rivista anarchica
anno 32 n. 281
maggio 2002


diritti

Governando per decreto
di Antonio Cardella

Tutela legislativa dei propri interessi personali, regali alla Confindustria, privatizzazioni selvagge, saccheggio dell’ambiente… Il governo Berlusconi è all’opera.

Chi sostiene con mano decisa le sorti di questa rivista ha sempre avuto il pregio di lasciare ai redattori la più ampia libertà di scegliere l’argomento dei propri articoli, non solo, ma di rifiutarsi categoricamente di fornire orientamenti sulla posizione della rivista in ordine a emergenze o a fatti di rilievo particolare. L’altro giorno, nel corso di una telefonata, a me che insistevo, l’olimpico Paolo suggerì, riottoso: potresti occuparti di politica interna, se vuoi. Poggiai la cornetta del telefono (io vado ancora all’antica, non posseggo quegli oggetti gracchianti che scelgono sempre i momenti meno opportuni per lanciare le loro stridule versioni di spartiti peraltro assai illustri), poggiai la cornetta – dicevo – fregandomi le mani per avere avuto almeno qualcosa in più del solito “scrivi quello che più ti ispira”. Ma il sollievo durò lo spazio di un minuto.
Mi resi immediatamente conto che, sul piano governativo, a parte la sempre più ampia tutela legislativa degli interessi di Berlusconi, le elargizioni quotidiane alla Confindustria, la corsa alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, il saccheggio dell’ambiente e la legalizzazione di tutte le costruzioni abusive, fossero pure sorte in terreni demaniali o sul bagnasciuga delle nostre povere coste, a parte queste cose, diciamo così, nuove di zecca. Il resto appariva di normale amministrazione: le banche continuavano ad essere svaligiate (poco male), i tabaccai rapinati e uccisi, le ville dell’opulento nord svuotate. Per i cittadini, la solita bufala: paga e rallegrati, perché anche se nessuno se ne accorge, le tasse sono diminuite, il costo della vita anche, e se al 27 del mese nessuno più ci arriva, deve essere colpa di qualche male oscuro perché il “paniere”, sul quale si misura l’andamento dell’inflazione, dice che andiamo benissimo, che i prezzi sono stabili e che meglio andrà nel prossimo, radioso futuro.
Mi manca il cuore, però, di continuare a scherzare su tali argomenti e mi auguro che il popolo italiano, anche quella parte cospicua che ha votato il blocco berlusconiano, si accorga finalmente che gestire uno stato, specie in tempi come i nostri, non è impresa da affidare a questa sorta di “corte dei miracoli” quale si rivela quella che ha Berlusconi a presidente.
Il conflitto sociale, che è già nelle dinamiche del liberismo economico in atto nei paesi delle così dette democrazie occidentali, eleverà i suoi toni laddove le diseguaglianze saranno più marcate e più difficilmente sanabili. Così in Italia, malgrado i toni trionfalistici dell’ISTAT sull’occupazione (ci sarebbero 350 mila occupati in più), la mancanza di lavoro, quella reale, si aggira nel meridione sul 23% della popolazione attiva, senza considerare le centinaia di migliaia di giovani che, tra lavori interinali, formazione lavoro, articolisti comunali, semestralisti e via dicendo hanno una vita talmente precaria che solo i tromboni sfiatati, fra i quali, in prima fila, anche il nostro serafico presidente Ciampi, possono sollecitarli a mettere su famiglia e fare dei figli. Ma ciò che più avvilisce è la speculazione che su questa precarietà si innesca. I famosi Call Center hanno costruito sulle sovvenzioni, dirette e indirette, del governo e sul lavoro legalmente sfruttato di migliaia di giovani, colossali guadagni, liberandosi poi dei lavoratori al termine di quel periodo al di là del quale avrebbe dovuto inquadrarli, pagando regolarmente i contributi e rispettando i minimi salariali, senza sovvenzioni governative da pretendere.
Si arriva oggi all’assurdo che una famiglia del sud, per ottenere “il privilegio” di un lavoro per il figlio o la figlia, deve rimetterci del suo perché il salario percepito dall’occupato, se lontano dalla famiglia, non serve neppure ad assicurargli una civile sopravvivenza, in modo particolare se questo lavoro è al nord e in aree nelle quali il costo della vita è più elevato. Per non parlare delle garanzie e della sicurezza del lavoro. Il nostro paese è al primo posto in Europa nella triste graduatoria degli incidenti sul lavoro. I morti e gli invalidi si contano a migliaia e nessuno si preoccupa neppure di far rispettare quelle poche leggi che tutelano i lavoratori. Particolarmente significativo e per molti versi allucinante, è ciò che recentemente si è verificato a Gela, dove i lavoratori del petrolchimico sono scesi in piazza perché fosse loro consentito di morire di leucemia o di cancro ai polmoni pur di non perdere il posto di lavoro. E il governo ha acconsentito immediatamente: con un decreto legge ha dichiarato innocua l’utilizzazione di un combustibile, giudicato inquinante e nocivo da tutti gli analisti. Ci aspettiamo adesso che Berlusconi e i suoi giullari risolvano nella stessa geniale maniera il problema dell’inquinamento delle città e, in prospettiva, quello dell’universo intero.
Voltiamo pagina.

La questione meridionale

Il mondo confindustriale, il governo , il governatore Fazio e l’avvocato Agnelli sono in festa: la ripresa economica è già in atto, si protrarrà per tutto il 2002 e finirà, a regime, per attestarsi sul 3,5% Questi sono grosso modo i conti che gli analisti forniscono per l’anno in corso. Vediamo in che misura sono corretti oppure peccano di astrazione.
Intanto il dato di crescita non è valutabile se lo si astrae dall’andamento delle economie del mercato internazionale. Le cifre indicate, cioè, possono anche essere credibili a condizione che il trend complessivo dell’economia mondiale segua un andamento di eguale indirizzo. Il che è tutto da dimostrare. Esponiamo alcuni fattori che appaiono tutt’altro che in linea con queste previsioni.
Intanto, il prezzo del petrolio. Gli sconvolgimenti in atto nell’area mediorientale inducono a prevedere un innalzamento dei prezzi e, addirittura, se il conflitto dovesse radicalizzarsi, la stessa possibilità di approvvigionamento. Sappiamo tutti che il prezzo del petrolio giuoca un ruolo determinante nei bilanci dello stato e se dovesse superare certi livelli (ai quali siamo prossimi) costringerebbe i governi a rastrellare risorse da altri comparti. Pertanto, se la capacità di spesa non è sufficientemente elastica (e il bilancio dello stato italiano è tutt’altro che elastico) si rischia di toccare nervi scoperti della comunità, come la sanità, i servizi pubblici e via dicendo. Mancherebbero poi le risorse per gli investimenti e, di conseguenza, la possibilità di creare nuova ricchezza e di tenere il passo con le economie più forti nei comparti dell’adeguamento tecnologico e della ricerca (già adesso penalizzata, e pesantemente, dalla riduzione drastica degli stanziamenti).
Vi è poi, irrisolto, il problema meridionale. Metà della Penisola ha bisogno di infrastrutture. Ha cioè bisogno di stanziamenti che possono trovare la loro remunerazione (in termini monetari ma anche in termini di occupazione e di crescita del tessuto civile) soltanto nella media e lunga durata. Chi oggi è in grado di compiere questo sforzo? Sui privati abbiamo già visto che non si può contare. Vengono al sud ancora con la mentalità coloniale, di utilizzare cioè le sovvenzioni dello stato per rastrellare le risorse locali e di lasciare poi il contesto più povero di come lo avevano trovato. Del governo attuale è inutile parlare: anche ammettendo la sua buona fede (e stiamo ipotizzando un assurdo) non ha la capacità direi culturale per compiere un’operazione così complessa. Il risultato di questo stato di cose, appena accennate per l’economia stessa dell’articolo, ma infinite altre se ne potrebbero aggiungere, è che il sud, suo malgrado, costituirà un freno ad un equilibrato rilancio dell’intera economia nazionale. Ma i problemi esistono, eccome, anche per le economie dell’opulento nord.
Ammettiamo per un momento che le prospettive di crescita ci siano veramente e nella misura prevista. Ciò implica che le esportazioni andranno sempre meglio e che le industrie avranno più commesse. A parte le dimensioni attuali della nostra attività industriale trainante, che può sopportare sino ad un certo punto un surplus di domanda, vi è il problema, già urgente, della mano d’opera che manca. Se ancora non spariamo contro gli extracomunitari che entrano nel nostro Paese, ciò è dovuto al fatto che le industrie del nord hanno letteralmente sete di manodopera, che non trovano in patria perché questo governo, ma anche gli altri che lo hanno preceduto, ha innalzato il livello del conflitto sociale, non solo, ma ha reso così precaria la condizione dei nuovi occupati, giovani in massima parte, che ha ridotto le possibilità di una migrazione interna sostenibile. Pur essendoci gran bisogno di lavoro, l’accesso alle imprese è fortemente limitato dalle condizioni insostenibili di quanti sarebbero disposti ad allontanarsi dai luoghi d’origine pur di trovare un’occupazione.
Infine, il problema dei trasporti. Questa voce, in Italia, innalza in misura anomala il prezzo unitario dei prodotti e, alla lunga, queste diseconomie finiranno per pesare in un contesto mondiale che cerca di razionalizzare al massimo i costi, migliorando le condizioni di trasferimento delle merci. E non ci saranno correzioni derivanti dal livello dell’inflazione, così come in altri tempi si cercava di uscire dalle molte strettoie della nostra economia.
Come si vede, si vende la testa dell’orso prima che sia abbattuto: un modo vecchio di imbonire la gente, proiettandola in un futuro prefigurato radioso per occultare i mali che sono alla porta. Ciò che rattrista è che a questo giuoco non si sottrae quella che impropriamente chiameremo la sinistra italiana. Non un progetto, un’idea portante, un’analisi corretta della situazione.
Ma parlare della sinistra è come sparare su un’ambulanza in corsa verso l’ospedale (anche se l’immagine letteraria ha perso la sua dimensione paradossale da quando lo sparare sulle ambulanze pare sia divenuto l’esercizio abituale delle truppe di Sharon). E allora lo spazio per un intervento reale del nuovo movimento di contestazione c’è, eccome! Ma ad alcune condizioni non semplici.

 

Calarsi nelle realtà locali

Si deve tornare nelle fabbriche e nei luoghi deputati alla vita collettiva, non già per armare la mano di lavoratori e cittadini come pretenderebbe la demenza senile di alcune frange avanguardistiche prive di retroguardia, ma per indurli a difendere i diritti acquisiti e richiederne altri e nuovi che abbraccino tutti coloro che accedono al lavoro, qualunque sia il contratto loro offerto. Occorre anche inceppare i meccanismi che regolano la grande distribuzione, che è l’anello più grande, ma anche il più fragile del sistema di produzione capitalistico. Allora poniamoci all’ingresso dei supermercati e informiamo e consigliamo i cittadini su ciò che è bene comprare e ciò che, viceversa, è meglio lasciare negli scaffali perché pericoloso per la salute e inutilmente caro.
Certo è importante essere presenti laddove si prendono decisioni che passano sulla nostra testa, o nei luoghi dove l’arroganza dell’occidente industrializzato tenta con la forza di piegare la volontà dei popoli. Ma è egualmente importante calarsi nelle realtà locali, laddove si insinua e si cementa la logica del capitalismo e dove le forze antipopolari rastrellano consensi e legittimazione a governare. Il berlusconismo non si sconfigge imbavagliando o, peggio ancora, eliminando Berlusconi, ma solo sottraendogli la base dalla quale trae la sua forza elettorale.
Insomma bisogna ancorare alla terra la contestazione, con obiettivi e metodi che siano adeguati ai singoli contesti. Solo così è possibile vincere, se non proprio la guerra, almeno le prossime battaglie.

Antonio Cardella