rivista anarchica
anno 32 n. 282
giugno 2002


razzismo & dintorni

La paura genera mostri
di Maria Matteo

 

Le tensioni sociali finiscono con lo scaricarsi in una grande, incontrollata paura, che è facile scaricare sui più deboli, sugli immigrati, sui «famigerati» clandestini.

I razzisti, gli xenofobi, i fascisti della nazione e quelli del campanile, quelli in doppio petto e quelli dal cranio rasato descrivono l’Europa come una fortezza assediata, mal difesa da governanti troppo malati di universalismo per affrontare con il dovuto rigore le orde di barbari che ogni giorno ed ogni notte tentano di varcarne i confini. La costruzione dell’immagine del nemico, che le varie destre europee identificano con l’immigrato povero, con il profugo straccione, diverso, alieno, potenzialmente criminale è il grande collante che spiega i successi dei patroni delle piccole patrie, dei Bossi e degli Haider, e dei nazional-popolari alla Le Pen.
Quest’immagine orrenda ma potente è lo scenario in cui si alimenta e sedimenta il consenso raccolto in ogni angolo d’Europa dalla destra più estrema. Una destra feroce la cui irruzione sulla scena sociale e politica europea non può più essere descritta come un episodio marginale, transitorio, segnale di malesseri passeggeri. A Berlino, nei quartieri di quella che fu la zona Est, un immigrato rischia la pelle ad attraversarne le strade; in ogni angolo d’Europa crescono gli episodi di intolleranza, le aggressioni anche mortali. I roghi dei centri di accoglienza per immigrati fanno da contrappunto agli attentati alle sinagoghe. Luci sinistre nella notte che ci sta avvolgendo.
Viviamo in un panorama sociale il cui segno distintivo è l’insicurezza, la crescente eteronomia, la sempre più marcata erosione del sistema di garanzie per chi lavora, invecchia, si ammala, studia. Tutte le energie, le tensioni finiscono con lo scaricarsi in una grande, incontrollata paura, che è facile scaricare sui più deboli, sugli immigrati, sui «famigerati» clandestini.

Livida primavera

La paura genera mostri. È un vento impetuoso che soffia e spazza via ogni cosa sul suo cammino, frantuma i legami sociali, trasforma altri esseri umani in nemici da imprigionare, cacciare, combattere.
In questa livida primavera il Mediterraneo, sempre più tristemente inteso come «mare nostrum» è solcato da carrette cariche di disperati alla ricerca di un’opportunità di vita. Quelli che ce la fanno, e non sono certo tutti, trovano polizia, centri di detenzione sovraffollati e miserabili, espulsioni di massa. Poco conta che persino le convenzioni internazionali le vietino, poco conta che chi subisce un trattamento tanto inumano e degradante sono esseri umani la cui sola «colpa» è l’essere nati nel posto sbagliato. Poco conta che il provvedimento di espulsione per molti, provenienti da paesi in guerra o appartenenti a gruppi perseguitati, significa la morte quasi certa. Persino un’istituzione come l’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ha espresso malessere e disappunto per la legge sull’immigrazione in corso di approvazione nel parlamento italiano. E certo l’ONU non può essere sospettata di attitudini libertarie o banalmente di sinistra. A Lampedusa gli immigrati sono ospitati per settimane sotto misere tende: il lager dell’isola è ormai troppo affollato.
Nelle «nostre» città e nei nostri paesi le voci di protesta sono ancora una minoranza: gli altri, i più, applaudono. Anzi per taluni queste bestialità non sono ancora sufficienti... chi ha lo stomaco passi qualche ora ad ascoltare Radio Padania ed avrà occasione di sentire opinioni e suggerimenti degni della peggior marmaglia nazista.
Una sempre più forte richiesta d’ordine emerge da vasti strati sociali che hanno subito la rottura di equilibri apparentemente consolidati. Ne sono coinvolti sia i ceti medi che quelli popolari che in questi anni hanno visto infrangersi un modello di relazioni sociali che aveva retto dal dopoguerra. L’erosione del welfare e la profonda trasformazione dell’ambito lavorativo ne sono i segni più evidenti. Tutti oggi si trovano ad agire sulla scena sociale praticamente senza rete: sempre meno si può confidare nella possibilità di godere di un certo grado di assistenza sanitaria o d’accedere ad un buon livello d’istruzione, sulla sicurezza della pensione o del posto di lavoro. Termini quali lavoro interinale, in affitto, contratti di formazione sono divenuti ormai usuali nel nostro vocabolario e segnano una condizione che ha nella precarietà il proprio carattere distintivo.
Ciascuno è forzato alla disponibilità, disponibilità ad adattarsi a situazioni sempre mutevoli, ad assumere ruoli e mansioni diversificate, a modificare rapidamente il proprio orizzonte esistenziale. In una situazione in cui non vi sono più punti di riferimento stabili cresce la sensazione di insicurezza al punto che ogni forma di diversità pare una minaccia all’ordine sociale per il solo fatto di esistere.
Un assieme sociale che non riesce (più) a trovare elementi coesivi ed identitari realmente pervasivi si ricompatta attraverso l’individuazione di un nemico comune, ritrovando un volto, spazi aggregativi, protagonismo politico. Riemerge da un passato che speravamo sepolto il sogno perverso del recupero di una purezza originaria, l’incubo in cui facilmente si radicano i miti della razza e della nazione, miti potenti capaci di innescare conflitti devastanti. Assistiamo ad un paradosso: l’individuo, privo di identità personale, la cui dignità si celebra nel rito dello shopping, ritrova un’identificazione comunitaria nel rifiuto dello straniero, dell’immigrato che è la vivente testimonianza delle immense masse di diseredati che premono alle porte dell’occidente ricco e sviluppato.
Terre d’Europa, che erano state a lungo terre d’asilo per i profughi ed i perseguitati si sono trasformate in luoghi di frontiera. Una frontiera lungo la quale uomini armati affrontano esseri umani che la miseria, le persecuzioni, le guerre sospingono lontano dai loro paesi.
Il montare della marea scura del fascismo è altresì sintomo inequivocabile del fallimento delle sinistre moderate che in Francia, come in Italia ed in Austria, più realiste del re, hanno ovunque perseguito programmi politici e sociali che le rendevano indistinguibili dalle destre liberali.

Scatole vuote

Il desiderio di recupero di identità e appartenenze di stampo nazionalista ed intrinsecamente razzista è strettamente connesso al fallimento del progetto d’autonomia dell’individuo che è stato il senso profondo degli ultimi due secoli di storia occidentale. Nelle nostre società il progetto di autonomia dell’individuo si è tradotto nella creazione del cittadino, entità astratta che di volta in volta è elettore, contribuente, acquirente, spettatore, produttore ed in quanto tale formalmente identico ed intercambiabile. L’individuo quale soggetto cosciente e creativo non è che una promessa costantemente disattesa, poiché il singolo è concepito e voluto come segmento tra altri segmenti, non come persona reale. L’incapacità di mirare ad individui concreti ha il suo contraltare in una società impotente nel farsi luogo in cui le differenze, riconosciute ed accettate come tali, possano interagire positivamente.
Gli ideali di uguaglianza, solidarietà, libertà si sono ridotti a scatole vuote, prive di contenuto, di capacità di definire un assieme sociale, di costituire un senso di appartenenza che sappia unire gli sfruttati contro gli sfruttatori, gli oppressi contro gli oppressori.
La sinistra moderata e anche, non di rado, quella meno moderata appaiono incerte, balbuzienti, incapaci di fornire risposte vere alle questioni di natura sociale ma anche culturale che ci troviamo di fronte. Quelli che non tentano pateticamente di imitare le destre, rincorrendone le tematiche sicuritarie e le politiche liberali, si gettano confusamente a percorrere un terzomondismo indecente, che finisce con il valorizzare acriticamente qualsiasi rivolta antioccidentale, poco importa se del tutto impresentabile. Dopo l’11 settembre abbiamo assistito al conio di categorie quale quella di «proletariato islamico» che la dice lunga sulla mancanza di prospettive di certe aree ormai orfane di tutto. Mi è capitato di presenziare ad un’iniziativa femminista in cui c’erano donne che distribuivano volantini contro le ingerenze clericali nella loro vita e insieme un proclama a favore del «proletariato islamico»! Evidentemente l’esotismo, che a ben vedere è una forma blanda di razzismo, rende i preti meno antipatici se risiedono in luoghi lontani. O, forse, vale la vecchia massima per cui i nemici dei miei nemici sono miei amici?
L’accesso di un figuro come Le Pen al secondo turno delle presidenziali francesi ha certo dato uno scossone positivo al di là delle Alpi: per settimane centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza, hanno animato sit-in, assemblee, liste di discussione. Ma la reazione ad uno choc, pur positiva, non è ancora la cura del male.
Per fermare l’ondata limacciosa e bruna che sta investendo le nostre vite non basterà in Francia, come non è bastato in Italia, il richiamo generico all’unità antifascista. Solo l’iniziativa diretta, la capacità di autorganizzazione dal basso possono ridisegnare un assetto sociale capace di trovare la coesione politica e culturale per affrontare i veri nemici, quelli che ogni giorno ci sottraggono libertà, possibilità di vita, di costruzione di un futuro dignitoso per tutti. Sono i nemici di sempre: la gerarchia, la sopraffazione, l’ingiustizia degli organismi statuali e capitalisti.
Occorre riappropriarci delle radici di un umanesimo concreto, capace di costruire la libertà di tutti e di ciascuno, ridefinendo, giorno per giorno per le strade e per le piazze dei luoghi che abitiamo, il senso di un universalismo che sappia valorizzare le differenze come elemento di crescita dell’autonomia di milioni di individui solidalmente diversi.

Maria Matteo