrebbe continuare. I repertori e i massimari sono pieni
di sentenze come quelle appena viste. Si sceglie di andare oltre,
e guardare all’operato dei giudici professionisti in altri settori.
1° gennaio 1948: entra in vigore la Costituzione della Repubblica.
Da questo momento tutti hanno il dovere di voltare pagina, di
dare inizio a qualcosa di nuovo. Un dovere che sentivano in
pochi.
7 febbraio 1948: la Corte di Cassazione a sezioni unite deve
decidere il destino di tutte le norme prodotte dal fascismo
ormai incompatibili con il nuovo ordine democratico. I ricorrenti,
condannati per collaborazionismo per reati commessi prima che
la legge 27 luglio 1944 li creasse invocano l’a. 25 della Costituzione
(“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge
che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), cioè
il principio dell’irretroattività della norma penale:
nessun delitto senza legge.
La Cassazione, con un salto mortale interpretativo, stabilisce
che l’a. 25 “impegna soltanto il futuro legislatore, e non abroga
le leggi penali preesistenti”. La sentenza fa una distinzione
fra norme precettive, cioè di immediata applicazione
e norme programmatiche. Sarà il futuro legislatore ad
abrogare, con norme ispirate ai nuovi principi, le disposizioni
divenute incompatibili col nuovo ordinamento.
Con tale decisione la Corte congela il vecchio sistema. Sopravvive
così anche l’a. 113 delle leggi di Pubblica Sicurezza
(R.D. 18 giugno 1931, n. 773, tuttora vigente) che prevedeva
la licenza del questore per “affiggere scritti o disegni, o
fare uso di mezzi luminosi o acustici per comunicazioni al pubblico”,
o “per affiggere giornali, ovvero estratti o sommari di essi”.
La polizia poteva negare la licenza “alle persone che ritenga
capaci di abusare”.
Un permesso preventivo della polizia in materia di stampa: la
peggiore delle censure disposte dal fascismo per “imperiose
ragioni politiche” per volere della Corte di Cassazione resta
legge della neonata repubblica.
E i giudici di merito, quelli che devono dare giustizia ai casi
concreti, come si comportarono? come combinarono l’a. 113 delle
leggi di pubblica sicurezza con l’a. 21 della Costituzione per
cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta da autorizzazioni o
censure”?
Non chiamate il 113
L’articolo 113 delle leggi di pubblica sicurezza fu un nodo
giuridico attorno al quale furono consumate lotte a tutti i
livelli istituzionali. La polizia lo applicava; i neo cittadini
ne impugnavano i mandati; parte dei giudici lo consideravano
vigente, altri abrogato.
“Commette la contravvenzione di cui all’art. 113 della Legge
di P.S. chi deposita volantini nella sede d’un partito, senza
aver avuto le prescritte autorizzazioni” (Cass. 3^ sez., 13
dicembre 1949, sent. n. 2273. Pres. Mangini; est. Del Guercio).
Qualcuno non era d’accordo quindi intervenne la Cassazione con
un’altra sentenza da ricordare: “L’art. 21 della Costituzione
della Repubblica Italiana afferma principi direttivi e programmatici
che abbisognano, per la pratica attuazione, di una elaborazione
legislativa. Conseguentemente, non può riconoscersi al
precitato articolo carattere di valore attuale, né efficacia
abrogativa rispetto alle norme dell’articolo 113 T.U. delle
leggi di P.S. (Cass. Sez. Un. pen. ud. 15 aprile 1950. Pres.
Mangini; rel. Consalvo).
Ormai è fatta. Questa volta la sentenza riguarda proprio
l’art. 21 della Costituzione, forse il più importante.
E così viene legittimata la censura di polizia, per cui
servirà la licenza del questore per qualsiasi scritto.
“Bene è ritenuta la contravvenzione di cui all’art. 113
del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza a carico di chi,
senza la prescritta licenza, abbia affisso all’esterno della
porta della propria abitazione un cartellino con la scritta
‘questa famiglia è per la pace contro il patto atlantico’”
(Cass. sez. 3^ ud. 21 aprile 1951, sent. n. 1979. Pres. Berardi;
rel. Rossi).
Nel nome dei vecchi principi non si teme nemmeno il ridicolo.
“È configurabile la contravvenzione prevista dall’art.
113 del T.U. della legge di P.S. a carico di chi faccia, con
calce, iscrizioni contro il governo sul piano stradale, senza
essere munito della prescritta autorizzazione” (Cass. sez. 3^
ud. 11 novembre 1950, sent. n. 2194. Pres. Fornari; rel. Donzellini).
L’a. 21 della Costituzione è, dunque, per la Cassazione
una norma programmatica; il suo valore precettivo, infatti,
“porterebbe disordini irreparabili, giacché le più
nocive e maligne espressioni del pensiero, dall’ingiuria all’oltraggio,
dal vilipendio all’istigazione a delinquere, acquisterebbero
impulsi tali da infirmare lo stesso principio di sovranità
dello Stato” (Cass. 12 ottobre 1950).
E tutto questo fino al 1956, quando la Corte costituzionale
nella sentenza n. 1 della sua storia “dichiara l’illegittimità
costituzionale delle norme contenute nei commi primo, secondo,
terzo, quarto, sesto e settimo dell’art. 113 del testo unico
del testo di pubblica sicurezza”. Tutto questo e altro ancora
grazie alle toghe di professione.
Giudici professionisti? No grazie.
Rinaldo Boggiani
|